ULISSE, NAUFRAGO NELLA TERRA DEI FEACI
di Michele Manfredi-Gigliotti –
Il popolo dei Feaci (in greco Faiakes – in latino Faeaces) è ricordato, principalmente, per due caratteristiche: per il loro profondo e naturale senso dell’ospitalità e per la loro grande abilità nella navigazione. L’individuazione, però, di questo popolo è stata sempre incerta, malgrado l’immortalità conferita loro dal grande aedo dell’Odissea, che lo rese protagonista delle premurose ospitalità ed assistenza offerte ad un naufrago sconosciuto, la cui narrazione, dopo tanti millenni, è pervenuta sino ai nostri giorni rendendoci partecipi della loro eccezionale magnanimità della quale poté usufruire Ulisse, che provenendo dall’isola di Calipso, Ogigia, approdò sulle loro coste.
Il dubbio amletico sulla esatta identificazione non riguarda solo l’aspetto etnico, quanto anche, o forse sarebbe meglio dire soprattutto, l’aspetto geografico non essendovi certezza su quale fosse la terra abitata da questo popolo.
Le ipotesi avanzate dagli studiosi sono numerose, ma tutte fondate, per la verità, su elementi che vengono eletti, volta per volta, a sostegno della ipotesi del momento, quasi mai convergenti, per la maggior parte di essi, su una sola ed unica direzione storica.
Addirittura, alcune di tali ipotesi risultano assolutamente incredibili come quelle che identificano la terra dei Feaci nelle odierne Germania, nella Tunisia, nell’Istria, nella Palestina, nella Andalusia.
Il fatto è che quando si intravvede una res nullius, l’istinto di ciascuno è quello di tentare di appropriarsene, diventandone padrone, anche a costo, se necessario, di inventare diritti successori o di usucapione.
Ma un’indagine storica va sempre fondata sulla serietà e non può consentire alcuna improvvisazione riguardo agli approdi da conseguire che dovrebbero essere sempre caratterizzati, per una norma generale non abbisognevole di illustrazione, da principi scientifici.
Non intendiamo rappresentare un elenco esaustivo di tali ipotesi, ma indicarne solo qualcuna, tra le più autorevoli e seguite, per dare un’idea dell’assoluta diversità, è il caso di dire, degli approdi conseguiti. Non sfuggirà all’attento lettore come tutte tali ultime ipotesi abbiano come presupposto fondante, comune a tutte quante, che la terra dei Feaci fosse un’isola.
Tucidide (Guerra del Peloponneso) identificò tale terra con l’isola, allocata nel mare Egeo, di Corcira corrispondente all’odierna Corfù.
Strabone, invece (Geografia), non ha dubbi, intanto, che si tratti di un isola che da lui viene collocata in mezzo all’Oceano Atlantico ma, rendendosi conto che così la distanza esistente tra tale sito e l’isola di Itaca sarebbe assolutamente incompatibile in rapporto ai tempi del nostos del Laerziade, è costretto a collocare nell’Oceano Atlantico anche l’isola di Ogigia, dalla quale Ulisse prende il mare su una zattera e finisce con l’approdare nella terra dei Feaci.
Altri, come Champault (Pheniciens et Grecs en Italie d’apres l’Odyssée) identifica l’isola dei Feaci con quella di Ischia (Pitecusa) sita nel Mediterraneo, mentre altri hanno ritenuto di rivolgere la propria attenzione all’isola di Sardegna e alla Sicilia.
Qualche altro ritiene che i Feaci non abitassero un’isola, ma la terraferma identificando quest’ultima con una terra di Calabria, la Costa Viola di Palmi.
Quasi tutti gli autori delle ipotesi sopra indicate sono stati suggestionati o da motivazioni fantasiose o campanilistiche o dalla traduzione errata dei versi dell’Odissea che si riferiscono a questo popolo, per cui hanno tratto l’errato convincimento che i Feaci fossero effettivamente degli isolani e, quindi, sono stati psicologicamente indotti a cercare e collocare il toponimo in mezzo ad uno dei mari allora conosciuti.
Noi condividiamo la tesi sostenuta dallo studioso Armin Wolf (Der Weg des Odysseus; Die Wirkliche Reise des Odysseus) in quanto è da noi ritenuta la più fondata e, per questo, è stata pienamente condivisa; è questo il motivo per cui la tratteremo per ultima, ritenendo di dover dare al lettore ulteriori e più dettagliate notizie attinenti al problema trattato, prima di avere esposto quelli che sono i pilastri della ipotesi prescelta.
Coloro che sostengono la tesi isolana aggiungono che l’isola dei Feaci avesse il nome di Scheria (in greco, Scerih, oppure anche Sceria e, successivamente, Kerkura), corrispondente all’isola di Corcira, odierna Corfù, che spesso viene anche indicata con il termine greco di Drepanh (letteralmente, falce e, quindi, avente la forma di una falce), con allusione alla fisionomia topografica dell’isola.
E’ verosimile che l’isola di Corfù abbia una forma che ricorda vagamente quella di una falce, ma riteniamo fortemente improbabile che, con riferimento ai tempi nei quali si svolge l’azione omerica, qualcuno potesse avere una visione panoramica dell’isola inquadrandola dall’alto.
A nostro modestissimo parere è, in verità, molto più probabile e, soprattutto più agevole, a motivo della visione orizzontale che se ne aveva allora e che se ne ha ancora oggi, che il termine drepanh sia stato attribuito a quel golfo, situato sulla terraferma, che, ai tempi del nostro riferimento, veniva, in lingua greca, comunemente chiamato
megale Terinaiwn kolpos (Tucidide) e, anche, Lamhtikos
kolpos (Aristotele), mentre, successivamente, venne denominato Terinaeus Sinus (Plinio).
Oggi, è il Golfo di Lamezia Terme.
Nella breve nomenclatura che precede sono state omesse denominazioni palesemente erronee oppure di evidente natura campanilistica che, per questo, non interessano la presente ricerca.
Descrivere la bellezza maestosa del golfo lametino e dei rilievi, compiaciuti e discreti, che su di esso incombono, facendogli cornice; sentire e, poi, narrarne l’euritmico respiro, così ampio e regolare da sconoscere momenti extrasistolici; misurarne, con il metro degli occhi, la sua ampia arcuazione che si estende da Capo Vaticano (il toponimo proviene dalla lingua latina, Vaticinium, che ci fa andare con la mente alla presenza storica, in loco, di un tempio officiante funzioni oracolari) a Campora San Giovanni (il primo termine del toponimo deriva dalla circostanza secondo cui, nella zona occupata dall’insediamento o nelle sue immediate vicinanze, ebbe ad accamparsi Annibale con il suo esercito), tutto ciò induce ad affermare che il termine Drepanh si confà più a questo luogo che non all’isola di Corfù.
Questa affermazione ci crea qualche difficoltà di natura psicologica perché qualcuno potrebbe scambiare l’attribuzione alla stregua di una apologia pro se, considerate le nostre origini e la premessa da noi sopra esposta.
