Dopo aver letto la silloge In te, ho sentito l’impellente bisogno di scrivere a mia volta di uno scrittore e poeta di Decollatura: Michele Astorino… già conosciuto sulle pagine dei social, dove pubblica sistematicamente alcune delle sue poesie, e poi negli incontri sul territorio di un’organizzazione della quale condividiamo tessera e ideali.
La sua è una poesia che si direbbe per larghi tratti intimista, ma che spesso decide di aprire ampi varchi a un respiro universale, quasi sempre a sfondo ecologista e pacifista, e – avendolo conosciuto – non potrebbe essere altrimenti.
In questi squarci improvvisi c’è il rispetto profondo per il pianeta su cui viviamo, descritto in modo lirico con immagini potenti: «La terra si bagna / di pioggia e si copre di neve, / si ferma davanti al mare.» (La terra trema), in netta contrapposizione con il suo abitatore più evoluto (?), l’uomo sempre «in bilico tra odio e amore, / con la brama / di piegare il mondo / al suo volere.» (La perfezione), con tutta l’umanità messa sul banco degli imputati per le sue innegabili responsabilità nell’aver insidiato – appunto – “la perfezione” del mondo.
E c’è un’invocazione alla pace che verrà, perché «ci sono miliardi di stelle / e cieli a noi sconosciuti, / verrà dopo il sangue / innocente,» (Conflitto), insomma è l’universo a suggerirgli che così il genere umano non può continuare, che ci sarà un tempo futuro (come il tempo verbale che utilizza consciamente) in cui le guerre dovranno pur finire di affliggerci con la loro insensatezza. Ma per ora c’è solo la possibilità di un abbraccio dal sapore consolatorio: «Abbracciami / dentro questa guerra / in questa notte / di bombe sotto le stelle,» (Abbracciami).
Arriva a ipotizzare, il poeta, un’evoluzione che ha clamorosamente sbagliato direzione: «tutto sempre uguale: / brutalità e violenza / senza evoluzione.» (La luna sul mondo), e sembra essere piuttosto una “devoluzione”, nonostante i progressi della tecnologia, perché «ci siamo evoluti / trasferendo l’uso della forza / nelle macchine senza cambiare scopo.» (Evoluzione), e ora che stiamo delegando alle macchine anche la forza mentale oltre che fisica, perdiamo ancora un po’ della nostra umanità.
Non mancano nella sua poesia i riferimenti al sociale: «Una coperta avvolge / uomini senza le ali: / siamo tutti profughi» (Sulla nostra pelle), con un’attenzione sempre alta per gli ultimi della terra, siano essi i migranti dalla pelle scura o gli indiani d’America, vittime di un genocidio ante litteram, quando «Lo spirito parlava nei cuori / e la montagna in alto era sacra.» (Il grande spirito), con l’invito a rivalutare la loro cultura fatta di “necessario” e mai di “superfluo”. E c’è un afflato verso un altro mondo possibile, dove si può imparare a guardare solo «il cielo senza le nazioni / immensamente libero: / mai un muro, / una trincea, una recinsione, / una dogana, una bandiera.» (Cielo), un mondo senza più i confini tracciati dalla cupidigia dell’uomo su una carta geografica.
I suoi versi vivono a volte di contrasti che sono sintomo di vita vissuta o desiderata, di aspettative non risolte, di sogni che non vogliono infrangersi contro la semplice realtà del mondo: «Sei la vita / in ogni istante / che nasce e muore, / sei temporale / e giorni di sole, / sei gioia e dolore, / sei mancanza e desiderio.» (La vita), e di un senso di straniamento, di perdita di identità e dell’orientamento: «Quante stelle stasera! / Dentro, sotto, sopra / nel cielo. / Smarriti nel tuo abbraccio ignoto.» (Connesso).
Altre volte, la sua cifra poetica prende la strada ineluttabile del divertissement, rivelando un aspetto ludico altrimenti nascosto, privilegiando giochi di parole e rime spudorate: «Se rifletti ci sono utili i difetti / non ci sono i perfetti, / ma limiti circostanti o pesanti / e aspettative mancanti.» (Difetti perfetti). Un ritorno al bambino che è stato, che siamo stati, che è un po’ rimasto in tutti noi: Saint-Exupéry lo dice nella dedica a Leone Werth all’inizio de Il Piccolo Principe. Un bambino che è anche in me ed il mio migliore amico; proprio per questo cerco anch’io, come il poeta, di passare un po’ di tempo con lui «e nello stupore / senza indugiare / come una volta / ritorno a giocare.» (Il mio amico bambino).
Ma il filo di Arianna che attraversa la sua poesia e non ci fa smarrire, al contrario ci fa procedere con sicurezza nel labirinto dei suoi versi è un minimalismo autoimposto che interessa stile e contenuto: «Sarà il mio niente / il bene più prezioso / in questo c’è dentro tutto;» (C’è dentro tutto). “Eppur si muove” questo niente, mormorerebbe ancora Galileo Galilei, perché qui aleggia sempre un senso di incompiuto che dimostra una ferma volontà di muoversi verso un fine ignoto, un segreto da disvelare: «In ogni luogo / siamo un piccolo granello / che rotola / sopra una spiaggia ignota.» (Per ogni luce).
E tutto ciò serve a mettere meglio in evidenza il valore catartico della sua poesia, scritta prima di tutto per se stesso: «Sono l’energia / che segue il tuo pensiero, / l’essenza della tua anima nascosta» (Sono la tua poesia), per provare a dare continuità a momenti di vita altrimenti troppo effimeri: «Non siamo ora / per un momento / che già non è / più lo stesso.» (Pioggia di stelle).
La poesia come terapia, per lo stesso poeta e per chi si vuole curare con la lettura, un sicuro elisir di lunga vita: «Quando un giorno / io andrò via / e non tornerò, / tu resterai e io saprò / cosa dirai: “Questo è ancora / il tuo foglio / dove scrivevi / la bellezza di un sogno”.» (Terapia)… dove il poeta scriveva i suoi versi per tanti inutili, per qualcuno vitali: «È la poesia… come la pioggia / scende sopra la terra» (Una scintilla). Amen, e non mi viene nient’altro da aggiungere.
Raffaele Cardamone