C’è una sottile malinconia che serpeggia tra i ricordi, una ferita aperta che brucia ogni volta che torno con la mente alle primavere passate, agli odori dell’infanzia, ai sapori veri che oggi sembrano fiabe lontane.
Era normale, un tempo, vedere i nostri genitori e i nostri nonni conservare le sementi in scatole di latta, nei flaconcini dei medicinali, o avvolte nella carta ingiallita dal tempo. Semi tramandati di mano in mano, di generazione in generazione, con nomi strani e poetici: i fagioli punteggiati, chiamati “culiscuverte”, o quelli bianchi col punto nero detti “monachelle”. Bastava aprire un sacchetto per sentire il profumo della storia.
E poi le mele “dece”, piccole, rosso-verdi, profumatissime, si conservavano tra le felci, in soffitta, e bastava salire una scala per essere avvolti da un’aroma che inebriava l’intera abitazione. I “pirilli”, minuscole pere gialle che si mangiavano come ciliegie, lasciando tra le dita solo il picciolo. O i fichi, quanti nomi, quante sfumature di gusto. Le “calastruzze”, le “signurelle”, le “mastru ‘Ntoni” , ognuno con la sua forma, il suo colore, la sua polpa generosa.
Erano frutti imperfetti, magari poco produttivi, ma ricchi di storie che davano anima ad ognuno di loro. Ognuno raccontava una storia. E oggi, quelle storie stanno scomparendo. La legge del mercato ha decretato la fine di ciò che era “troppo poco”, baccelli con pochi semi, frutti piccoli, grappoli leggeri. Come se il valore di un frutto potesse misurarsi solo in chilogrammi.

Un esempio emblematico è lo zibibbo antico, profumato, intenso, impareggiabile come sapore, ma con grappoli poco densi e per questo scartato. Ancora una volta, la produttività ha avuto la meglio sulla qualità.
E così, poco a poco, è svanita una biodiversità che aveva nutrito intere generazioni. I cetrioli locali, spinosi ma croccanti. I grani antichi, alti e ondeggianti nei campi, che non creavano intolleranze. Le zucche dai colori strani, le conserve di pomodoro dai semi selezionati in famiglia. Un patrimonio di sapori, forme e profumi che definiva il nostro paesaggio agricolo e la nostra identità.
E non erano solo i contadini a custodire queste ricchezze. Anche l’impiegato, il maestro, l’operaio si dedicavano all’orto. Un piccolo appezzamento dietro casa era un atto d’amore per la terra e una fonte di cibo genuino.
Poi sono arrivate le piantine ibride, selezionate per produrre tanto e subito, ma incapaci di generare semi fertili. E con loro è iniziata la fine. L’orto è diventato sterile, il sapere agricolo popolare è svanito, e con esso i legami tra le famiglie, che un tempo si scambiavano semi e consigli come si fa con doni preziosi.
Ma a questa deriva naturale e sociale si è aggiunta un’altra, più subdola e pericolosa, quella degli OGM.

Un tempo osteggiati in Europa, oggi gli organismi geneticamente modificati si stanno facendo strada sotto mentite spoglie. Il nome che per anni aveva fatto paura – Monsanto – non esiste più. Dal 2018, la multinazionale americana è stata acquisita dalla Bayer, gigante tedesco della chimica e della farmaceutica. Un’operazione lucida e strategica, che ha fatto della Bayer un cavallo di Troia per portare gli OGM in Europa. Oggi il marchio Monsanto non esiste più, è stato completamente assorbito da Bayer, mentre i suoi prodotti, le sue tecnologie e, soprattutto, le sue politiche di controllo genetico delle sementi continuano ad avanzare sotto nuove spoglie.
Oggi i semi Monsanto, con tutte le loro controverse implicazioni, continuano a diffondersi sotto l’etichetta Bayer. Una mossa di marketing, certo, ma anche una manovra politica potente. La legislazione europea, sotto la spinta delle lobby agroindustriali, si sta piegando. I paletti normativi stanno cadendo, uno dopo l’altro.
E intanto, agricoltori come quelli canadesi, che hanno combattuto per anni contro l’esproprio genetico dei propri campi, tornano alla mente: semi contaminati dai campi OGM vicini, brevetti che sottraggono la proprietà della terra, diritti calpestati in nome del profitto. Ora quegli stessi scenari rischiano di ripetersi qui.
Le grandi multinazionali – Bayer, BASF e affini – dettano l’agenda del futuro agricolo, trasformando il cibo in un prodotto industriale, svuotato di storia, di gusto, di identità.

Ma non tutto è perduto.
A Decollatura, quest’anno, è accaduto qualcosa di importante. Un gruppo di coltivatori si è riunito per scambiarsi sementi come un tempo. Un gesto piccolo ma dal significato enorme. È da lì che bisogna ripartire. Un segnale incoraggiante, un’iniziativa lodevole, che meriterebbe il sostegno degli Istituti Agrari di Soveria Mannelli e Scigliano.
Gli Istituti Agrari di Soveria Mannelli e Scigliano dovrebbero diventare i protagonisti di un progetto ambizioso: raccogliere, catalogare e custodire le sementi autoctone del Reventino-Savuto. Dovrebbero essere il cuore pulsante di una rinascita agricola e culturale.
Perché proteggere la biodiversità non è un lusso per nostalgici: è un atto di resistenza, un gesto politico e poetico insieme.
Significa salvare il sapore delle zuppe della nonna, il profumo delle mele in soffitta, la memoria della terra che ci ha cresciuti. Significa difendere la nostra identità, un seme alla volta.