Tuttavia, anche se in presenza di tale prospettiva di metus, non possiamo trattenerci dall’affermare quella che noi consideriamo la verità vera.
La falce del golfo, che comprende nel suo arco tutta la Piana di Lamezia Terme, dominata dal colore verde, ma, allo stesso tempo, policroma secondo il tipo di agricoltura praticata, che si estende all’incirca per trenta chilometri, ha una ampiezza tale da comprendere non solo le terre alluvionali vere e proprie, tramite le quali è stato azzerato l’originario arcipelago in cui consisteva, nei primordi della creazione del mondo, la Calabria e, così, dando origine, quasi in un modo mitologico, sia alla Piana di Lamezia, che alle catene montuose del Reventino e del Mancuso, con i comuni di Lamezia Terme, Gizzeria, Falerna, Nocera Terinese, San Mango d’Aquino, Conflenti, Curinga, Feroleto Antico, Maida Jacurso, Platania, Pianopoli, Serrastretta, Soveria Mannelli, San Pietro a Maida, Motta Santa Lucia.
La bellezza dei luoghi non è facilmente narrabile. Per averne piena contezza, è necessario recarvisici e soffermarsi finché, per dirla con Omero, rododattilo il sole tramonti, ad ovest, dietro le isole di Stromboli, Panarea, Vulcano, Lipari, Salina, Filicudi e Alicudi. Allora, si assisterà ad un fenomeno eccezionale, con il mare che diventerà di un colore mai visto altrove con tanta eccezionale bellezza, al punto che il grande vate, accompagnando con la narrazione il falso Mente che si recava a Temesa, nella sua lingua, lo definì oinopota (del colore del vino).
Si comprenderà, adesso, perché mai questa riviera oggi é chiamata Riviera dei Tramonti.
Dal racconto di Omero, viene fuori evidente il particolarmente sacro e profondo senso dell’ospitalità dimostrato dalla principessa Nausicaa, figlia di Alcinoo, la quale fu la prima ad incontrare lo straniero e non ci pensò più di tanto a trattarlo, con tutti i riguardi e con un senso profondo di umanità, quale ospite. Successivamente il trattamento venne iterato da re Alcinoo e dalla regina Arete, sua moglie, nonché, caratteristica davvero eccezionale siccome corale, dall’intero popolo dei Feaci, al punto che l’ospitalità al naufrago viene concessa senza alcun indugio, malgrado gli ospitanti avessero piena consapevolezza della palese avversità nutrita nei confronti di Ulisse da parte del dio Poseidone.
Dai tempi dell’Odissea, il senso dell’ospitalità (xenia), quale sentimento imbevuto della sacralità più innata, spontanea e filantropa, vissuta dall’uomo verso l’altro uomo, che tutt’oggi caratterizza la gente di Calabria, è rimasto immacolato, tale e quale veniva praticato dai Feaci.
E’ indispensabile, a tal punto, esaminare come Omero abbia narrato il naufragio di Ulisse, proveniente dall’isola di Calipso, sulla spiaggia di Scheria.
Non si può prescindere, in considerazione di alcune traduzioni dal greco non proprio ortodosse, dal trascrivere il testo omerico al fine di controllare che la traduzione risponda letteralmente all’originale.
Si riporta, qui di seguito, la traduzione in lingua italiana del testo in lingua greca sopra trascritto, che è stato tratto da Omero, Odissea, versione di Rosa Calzecchi Onesti, con prefazione di Fausto Codino, Einaudi 1963.
“επτα δε kαι δεkα μεν πεον ηματα ποντοπορευων,
οκτωκαιδεκατη ”
(Odusseias, Lib. VII, vv. 267/282)
“Per diciassette giorni navigai, traversando l’abisso,
al diciottesimo apparvero i monti ombrosi
dell’isola vostra: si rallegrò il mio cuore,
infelice! invece dovevo incontrare di nuovo gran pianto,
che mi mandò Poseidone Enosictono,
scagliandomi contro i venti, inceppò il mio cammino,
sollevò un mare orrendo, mai l’onda lasciava
di trascinarmi qua e là, gemente sopra la zattera.
Poi il turbine me la sconnesse; e io allora
nuotando attraversai questo mare, fin che alla terra
vostra m’avvicinarono il vento e l’acqua, spingendomi.
E mentre tentavo l’approdo, mi sbatté l’onda a riva,
contro l’immane scogliera, in un luogo pauroso.
Strappato di là, ripresi a nuotare finché raggiunsi
un fiume, e qui mi parve il luogo migliore,
privo di rocce; ed era al riparo dal vento:
là caddi svenuto”
Al fine di fugare ogni dubbio ed evitare di generare interpretazioni aberranti in relazione a quanto dirò, dichiaro subito che io sono cresciuto, scolasticamente e, per conseguenza, umanamente (non scholae, sed vitae discimus), nutrendo la mia anima da fonti straordinarie quali sono state, tra le molte altre, le traduzioni dalla lingua greca a quella italiana, di entrambi i poemi omerici, sia dell’Odissea che dell’Iliade (Omero, Iliade, versione di Rosa Calzecchi Onesti, con prefazione di Fausto Codino, Einaudi 1950).
Non ho avuto l’occasione, naturalmente, di conoscere personalmente la traduttrice, anche se il suo lavoro didattico è arrivato ugualmente a segno. Per questo, nutro ancora nei suoi confronti una naturale, profonda ammirazione da discente.
Se mi è capitato di sottolineare qualche erroneità nella sua traduzione, ritengo che questo piccolo merito censorio lo si debba attribuire proprio a lei.
Come si può facilmente constatare, nella traduzione che precede, da raffrontarsi necessariamente con quella in lingua greca (per cui i termini in entrambe le versioni, vengono evidenziati in modo da favorirne il raffronto), l’inciso gaihs umeterhs è stato tradotto con isola vostra che, in verità, non trova alcuna giustificazione linguistica, tranne a volere debordare dal campo strettamente linguistico e riferirci ad una teoria, avanzata alcuni decenni addietro, ma che non ha potuto resistere alle successive, fondate censure.
Tale teoria, prendendo lo spunto da alcuni luoghi letterari dell’Odissea, isolati e decontestualizzati rispetto alla trama generale e, inoltre, con l’aggiunta di avere posto in essere una visione dei luoghi e una narrazione dei fatti approssimative e arbitrarie, riteneva che la Terra dei Feaci, per quello che ne aveva scritto Omero, fosse un’isola.
Al fine di avvalorare tale tesi, i suoi sostenitori hanno preso in considerazione, sic et simpliciter, anche i tempi di percorrenza dall’isola di Ogigia della zattera che trasportava Ulisse; i tempi di percorrenza dal lido del mare della terra dei Feaci sino alla reggia di re Alcinoo; i tempi, per ultimo, di percorrenza da parte di Ulisse e dei suoi accompagnatori Feaci, dalla reggia al mare per imbarcarsi sulla nave tramite la quale gli ospitanti Feaci lo avrebbero accompagnato sino ad Itaca.
