Robert Putnam sostiene che nel Nord dell’Italia la comunità ha «strutture orizzontali di reciproca solidarietà», mentre nel Sud ci sono «strutture verticali di sfruttamento e di assoggettamento» [La tradizione civica nelle regioni italiane, 1993].
È tutto chiaro. Francesco Caracciolo dice che «non è mai stata messa in dubbio l’enorme differenza e l’evidente diversità tra le due parti d’Italia. È stata invece tentata sempre una spiegazione dei fenomeni diversi esistenti nelle due diverse aree». Lo storico e saggista si chiede: «L’impegno civile e la solidarietà sociale sono conseguenze delle istituzioni, presenti e passate, e, alle origini, dei Comuni nel Nord e della forte monarchia normanna nel Sud? Oppure le istituzioni sono, al contrario, il risultato dell’impegno civile e della solidarietà sociale, che, a loro volta, sono conseguenze della mentalità e della condotta dei singoli individui e che si sono formate in epoche molto più remote?» [La «diversità» risale ad epoche più lontane, 1994].
«Mentalità e condotta dei singoli individui» che determinano «impegno civile e solidarietà sociale» e che quindi danno vita alle «istituzioni». E a questo proposito ritorna la domanda che ha guidato la stesura del libro Ombre a Mezzogiorno e che abbiamo riportato integralmente nella prima parte di questo pezzo giornalistico: «…il cittadino calabrese ha avuto un atteggiamento passivo?». Senza dimenticare gli insegnamenti di Max Weber il quale ci dice che la comunità nasce da una consapevolezza collettiva dove «la disposizione dell’agire sociale poggia su una comune appartenenza, soggettivamente sentita dagli individui che ad essa partecipano».
Per cercare una risposta, per capire quando, come e perché si è andato formando l’atteggiamento che il cittadino calabrese ha tenuto nel corso dei secoli, prendiamo atto dell’opinione di Caracciolo (secondo il quale «le cause del divario, prima che nella società, siano da ricercare nel comportamento individuale, nel tipo d’uomo che nei millenni andò formando il corpo sociale con le sue istituzioni e con la sua capacità di organizzazione e di reazione») e proviamo a formulare una proposta interpretativa che ci riporta ai Bruzi (Brettii, Bréttioi nelle fonti greche, Bruttii nelle fonti romane).
Proviamo. Il punto è cercare di conoscere le ragioni che avrebbero potuto determinare la debolezza dell’identità e della coesione sociale del popolo calabrese. Una debolezza che si manifesta anche nel confronto con altre regioni del Meridione come Puglia e Sicilia, per esempio. Facendo risalire le “origini” di quella debolezza al tempo dei Bruzi, i quali chiudono il ciclo migratorio della gente osco-umbra durato in Italia ottocento anni.
Nati nel 356 a.C. da una rivolta contro i Lucani (presso i quali erano servi e pastori), si organizzano in tribù sparse sulle dorsali appenniniche, provano a uscire dall’isolamento e, appresi l’alfabeto e la lingua greca, diventano bilingui, adoperano l’Osco per i testi e l’alfabeto greco per le monete.
Agricoltori e pastori con spiccate attitudini militari, essi si muovono senza un progetto e senza una concezione di nazione; occupano il territorio con insediamenti sparsi, praticano la rapina e vagano compiendo razzie ai danni delle colonie della Magna Grecia, si inseriscono nello scontro tra Roma e Cartagine, sfruttano la rivalità tra le stesse colonie greche, acquisiscono consapevolezza della loro potenza, si danno un’organizzazione politica e amministrativa («costituirono un governo comune» scrive lo storico Diodoro), accolgono al loro interno gli ultimi discendenti degli Enotri, inseriscono elementi indigeni nelle strutture sociali delle colonie elleniche e ne conquistano l’egemonia, estendono i commerci nel Mediterraneo, battono moneta con la legenda in greco.
Ma la loro storia di popolo libero e autonomo è breve, dura all’incirca 150 anni e finisce quando Annibale lascia l’Italia e s’imbarca verso Cartagine. Roma estende il dominio in Africa e il Mediterraneo diventa il Mare Nostrum. La Calabria è facile preda delle legioni e i Bruzi – ricorda Giuseppe Brasacchio – sconfitti definitivamente dai Romani, sono ridotti a classe di “peregrini dediticii”, potendo trovare lavoro solo come pastori-schiavi nelle tenute dei latifondisti, oppure come operai impiegati nello sfruttamento delle foreste demaniali della Sila per l’estrazione della pece bruzia e per la lavorazione di legname da costruzione. Non possono essere arruolati come soldati; possono solo svolgere funzioni ausiliarie al servizio dell’esercito: rematori schiavi sono segnalati su alcune navi della flotta romana che veleggia verso Cefalonia (199 a.C.) nella guerra contro Filippo re di Macedonia.
Si erano completamente arresi (deditio) ai Romani, ai quali avevano affidato se stessi, con moglie, figli, possedimenti, usanze e culti religiosi, ed erano considerati stranieri nella loro terra. Perdono le caratteristiche tipiche degli Italici e i costumi si appiattiscono. Non rimane nulla. Strabone segnala «la perdita delle costumanze caratteristiche, l’oggettiva insignificanza». Il loro stesso etnonimo ha valenza esclusivamente geografica, e anche se esso è utilizzato per circa un millennio, è facile per i Bizantini cancellarlo definitivamente intorno al 650 e cominciare a identificare l’antico Bruttium con la denominazione Calabria.
