Quando sento parlare di emigrazione, penso per prima cosa a Il canto dei nuovi emigranti di Franco Costabile. Professione, anzi missione su questa Terra: poeta. Nato a Sambiase, prima che diventasse Lamezia Terme con Nicastro e Sant’Eufemia, e morto suicida a Roma ad appena quarantuno anni. Soprattutto penso a questi versi finali della sua poesia-manifesto: «Non chiamateci / da Scilla / con la leggenda / del sole / del cielo / e del mare. / Siamo / bene legati / a una vita / a una catena di montaggio / degli dei», per chiudere con un «Addio / terra. / Salutiamoci, / è ora.» Il lavoro altrove, la necessità di abbandonare la terra natia, senza potersi permettere un rimpianto, l’ultimo saluto prima di imbarcarsi per le Americhe.
E poi mi viene in mente la tragedia dei tanti migranti che, da quello che siamo ancora costretti a definire Terzo Mondo, cercano di raggiungere le sponde della penisola italica, attraversando un Mediterraneo ormai molto più simile a un cimitero acquatico che a quel mare carico di civiltà che fu nei tempi antichi. Loro inseguono il miraggio di una vita migliore, ma in pochi riescono a farlo diventare realtà. E poi ancora, mi viene da pensare all’emigrazione del terzo millennio, quella dei “cervelli in fuga”, dei giovani laureati e con master che trovano un lavoro migliore, ben pagato, che dà più soddisfazioni, che valorizza le loro indubbie capacità, ma che si trova a migliaia di chilometri dalla casa in cui sono nati e in cui vivono i loro affetti più cari. Si consolano dicendosi “cittadini del mondo”, dichiarando a tutti di vivere una vita felice. Ma forse, anche per loro, c’è un’ombra che non li abbandona. Le loro radici che ogni tanto chiamano forte, anche se fingono di disprezzarle, di non riconoscerne più la voce. Perché in fondo anche loro hanno dovuto dire: «Addio / terra. / Salutiamoci, / è ora.»
Però questa volta, a parlarmi di emigrazione, non è una poesia o il servizio sull’ennesimo sbarco di migranti alla televisione o il racconto di ragazzo che è tornato da chissà dove per una breve vacanza, per rivedere i suoi e approfittarne per un bagno in mare, una passeggiata in un bosco, un salto in quel locale dove non si sono ancora dimenticati il suo nome, dove tutti gli fanno festa al solo vederlo. Questa volta ci ha pensato una fotografia, quella che Antonio Renda ha scattato a Conflenti. È il particolare di un affresco o dipinto murale che sia e che si trova, direi piuttosto inspiegabilmente, all’interno della chiesa matrice, a sinistra dell’altare maggiore. «L’opera in sé non è né originale né mi sembra di grandissima fattura», la sua originalità e potenza stanno tutte «nella sua collocazione», ammette il fotografo, che aggiunge: «Contiene il dramma dell’ennesimo paese calabrese completamente svuotato da questo problema o da questa soluzione».
E qui siamo allo spopolamento delle aree interne d’Italia, soprattutto del Meridione, dove la vita è più difficile che nelle città o sul litorale. A resistere qui sono quelli che hanno radici forti, ben piantate nel terreno calpestato dai loro avi, quelli che non esitano a cantare come Francesco Guccini in Radici: «E te li senti dentro quei legami / I riti antichi e i miti del passato / E te li senti dentro come mani / Ma non comprendi più il significato» (album: Radici, 1972). Anche se noi quel significato speriamo sempre di poterlo comprendere, magari contemplando il profilo del monte Reventino che si staglia sullo sfondo azzurro di un cielo terso e pensando che in fondo vivere qui non è poi così male: si può scegliere di restare, sperando che prima poi questa scelta, difficile, coraggiosa, per alcuni l’unica possibile, possa essere alla fine ricompensata.
Raffaele Cardamone
Foto di Antonio Renda