Anche ricorrendo all’ipotetica giustificazione nel modo sopra esposto, è evidente come l’interpretazione, tramite la quale la Calzecchi Onesti traduce il termine gaihs con isola, non trova, comunque, alcuna giustificazione o supporto linguistico. E non si giustifica al punto che è proprio la stessa traduttrice che finisce con il fornire, involontariamente, la prova dell’errore in cui è inciampata, come si vedrà più avanti.
Gaihs (Cfr. termine greco riportato in rosso nel brano espresso in greco) si traduce, in modo esclusivo e terminativo, senza possibilità, quindi, di alcuna deviazione linguistica, con terra, regione. Il termine non è altro che una forma arcaica e poetica (per altro giustificatissima, se usata in un poema epico, da un aedo della statura di Omero, chiunque egli sia, giacché è necessario badare al risultato e non alla persona), che lascia trasparire una evidente discendenza etimologica, provenendo, come in effetti proviene, dal termine che indicava, secondo il credo religioso radicato in quei tempi nella Grecia, la divinità eponima dell’intero globo terracqueo, ossia Gaia (la Terra).
Il termine diventa, poi, sia nel linguaggio demotico, che in quello protocollare, gh-ghs, con il significato di terra (quando si vuole indicare il corpo celeste); terra (quando si vuole indicare, stricto sensu, la materia, quindi, il terreno, il suolo); terra (quando si vuole indicare una parte ben definita e circoscritta del globo, secondo una concezione squisitamente topografica, ossia regione, contrada).
Terra e, comunque, sempre Terra, giammai Isola.
E’ evidente che se Omero avesse voluto attribuire, come concetto intenzionale da relazionare alla Terra dei Feaci, l’attributo geografico di isola, egli si sarebbe avvalso, come tutti i Greci a lui contemporanei, del termine nhsos-nhsou, il quale ultimo racchiude, si badi bene, oltre alla traduzione di isola, un’altra sola e possibile estensione concettuale similare e derivata, in quanto comprensiva anche del significato, sempre di natura geografica, di penisola.
Quest’ultimo termine, com’è pacifico, dimostra, anche nella lingua italiana, una stretta parentela con isola, trattandosi di terminologia composita: pen–isola (l’etimo è radicato nella lingua latina: paene [quasi] e insula [isola]): ogni chiosatura sarebbe del tutto superflua.
Al fine di conferire, definitivamente, l’esatta dimensione espressiva al concetto racchiuso nel termine in esame, si aggiunge che nhsos deriva, sotto il profilo semantico-etimologico, dal verbo naw=nuotare, che, così, finisce con l’esprimere l’idea, meravigliosamente eroico-onirica, che ogni isola, nella prevalente immensità dei mari, venisse considerata dal popolo greco quasi alla stregua di una terra che nuotava e, per questo, galleggiava (Cfr., per la conferma di tale derivazione etimologica del termine, sub voce relativa, Alessandro Annaratone-Umberto Nottola, Lorenzo Rocci, Guglielmo Gemoll).
Il luogo letterario di riferimento, dunque, tratto dall’Odissea, non va tradotto, così come lo è stato “al diciottesimo (giorno) apparvero i monti ombrosi dell’isola vostra”, bensì deve doverosamente correggersi in “al diciottesimo (giorno) apparvero i monti ombrosi della terra vostra”.
Stante quanto precede, non riesco a spiegarmi l’inciampo linguistico toccato alla Calzecchi Onesti, in quanto nulla quaestio che i due termini, gaihs e nhsos, abbiano una definizione e autonomia linguistiche inconfondibili.
La traduzione errata, come si è accennato sopra, con molta probabilità deriva da quello che può considerarsi un vero e proprio lapsus freudiano, atteso che, al momento storico della traduzione dell’Odissea da parte della traduttrice (anni cinquanta-sessanta), era molto diffusa e recepita l’ipotesi in base alla quale la Terra dei Feaci era una delle isole del Mediterraneo tra le tante che, ancora oggi, si contendono lo status di eredi legittime di Scheria.
E’ di tutta evidenza, al punto che appare logorroico evidenziarlo ancora, che se la Scheria fosse stata un’isola, Omero avrebbe usato il termine nhsos, così come tante altre volte ha fatto quando la terra di cui stava scrivendo era effettivamente un’isola, come succede quando il riferimento narrativo viene effettuato alla patria del protagonista del poema, ossia Itaca.
Come è stato sopra preannunciato, è la stessa autrice della traduzione che, alla fine, finisce con puntellare e avvalorare il nostro rilievo.
Infatti, proseguendo nella sua attività di traduttrice, la Calzecchi Onesti si imbatte nel luogo poetico racchiuso tra i versi 275-279, che seguono l’inciso del quale ci siamo sopra occupati e qui avviene qualcosa che conferma, ove ve ne fosse necessità, la giustezza della nostra tesi.
Riportiamo il testo in lingua greca e, subito dopo, la traduzione della Calzecchi Onesti.
“thn men epeita quella dieskedas’ autar egw ge
nhcomenos tode laitma dietmagon, ofra me gaih
umeterh epelasse ferwn anemos te kai udwr
enqa ke m’ ekbainonta bihsato kum’ epi cersou,
petrhs pros megalhsi balon kai aterpei cwrw.”
(Odusseias, Lib. VII, vv. 275-279)
***
“Poi il turbine me la sconnesse; e io allora
nuotando attraversai questo mare, fin che alla terra
vostra m’avvicinarono il vento e l’acqua, spingendomi.
E mentre tentavo l’approdo, mi sbattè l’onda a riva,
contro l’immane scogliera, in un luogo pauroso”
Nel secondo inciso che precede, si ripresenta, com’è evidente, lo stesso termine, gaih, contenuto nel primo, accompagnato dal medesimo aggettivo possessivo, umeterh ma, pur trattandosi del medesimo, identico termine, la Calzecchi Onesti adotta due metri di traduzione linguistica diversi. Così, in relazione ai versi 267-282, il termine viene sorprendentemente tradotto “isola”, mentre in relazione ai versi 275-279, viene tradotto, correttamente, come andava tradotto, ossia “terra”.
Quindi Terra dei Feaci e non già Isola dei Feaci.
La precisazione che precede va intesa, com’è naturale, nella sua giusta autorevolezza, provenendo essa proprio dell’autore dell’Odissea (ex ore tuo judico), il quale, narrando gli episodi della trama del poema (che per alcuni appartengono al mito e per altri appartengono alla storia, ma, molto probabilmente, veritas stat in medio, per cui tutti i fatti dell’Odissea appartengono sia alla storia, sia al mito) non ha mai definito la terra dei Feaci come se fosse un’isola, ma sempre, scrivendo di re Alcinoo, della regina Arete, della principessa Nausicaa, del popolo dei Feaci e del loro eccezionale senso dell’ospitalità, ha usato la parola terra, per cui nessuno di noi è autorizzato a porre in essere la forzatura linguistica di usare un termine al posto di altro.