Un nome – quest’ultimo – assegnato alla penisola salentina, in Puglia, e che nell’Italia di Augusto era compreso nella II Regione “Apulia et Calabria”, come potete vedere dalla cartina a corredo del testo, nella quale spicca anche la terza Regione col nome “Lucania et Bruttii”.
È questa la vicenda che la Storia consegna. In Sicilia a partire dal Neolitico si conoscono Sicani, Elimi e Siculi i quali contribuiscono a far balzare il territorio in primo piano («Ed è una costante dell’isola, straordinariamente ricca di testimonianze lungo tutto il corso di una storia gloriosa per la quale, una volta tanto, non avremo bisogno di chiederci […] quando e come si è formata l’autonomia locale» che ha permesso alla Sicilia di vivere una civiltà isolana che si è sviluppata attraverso il tempo «mantenendo e affermando la propria fondamentale indipendenza»). Altrove «la naturale autonomia geografica, la coerenza storica e culturale della Puglia attraverso il tempo non hanno bisogno di dimostrazioni» tanto da far parlare del «continuo rinascere di autonome forme della civiltà pugliese». In Basilicata i Lucani arrivano a controllare un’area che si distingue per l’ampiezza («solo gli Etruschi, nell’Italia preromana, ne avevano altrettanta»)[il virgolettato è tratto dal volume Archeologia delle regioni d’Italia di Sabatino Moscati].
E poi Corfinium (antica città italica fondata dai Peligni nel cuore dell’Abruzzo, scelta come capitale della Lega Italica quando Marsi, Peligni, Marrucini, Frentani, Irpini, Iápigi, Sanniti, Lucani e altri nel 91-89 a.C. prendono le armi per combattere la guerra sociale contro Roma), Corfinium – dicevamo – emette monete confederali nelle quali compare per la prima volta il nome “ITALIA”, con sul retro una testa femminile e sul verso una scena di giuramento.
Mentre tutto questo accade nelle diverse aree della Penisola, per l’odierna Calabria (chiamata ancora Bruzio) abbiamo davanti un popolo che non ha avuto tempo per manifestare in pieno la propria autonomia e che il gioco politico e militare dell’epoca ha travolto impedendo di realizzare l’unità della regione. E quando Apulia, Calabria e Lucania (assieme a Campania meridionale, Lazio, Etruria meridionale) diventano «grandi zone culturali» durante quella civiltà “appenninica” centro-meridionale che si caratterizza essenzialmente pastorale, nel Bruzio – e solo nel Bruzio – «non si elaborano culture originali, ma si accolgono influssi siculi, apuli e adriatici» [R. Bianchi Bandinelli, Antonio Giuliano, Etruschi e Italici prima del dominio di Roma, 1973].
Un popolo – quello bruzio – che non ha avuto tempo per creare una comunità di individui disposti a identificarsi in una storia e in una propria tradizione. Non ha avuto tempo per alimentare quel sentimento di appartenenza capace di portare allo sviluppo di una identità specifica, di una etnia con caratteristiche geografiche, linguistiche, storico-sociali e culturali comuni. Non ha avuto tempo per radicarsi, rafforzare e rendere duraturo il legame col territorio al fine di trasmettere quelle che Strabone ha appena definito «costumanze caratteristiche», e quindi creare un patrimonio antropologico culturale tale da orientare e influenzare anche il comportamento umano.
«L’estrema appendice della penisola italiana, che si allunga per 240 chilometri fra i due mari più noti e più frequentati dell’antichità classica» – scrive Giuseppe Spiriti – «fu, diversamente da ogni altra regione italiana, completamente coperta dalla pertinenza territoriale delle colonie elleniche fondate sulle sue coste fra VIII e VI secolo a.C.». È questo uno dei motivi che hanno tagliato le ali all’avventura autonomistica dei Brettii?
Da allora le terre della Calabria sono state divise, contese tra Longobardi, Bizantini e Arabi prima, Angioini e Aragonesi, Francesi e Spagnoli dopo; a volte terre di frontiera, altre volte terre abbandonate. E se una strada carrozzabile – costruita tra fine Settecento e inizio Ottocento per rompere l’isolamento e facilitare le comunicazioni – è chiamata «Strada Regia delle Calabrie», ci sarà pure un motivo! Non a caso l’espressione «le Calabrie» è stata – e sarà, credo – utilizzata per sottolineare la diversità di un territorio che, pur appartenendo alla stessa regione, presenta sicuramente caratteristiche non omogenee.
Se guardiamo oltre i confini della regione appaiono evidenti le differenze nel complesso di relazioni gerarchiche fra i gruppi che compongono la struttura sociale delle aree della Paese. Ci sono aree dove tra classe politica e cittadini c’è tutto un mondo di corpi intermedi e di società civile, mentre in Calabria tra classe politica e cittadini c’è un vuoto che lascia il campo ad un rapporto di servilismo che spinge entrambe le parti a servirsi l’una dell’altra, nel reciproco soddisfacimento di bisogni e interessi che sono e restano individuali.
Manca quell’etnia con caratteristiche geografiche, linguistiche, storico-sociali e culturali comuni che i Bruzi non hanno avuto il tempo di consolidare e trasmettere alle generazioni che sono venute dopo. E se in qualche altra parte avanzata dell’Italia ci sono state etnie con caratteristiche geografiche, linguistiche, storico-sociali e culturali diverse, lì probabilmente c’è stato un denominatore comune che è riuscito a tenere unite persone capaci di vivere all’interno di una comunità intesa (secondo la definizione di A. Scaglia in Comunità e strategie di sviluppo, Milano 1988) come «un’area geografica definita da confini legali, occupata da residenti impegnati in attività economiche interrelate e costituenti un’unità di governo».
Armando Orlando