Se Omero avesse usato il termine isola (si tratti di mito o di storia) non sarebbe sorta alcuna logomachia a proposito della natura dei luoghi; la medesima cosa sarebbe dovuta avvenire avendo l’aedo usato il termine terra.
Al tipo di ragionamento che precede potrebbe essere obiettato che anche un’isola non è fatta d’altro che di terra e, quindi, tutto sommato, dire terra o dire isola, sarebbe la medesima cosa.
L’eccezione, coniata da noi stessi, se venisse effettivamente eccepita, non apparirebbe, ictu oculi, appropriata al problema dibattuto. Infatti, è come se alcuno, esprimendosi con la parola o con lo scritto, pronunciasse, ad esempio, i termini “esseri umani”, riferendosi, quindi, al genus (umanità) e non alla species (uomo o donna). Si capirebbe, in ogni caso, che l’oggetto del discorso è rappresentato da un essere vivente, ma non si saprebbe mai se fosse un uomo oppure una donna se non fosse indicata la species. Al contrario, invece, ove la species venisse precisata non sorgerebbe alcun motivo di contrasto.
Riportando l’ipotesi al caso concreto, siamo più che certi che, se Omero avesse voluto parlare di una terra circondata da tutte le parti dal mare, avrebbe certamente usato il termine nhsos e non già quello di gaih: così ha fatto in altri luoghi letterari del medesimo poema, anche quando ha scritto riferendosi alla patria del protagonista.
Che, nei tempi andati, fosse universalmente accreditata l’opinione che la terra dei Feaci fosse un’isola, al punto, oseremmo dire, che la traduzione avveniva, per così dire, in modo automatico, prescindendo, cioè, dai termini effettivamente usati da Omero per esprimere il suo concetto, è circostanza oramai acclarata e non confutabile.
Nel medesimo errore ebbe a cadere anche Ippolito Pindemonte. La sua traduzione dell’Odissea, che rappresenta un testo di letteratura per mezzo del quale sono diventate adulte intere generazioni, ha il torto di tradurre il termine con isola e non con terra (Omero, Odissea, traduzione di Ippolito Pindemonte, Società Editrice Internazionale, Torino, 1952).
Si è accennato sopra alla secolare e, per certi versi ancora non risolta, diatriba se il narrato del poema appartenga alla storia, oppure al mito.
Sul punto avvertiamo il pressante dovere di esprimere la nostra personalissima opinione.
E’ dato oramai pacificamente acquisito quello secondo il quale l’Odissea contenga una struttura sostanziale che appartiene, ambivalentemente, sia alla storia, che al mito.
Essa narra di fatti (in modo particolare, ci riferiamo a quello epicentrico, costituito dalla guerra tra la quasi totalità delle poleis-città stato– greche, e la città di Troia), i quali (così come è stato storicamente accertato e mi riferisco, con ogni evidenza agli scavi condotti nella Troade da Heinrich Schliemann, Trojanische Altertumer) sono realmente accaduti e molti personaggi del narrato sono realmente esistiti. Che, poi, tali fatti e personaggi siano, per così dire, incorniciati entro sovrastrutture di natura filosofica e religiosa, appartenenti alle credenze e superstizioni della Grecia del tempo, è un fatto talmente noto e consequenziale da non avere bisogno di alcuna dimostrazione.
Quando, però, avviene che il racconto storico sfocia in quello mitologico, sono parecchi quelli, succubi dell’ossessione del riscontro storico-archeologico, che storcono il naso evidenziando la loro palese prevenzione, non rendendosi conto che la “mitologia” altro non è se non l’aspetto essenzialmente poetico della “storia”. Essa rappresenta la storia inventata (l’etimo del participio che precede è il verbo latino invenio) dall’Uomo quando l’Umanità, agli inizi della sua incerta e inconsapevole avventura terrena, non possedeva ancora gli strumenti necessari per potere spiegare ai suoi componenti tutti gli accadimenti e i fenomeni della Natura.
Il mito, di conseguenza, fa parte a pieno titolo della storia, essendosi sviluppato parallelamente ad essa, non fosse altro perché ne rappresenta una importante e imprescindibile aliquota del contributo conferito da parte dell’uomo agli accadimenti umani candidati a divenire storia.
E’ stata la stessa natura che ha indotto l’uomo alla creazione del racconto mitologico, secondo la vena poetica di ogni singolo e di ciascun popolo, non potendo tenersi in non cale la circostanza secondo la quale tutti i popoli della terra hanno condiviso, quisque pro suo, il racconto mitologico e ne hanno fatto regola di vita.
Avvenne proprio così che l’essere umano, lontano ancora svariati millenni dal traguardo che gli avrebbe consentito di liberarsi per sempre dall’originale involucro pitecantropico e di diventare uno “storico”, è passato prima dallo stadio di mitopoeta, ponendo in essere, in virtù di tale sua naturale predisposizione, l’attività di mitopoiesi.
Ora che siamo diventati erecti, sapientes, tecnologici e, ultimamente, anche celestes, avendo intrapreso la conquista astronomica, non abbiamo il diritto di porre nell’oblio quello che siamo stati durante il lungo e sofferto cammino per giungere sin qui.
Su questa falsariga, non è superfluo ricordare come Esopo fosse saldamente convinto del valore didattico-catartico della narrazione basata sul mito, al punto che, in calce ad ogni narrazione affabulata, egli non può fare a meno di concludere con la frase ”o muqos deloi oti…”, ossia “il mito insegna che…”, lasciando al lettore, poi, la libertà e il compito di trarre le dovute e, auspicabilmente, corrette conclusioni.
Conclusa questa parentesi, che andava necessariamente aperta, ritorniamo al problema principale al quale siamo interessati.
La certezza che abbiamo conseguito è quella, riteniamo, di dovere scartare l’ipotesi secondo cui la terra dei Feaci fosse un’isola e con essa depennare tutta quella teoria di isole indicate come la terra dei Feaci, preferendo, al contrario, quell’altra ipotesi che, invece, la vuole come un lembo di terraferma anche se bagnata dai mari.
Pur avendo conseguito questo passo in avanti, resta, tuttavia, irrisolto il problema della corretta individuazione di tale locus, di cui dovremo, quindi, occuparci. Cosa che facciamo con immediatezza.
Abbiamo affermato in precedenza, enunciando le varie ipotesi ubicative della Scheria, che avremmo disquisito, in prosieguo, dell’ipotesi avanzata da Armin Wolf e ciò in quanto ciò che afferma il Wolf merita, a nostro modestissimo parere, una maggiore attenzione valutativa in quanto contiene elementi fortemente fondati.
Questo studioso (scartata, conseguentemente ai suoi studi, l’ipotesi che possa trattarsi di un’isola) identifica il paese dei Feaci con quella parte della Calabria che, oggi, è la costa della Piana di Lamezia Terme.
Perché diciamo oggi ? Forse che Ulisse ebbe ad approdare da naufrago in un posto diverso?
Nulla quaestio che il luogo dell’approdo del naufrago sia certamente questo, ossia il golfo della Piana di Lamezia. Noi abbiamo rimarcato l’oggi in quanto, con riferimento ai tempi ai quali si riferisce il racconto di Omero, secolo VIII a. C., i luoghi (questi medesimi luoghi) erano assolutamente diversi da come sono ai giorni nostri.
Occorre rilevare, in proposito, che il Wolf non sottolineò sufficientemente questa fondamentale diversità geo-topografica che, in molte occasioni, ha finito con lo sviare il buon esito delle indagini.
E’ indispensabile tenere sempre presente un dato importante: l’azione del poema di Omero è ambientata, come sopra precisato, cronologicamente nel secolo VIII a. C., epoca in cui la Piana lametina non era uguale a quella che è oggi. Il mare Tirreno la sommergeva quasi per intero, lasciando emersa solo una breve striscia di spiaggia in zona da potersi topograficamente definire pedemontana.
Questa diversità topografica ci consente, oggi, di potere acquisire due importanti, nuovi dati, che non sono stati tenuti, fino al momento in cui ne scriviamo, nella dovuta considerazione e cioè:
1) La terra appartenente all’Istmo di Catanzaro, altrimenti detto anche Istmo dei Due Mari, allocata tra il golfo di Lamezia sul mare Tirreno e il golfo di Squillace sul mare Ionio, era più stretta e meno estesa di quella attualmente esistente, che pure rappresenta l’istmo riconosciuto più breve dell’ intera penisola italiana. Se il mare Tirreno arrivava quasi a lambire la base dei rilievi orografici (come è dimostrato dai numerosi rinvenimenti di fossili marini rinvenuti nella zona), è consequenziale che la distanza chilometrica tra i due golfi quasi frontestanti (posti all’incirca sul medesimo parallelo) era inferiore a questa, pur esigua, attualmente esistente ai giorni di oggi, in cui il Tirreno si è ritirato e di molto.
Sconosciamo quale fosse la situazione relativa al mare Ionio rispetto alla costa. Tuttavia, occorre sottolineare che, anche se fosse stata uguale a quella attuale, l’istmo è, in ogni caso, più esteso di quello esistente nel secolo VIII. Come conseguenza di tale diversità, è chiaro che la rappresentazione degli avvenimenti narrati nel poema va, necessariamente, rapportata alla situazione dei luoghi così come essi si presentavano nel secolo VIII a. C. e non già come essa si presenta ai giorni nostri, in quanto l’inosservanza di tale regola comporterebbe la distorsione dei risultati.
2) Secondo il racconto di Omero, Ulisse, proveniente dall’isola di Calipso, viene sospinto dai marosi verso una costa piuttosto ripida su cui appare alquanto difficile approdare.
Nell’interpretazione del passo relativo, è stato comunemente ritenuto che Ulisse fosse stato sospinto dai marosi sulle scogliere della costa di Tropea.
I versi del poema, che si riferiscono al richiamato frangente, così come sono stati tradotti e riportati, dicono : ”E mentre tentavo l’approdo, mi sbattè l’onda a riva, contro l’immane scogliera, in un luogo pauroso”.
Il luogo del primo, coartato e non liberamente determinato tentativo di Ulisse di mettere i piedi a terra, potrebbe, in effetti, essere quello della costa di Tropea, così come viene descritto (immane scogliera, in un luogo pauroso), ma potrebbe essere, anche e direttamente, quello della Piana lametina, così come poteva presentarsi nel secolo VIII a.C.-
Comunque sia, il punto specifico rappresenta un particolare di secondaria importanza, atteso che il racconto prosegue “strappato di là, ripresi a nuotare finché raggiunsi un fiume, e qui mi parve il luogo migliore, privo di rocce; ed era al riparo dal vento: là caddi svenuto”.
E qui, senza dubbio alcuno, il racconto di Ulisse non può che riferirsi alla Piana di Lamezia, sia per la assoluta mancanza di scogliere, di rocce e di vento che conferiva al luogo una migliore agibilità, sia, come vedremo più avanti, per l’importante presenza di un fiume.
Il susseguente racconto è ben noto.
Si verifica l’incontro tra il naufrago Ulisse e Nausicaa che si trovava circondata dalle ancelle.
La principessa offre immediatamente al naufrago il vestiario per coprire le sue nudità e, seduta stante, senza cioé alcun tentennamento, decide di condurlo alla reggia dai suoi genitori.
Il paesaggio dell’effettivo approdo è dominato da un fiume che ha le rive folte di verdeggianti canneti. Questo particolare riguardante tale scorcio semipanoramico, sembra la descrizione attuale del fiume Amato ma, anche se dell’Amato non si sia trattato, la Piana non difetta, certamente, di corsi d’acqua dalle rive caratterizzate da verdi canneti.
Il luogo letterario del poema, che ha dato luogo e motivo, però, a parecchi studiosi per l’esclusione della Calabria dall’elenco dei possibili candidati a diventare l’erede legittima della Scheria, è rappresentato dall’affermazione secondo la quale “la terra dei Feaci, vista dalla Grecia, giace una volta davanti e una volta dietro Scilla e Cariddi “.
Questa che precede è la traduzione corrente e, aggiungiamo, corretta del verso dell’Odissea.
La frase sopra riportata che, a prima vista, sembrerebbe ghigliottinare l’ipotesi in favore della Calabria, se interpretata in modo corretto, ci fa, al contrario della prima impressione, approdare, così come Ulisse nella terra dei Feaci, nella certezza della individuazione di quella terra.
Intanto appare opportuno precisare che il termine di paragone con la terra dei Feaci è costituito da due toponimi, Scilla, posta sulla costa calabrese, e Cariddi, posta su quella siciliana.
Posto nei termini che precedono, il richiamo di due toponimi, appartenenti a due regioni diverse, non ha alcun senso, ove lo stesso non venga inteso nel senso espressivo corretto.
Appare di tutta evidenza come il riferimento alle due località calabro-sicule di Scilla e Cariddi sia, nella sostanza, un riferimento metaforico-sinonimico così come avviene quando l’uso di un termine sia finalizzato ad indicare una realtà che è sottostante a quel termine.
Scilla e Cariddi vengono messe al posto, facendone, quindi, le veci, di Fretum (ossia lo Stretto), che altro non è se non il modo, tramite il quale quegli antichi, quando dovevano indicare lo Stretto di Messina, ricorrendo al racconto mitologico, preferivano evocare l’aspetto più tragico e drammatico del luogo, ossia Scilla e Cariddi, per cui giungere a Scilla e Cariddi significava giungere a quello che oggi è lo Stretto di Messina.
Posto nei termini che precedono, l’inciso controverso sta a significare che la terra dei Feaci possiede un versante allocato ad ovest, davanti lo Stretto di Messina (mare Tirreno-Piana di Lamezia Terme) e un’altro versante allocato ad est dietro lo Stretto di Messina (mare Ionio-Roccelletta di Borgia?).
La definizione va riportata, è ovvio, non all’intera Calabria, ma esclusivamente alla terra dei Feaci, che, come abbiamo visto prima, riguarda in modo esclusivo l’Istmo di Catanzaro con il golfo di Lamezia (davanti Scilla e Cariddi) e il golfo di Squillace (dietro Scilla e Cariddi).
L’istmo di Catanzaro ha l’attuale larghezza di circa trenta chilometri e risulta costituito dalla Piana di Lamezia e, proseguendo poi verso est, dai monti Mancuso e Reventino.
I monti nel punto indicato si elevano dalla Piana sino a raggiungere il loro naturale cacumen, dopodiché degradano verso il mare Ionio. Nel tragitto, si incontrano diversi paesi dalla storia antica e tuttora leggibile nei numerosi e, direi, preziosi lasciti archeologici.
Da alcuni di questi paesi (ricordiamo Marcellinara, Tiriolo, Girifalco e la stessa Catanzaro), è possibile avere sotto gli occhi sia il mare Tirreno, che quello Ionio.
E’ appena il caso di evidenziare che, quando ci si trova proprio sul cacumen montis, la distanza intercorrente tra i due mari viene ad essere quasi dimezzata, per cui, sia lo Ionio che il Tirreno, da tale punto si aggira all’incirca su quindici chilometri, atteso che, come già abbiamo detto, l’intera larghezza dell’ istmo è all’incirca di trenta chilometri, ma, al tempo dei fatti narrati da Omero, era ancora più stretto di quanto sia oggi.
Fatte queste brevi considerazioni, diventano pienamente intellegibili i versi dell’Odissea, laddove si dice:
“autar ephn polios epibhomen hn peri purgos
uyhlos, kalos de limhn ekaterqe polhos,
lepth d eisiqmh–nhes d odon amfielissai
eiruatai-pasin gar epistion estin ekastw.
enqa de te sfagorh, kalon Posidhion amfis,
rutoisin laessi katwruceess araruia,
enqa de nhwn upla melainawn alegousi,
peismata kai speira, kai apoxunousin eretma
ou gar faihkessi melei bios oude faretre,
allistoi kai eretma newn kai nhes eisai,
hsin agallomenoi polihn perowsi qalassan”
(Odusseias, Lib. VI, vv. 262/272)
Anche in riferimento all’inciso che precede ci siamo avvalsi del testo della traduzione in lingua italiana da quella greca, tratta da Omero, Odissea, versione di Rosa Calzecchi Onesti, con prefazione di Fausto Codino, Einaudi 1963.
“Ma come in vista della città arriveremo-un muro la cinge,
alto, e bello ai lati della città s’apre un porto,
ma stretta è l’entrata: le navi ben manovrabili lungo la strada
son tratte in secco, per tutte, a una a una, c’è il posto:
e hanno la piazza, intorno a un bel Posideio,
pavimentata di blocchi di pietra cavata;
qui delle navi nere preparano l’armi,
ancore e gomene, e piallano i remi;
perché nulla importa ai Feaci d’arco e faretra,
ma d’alberi e remi di navi e di navi dritte:
con esse superbi traversano il mare schiumoso”.
Il brano che precede é fondamentale, come vedremo, per la comprensione e, soprattutto, per la individuazione, in rapporto alla situazione, così come si è consolidata oggi, dei luoghi e del loro stato.
Ma, prima di procedere oltre è necessario effettuare alcune precisazioni fondamentali, le quali riguardano, dell’intero inciso sopra riportato, i termini contenuti nelle prime tre righe, delle quali, per tale finalità, sono stati evidenziati con coloritura in rosso i caratteri.
In tutte le traduzioni dal greco in italiano, che abbiamo avuto occasione di leggere, sempre con attinenza alle tre righe evidenziate, la traduzione è stata, unanimamente e per tutte e tre, la seguente: “…ai lati della città s’aprono due porti…”.
Ebbene, tale versione è erronea in quanto Omero non ha mai affermato (più correttamente, non ha mai fatto affermare a Nausicaa) che i porti ai lati della città fossero due. Per conseguenza, la traduzione dei due porti appare subito in tutta la sua arbitrarietà.
Come si può verificare, nel copione scritto da Omero e recitato tramite la bocca di Nausicaa, non si trova scritto che la capitale dei Feaci avesse ai suoi lati due porti, anzi, a voler essere precisi, si trova scritto esattamente il contrario, come vedremo da qui a poco.
La traduzione censurata non tiene in alcun conto che il termine greco, riferentesi alla struttura portuale, è stato da Omero espresso al singolare.
In questo passo, la versione della Calzecchi Onesti è stata precisa e impeccabile.
Infatti, Omero non solo non afferma che due porti si trovino ai lati della città, quanto dice esattamente il contrario e cioè de limhn ekaterqe polhos, ossia, secondo la corretta, esatta e letterale traduzione, così come è stato fatto anche dalla Calzecchi Onesti, ai lati della città s’apre un porto.
Chiunque abbia della lingua greca anche un remoto ricordo scolastico, può rendersi conto dell’esattezza del nostro rilievo: basta, per questo, evidenziare come, sia il termine, per così dire, interessato, ossia limhn, sia il verbo che esprime l’azione, ossia ekaterqe, siano entrambi espressi, il primo, al singolare, il secondo alla terza persona singolare.
Ma, quindi, non è affatto vero che la capitale dei Feaci avesse a disposizione due porti, così come si è sempre tradotto il verso omerico e così come si è sempre effettivamente ritenuto della sostanza?
Posto questo interrogativo, appare necessaria un’altra precisazione.
Intanto, diciamo come Omero sia stato efficace nella tecnica espressiva della narrazione di questo episodio, perché un conto è la traduzione del brano così come è stato scritto dall’autore, altro conto, diametralmente opposto, è rappresentato dalla verità sostanziale e storica.
Infatti, è fondatamente e assolutamente vero che, nella realtà, i porti, dei quali si avvaleva la città-capitale dei Feaci, erano due: quello allocato nel golfo di Lamezia e quello allocato nel golfo di Squillace. Tuttavia, l’autore dell’Odissea fa dire a Nausicaa che, quando arriveranno in vista della città, Ulisse potrà vedere l’esistenza di un porto che, naturalmente, non può essere il porto di Lamezia che la comitiva si è lasciato alle spalle. ma è il porto, allocato nel golfo di Squillace, che guarda il mare Ionio, del quale Ulisse, appena approdato nella Terra dei Feaci, sconosce l’esistenza non avendolo mai visto prima, né avendone mai sentito parlare.
Così Nausicaa (ma il regista è sempre Omero), evidentemente consapevole di tale mancanza di conoscenza da parte dell’itacense, lo informa della presenza dell’altro porto (al singolare) Di quello di Lamezia, ovviamente, non v’era necessità di parlare per informare l’ospite, in quanto egli era stato spiaggiato dai marosi proprio in quel porto. E proprio lì aveva incontrato Nausicaa con le ancelle, che stava usando quella spiaggia, quel porto e quel mare, così come aveva fatto sempre e così come avevano fatto sempre tutti i Feaci, essendo anche quello un porto che apparteneva alla loro città.
Nella sostanza, appariva superfluo affermare che la capitale di quel popolo possedesse due porti, in quanto era sufficiente aggiungerne uno, quello di cui il naufrago non aveva contezza, perché essi diventassero automaticamente due, senza bisogno che ciò venisse precisato.
Semmai una prova del nove fosse possibile nella materia che stiamo trattando, potremmo tranquillamente affermare, senza timore di potere essere smentiti, come il brano che precede costituisca, appunto, la prova del nove della dimostrazione che la terra dei Feaci debba individuarsi nella terra dell’Istmo di Catanzaro, alias Istmo dei Due Mari.
Riprendiamo, a questo punto, il racconto interrotto per consentire la disquisizione sopra preannunciata.
Interloquendo con Ulisse, Nausicaa aveva affermato che, non appena essi si troveranno in vista della città, di essa la prima cosa che scorgeranno saranno le mura di cinta, alte e belle, nonché il porto che, si ripete, è quello sullo Ionio, non fosse altro perché, giungendo in vista della città, Ulisse avrà il porto di Lamezia alle spalle.
Si reitera la precisazione, riferita al porto sullo Ionio, per cui dalla città è visibile un porto e il porto é allocato ai lati della città.
Non siamo in possesso di elementi tali che ci consentano di potere individuare di quale città si tratti tra quelle, alle quali precedentemente abbiamo fatto riferimento o, anche, tra altre che, per ovvi motivi, potrebbero essere state pretermesse.
Tale città potrebbe essere una di queste odierne: Marcellinara oppure Tiriolo o, ancora, Girifalco, le quali, tutte e tre, hanno i requisiti necessari, per non essere escluse a priori.
Tanto per volere, ipotizzando, fare un esempio, Tiriolo (in greco antico Trioros, ossia Tri [Tre] e oros [monte] con evidente riferimento ai tre monti posti attorno all’insediamento urbano), avrebbe tutte le carte in perfetta regola per potere essere identificato con la città di Alcinoo e ciò, non solo per la sua difendibilissima posizione (posto com’è, proprio al centro del displuvio esistente tra il versante tirrenico e quello ionico, ossia tra la valle creata dal fiume Amato, che ha la foce nel Tirreno e quella creata dal fiume Corace che ha la foce nello Ionio), quanto per la sua antichità storicamente accertata, essendo stato tramandato essere insediamento dedotto da coloni provenienti dalla Grecia, almeno 550 anni prima che gli alleati greci dichiarassero guerra a Troia. Non solo questo, quanto Tiriolo ha dimostrato, e continuamente dimostra, di possedere un sottosuolo inesauribilmente ricco di archeologia, di cui sono venuti e continuano a venire in superficie importanti reperti, il più famoso dei quali è rappresentato da una tavoletta bronzea con l’incisione dell’altrettanto famoso Senatusconsultum de Bacchanalibus, provvedimento legislativo emanato dal Senato di Roma, retrodatabile al 186 a. C., tramite il quale veniva vietata la pratica dei riti orgiastici facenti capo, in modo particolare, alla religione di Dioniso-Bacco.
Le notizie sopra riportate ci consentono di potere affermare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che la città dei Feaci dove venne ospitato Ulisse, era un insediamento urbano allocato in Calabria, nell’istmo di Catanzaro, precisamente sugli Appennini, in un punto di particolare panoramicità, da cui era possibile scorgere due mari diversi, quello del golfo di Lamezia e quello del golfo di Squillace e che poteva servirsi di entrambi (questa volta siamo legittimati ad affermarlo) i due porti ubicati ai lati della città.
Da quanto precede, risulta evidente che i due porti non potevano essere allocati, rispetto a qualsivoglia lato della città che si possa oggi prendere in considerazione, in senso nord-sud e ciò per un evidente motivo di logica, perché se così fosse stato essi sarebbero stati situati entrambi esclusivamente sulla terraferma, ossia in una zona montana degli Appennini, senza sbocco sui due mari.
Essi, infatti, erano stati ubicati, certamente ai lati della città, come dice Omero, ma necessariamente in posizione est-ovest, ossia uno sul mare ionico e l’altro su quello tirrenico.
La circostanza, poi, che questa città possedesse due porti (situazione assolutamente eccezionale, tanto che non abbiamo a disposizione alcun precedente analogo ai fini di una comparazione di qualsivoglia natura sia storica, che economico-commerciale), abilita il ricercatore a ritenere che la città avesse e si servisse di due porti, soltanto perché la sua eccezionale posizione topografica le consentiva di avere la disponibilità di due mari diversi, altrimenti una delle due strutture portuali sarebbe stata certamente superflua, mentre essendo l’agglomerato urbano affacciato su due mari distinti, esso aveva, così, l’evidente vantaggio di potere esercitare i commerci, raggiungendo una rosa più vasta di paesi e popoli, allocati verso più numerose ed estese direzioni geografiche: nel nostro caso, sia verso quelle ionico-adriatico-egee, sia verso quelle più aperte del mare Tirreno.
Su questo punto specifico, riportiamo il pensiero di Armin Wolf, il quale ha ritenuto che tutti questi insediamenti antropici, posti sull’istmo dei Due Mari, abbiano goduto di una notevole ricchezza e agiatezza economiche, proprio per la loro posizione di centralità, dominante un passaggio obbligato rispetto all’istmo calabrese, soprattutto nell’epoca in cui fiorì la colonizzazione della Grecia (Ellas), che diede, conseguentemente, origine e splendore alla, per molti versi, irripetibile civiltà della Magna Grecia (Megalh Ellas).
Era, infatti, molto più semplice e si impiegava meno tempo dalla costa tirrenica arrivare a quella dello Ionio, proprio attraversando via terra l’istmo dei Due Mari, anziché fare, per mare, il periplo della costa calabrese, il che costringeva la gente di mare ad affrontare la pericolosa corrente di Scilla e Cariddi.
La ricostruzione topografica che precede viene ancor più sostenuta e avvalorata dal racconto, che fa l’autore dell’Odissea, riguardo al percorso compiuto da Ulisse, una volta approdato nella Piana di Lamezia.
Dopo che i marosi hanno distrutto la zattera, costruita da lui stesso, con la quale aveva preso il mare dall’isola di Calipso, Ulisse è costretto a raggiungere la terraferma a nuoto.
Appresa finalmente la costa e poggiati i piedi sulla terraferma nella zona più abbordabile della Piana di Lamezia, sempre secondo il dettagliato e scandito racconto di Omero, il naufrago deve impegnarsi, camminando, al superamento di un discreto pendio immediatamente dopo l’emersione dalle acque del mare.
Da tale specifico particolare (la presenza di un pendio proprio nell’immediatezza del mare) si ricava la diversità di conformazione geomorfologica della Piana dell’ VIII secolo a. C., rispetto a quella attuale.
Dopo l’incontro con Nausicaa e l’offerta di quest’ultima di condurlo alla reggia del padre Alcinoo, Ulisse, a cui viene fatto prendere posto su un carro trainato da muli, si avvia assieme alle sue accompagnatrici, verso la città dei Feaci, attraverso una traccia carrabile.
La traccia carrabile (che prende il nome proprio dai veicoli che possono percorrerla, i carri) rappresenta la prova evidente del fatto che i Feaci avevano provveduto a garantire il collegamento del porto (sito nel golfo di Lamezia) con la loro capitale. Più avanti vedremo l’altro collegamento tra la capitale medesima e il porto, sito nel golfo di Squillace.
A titolo di conclusione di tutte le considerazioni precedentemente fatte, è necessario aggiungere, per ribadire che il popolo dei Feaci, senza più ombre di dubbio, abitassero una terra della regione che oggi è denominata Calabria, che Ulisse, a bordo della zattera che si era costruito, proveniva dall’isola di Ogigia ove era stato ospitato da Calipso per sette anni all’incirca.
Le odierne appostazioni teoriche circa l’ individuazione dell’isola di Ogigia, con notevole maggioranza numerica, sostengono che Calipso abitava, secondo il racconto omerico, in una delle isole dell’arcipelago eolico, (nella toponomastica antica: Ericussa, Fenicussa, Didime, Lipara, Termessa, Stronghile) tra le quali le candidate più probabili sembrano essere Lipara (Lipari), Termessa (Vulcano) e Didime (Salina), con una maggiore probabilità espressa per Lipari.
Le isole dell’arcipelago delle Eolie si trovano, quasi tutte, in vista della costa calabrese.
E’ consequenziale che, sia per la posizione geopontografica sopra espressa, sia per il tempo impiegato a coprire il tratto di mare da Lipari-Vulcano-Salina sino alla costa di Lamezia (l’approdo non può essere avvenuto altrove), l’approdo non può non essere avvenuto se non lungo il litorale ovest della Calabria, precisamente sulle rive della terra dei Feaci.
Tenendo presente l’indicazione effettuata da Omero sulla direzione dei venti, nonché sulla posizione di alcune costellazioni stellari rispetto alla posizione tenuta da Ulisse, siamo in grado di ricostruire alcune delle rotte seguite dall’itacense e, in particolare, l’ultima sua rotta, prima di quella che, come vedremo lo fece approdare sulle coste della sua Itaca.
Con attinenza al viaggio dall’isola di Calipso alla terra dei Feaci, Omero sottolinea come, durante tale specifica rotta, Ulisse ha avuto la costellazione dell’Orsa o Carro sempre sulla sua sinistra e, poiché detta costellazione è posizionata sul nord geografico, da ciò deriva che Ulisse ha seguito una rotta con partenza da Ovest (isola di Ogigia-Lipari) e con la prua puntata verso est (Terra dei Feaci): tutto questo, a conferma che il tragitto non probabile, ma probabilissimo, è stato quello dall’arcipelago delle isole Eolie alla Calabria.
Durante il suo soggiorno nella terra dei Feaci, Ulisse raccontò a re Alcinoo, alle regina Arete, alla principessa Nausicaa, ai principi Feaci e tutte le persone presenti nella reggia, alcune delle peripezie che aveva affrontato durante il suo viaggio di ritorno dalla Troade.
Il suo racconto venne ascoltato con grandissima attenzione e alla fine, assolto ogni convenevole per il suo commiato, si congeda dai suoi ospitanti.
L’atmosfera del congedo è sbrigativa e molto affrettata, al contrario del suo arrivo in quella terra, quando l’aedo greco si era lasciato andare ad una descrizione minuziosa e particolareggiata dei personaggi e dei luoghi.
Si ha l’impressione che Omero si sia empatizzato, all’improvviso, nello stato d’animo della sua creatura letteraria, che, verosimilmente, cominciava già ad intravvedere la fine delle sue peripezie, assaporando, in un sogno che sembrava ormai realizzabile, il suo arrivo in patria.
Il ritmo del racconto plana su un improvviso andante con brio, come se anche l’autore volesse accelerare i tempi e far giungere il suo eroe a casa.
Infatti, il lettore assiste ad un commiato, affettuoso sì, ma sbrigativo con accelerazione dei tempi:
“Ws eipwn uper oudon ebhseto dios Odusseus,
tw d’ama khruka proiei menos Alkinoo,
hgeisqai epi nha qohn kai tina qalasshs;
Arhth d’ ara oi dmwas am’epempe gunaikas,
thn men faros ecousan euplunes hde citwna
thn d’eterhn chlon pukinen am’ opasse komizein;
h d’ allh siton t’ eferen kai oinon eruqron“
(Odusseias, Lib. XIII, vv. 63/69)
Anche in riferimento all’inciso che precede ci siamo avvalsi del testo della traduzione in lingua italiana da quella greca di Rosa Calzecchi Onesti.
“Detto così passò la soglia Odisseo luminoso;
con lui la potenza d’Alcinoo mandava l’araldo,
che lo guidasse all’agile nave e alla spiaggia del mare.
E Arete gli mandò dietro alcune sue schiave,
una recante un mantello pulito e una tunica,
un’altra a portare l’arca massiccia mandava,
e un’altra pane e vino rosso portava”.
Il tragitto, poi, dal golfo di Squillace all’isola di Itaca, diventa fulmineo e quasi senza narrazione scritta, tranne quella che dice che Ulisse, preso posto sulla nave, si addormenta, spossato, quasi subito e quando all’alba si sveglia gli appare l’amata isola di Itaca.
Proprio così:
“Eut’ asthr upersce faantatos , os te malista
ercetai aggellwn faos Hous hrigeneis”.
***
“Come la lucentissima stella brillò, che più di tutte
annuncia salendo il raggio dell’alba nata di luce,
ecco che all’isola già s’accostava la nave marina“
Le modalità del viaggio dalla reggia di Alcinoo al porto di Squillace presentano sostanziali differenze se rapportate a quelle dell’arrivo tra il golfo di Lamezia e la reggia.
Al suo arrivo, Ulisse venne condotto alla reggia tramite una traccia carrabile e su un carro trainato da muli. Al momento della partenza a quanto pare il viaggio viene intrapreso a piedi, come si evince dal fatto che Alcinoo manda un araldo ad accompagnare l’ospite straniero sino alla nave, mentre la regina Arete ordina ad alcune schiave di accompagnare l’ospite portando un mantello pulito, una tunica, una massiccia arca e pane e vino rosso.
Dalla minuziosa descrizione che precede si possono ricavare alcune deduzioni che sembrano molto probabili, sia singolarmente che cumulativamente:
1) La prima di esse è che Ulisse ed accompagnatori si avviano a piedi perché manca una traccia carrabile che consenta di coprire il tragitto con un mezzo di trasporto;
2) La seconda è che la distanza tra la reggia e il porto fosse talmente esigua che non era necessario servirsi di un carro e ciò perché la città si trovava ubicata più vicina alla costa ionica che a quella tirrenica.
Comunque sia, crediamo di potere concludere che non si possano avanzare seri dubbi sul fatto che la zona interclusa tra il golfo di Lamezia e quello di Squillace, in base alle considerazioni sopra effettuate, sia effettivamente l’ospitalissima terra dei Feaci di cui parla l’Odissea.