C’è una strana e diffusa consapevolezza in giro. Per lo meno a giudicare da quello che si vede sui social e sui gruppi WhatsApp che in questi giorni brulicano di messaggi.
C’è come l’impressione che stiamo vivendo come in una sorta di vacanza da trascorrere in casa con i propri cari; a fare biscotti con i bambini; impastare pizza, stendere tagliatelle, cucinare, ascoltare musica… Come se fossimo in una vacanza di Natale in un inverno piuttosto rigido in cui è meglio uscire il meno possibile se non per fare la spesa al supermercato.
E, soprattutto – e tutti – sembra aleggiare la certezza che il tempo sia stato solo messo in pausa e che, non appena qualcuno pigerà il tasto “play” di nuovo, tutto ricomincerà a scorrere come prima e più di prima.
Lo ha detto in fondo anche Conte durante la conferenza stampa diffusa via Facebook lo scorso 24 marzo: “siamo fiduciosi che torneremo alle abitudini di prima, anzi a un migliore stile di vita”.
Riprenderemo a consumare, ad andare al cinema, in piscina, in palestra, in pizzeria, a riempire i centri commerciali e a trascorrere i weekend a comprare e inseguire saldi e sconti, riempiendo le case di cianfrusaglie, technogadget, e abiti che probabilmente giaceranno nell’armadio fino al prossimo cambio di stagione, quando, ancora con le etichette, magari per sentirci più buoni, li regaleremo alla Caritas o li butteremo nel cassonetto degli abiti usati.
Tanto ottimismo è certamente naturale, e forse fa anche bene professarlo, tra un disegno di un arcobaleno e un hashtag #andratuttobene e l’altro… e tuttavia appare ingiustificato.
Duole dirlo, ma non tornerà tutto come prima. E soprattutto non accadrà presto.
Proviamo a fare un esercizio di doloroso ma sano realismo.
Oggi, 26 marzo, il bilancio dei morti è di 662 persone e di 4492 contagiati. Fino a ieri avevamo cantato vittoria. I casi sembravano diminuire ma oggi sono tornati a salire drammaticamente. Se anche quello odierno fosse un picco puntuale e non significativo dal punto di vista statistico resterebbe il fatto che morti e ammalati sono comunque, in termini assoluti, ancora tanti, troppi. Il 15 marzo, quando si decise di mettere in lockdown l’Italia c’erano stati 3590 contagiati e 368 morti. Numeri significativamente più bassi di quelli odierni. È molto improbabile che nei prossimi 10 giorni la curva scenda così rapidamente da giustificare un ritorno alla vita normale. Per capirlo basta leggere tra le righe le dichiarazioni dei politici, che fra uno slogan entusiasta e l’altro, esprimono prudenza e allarme (si pensi alla Azzolina che durante il Question time di ieri 25 marzo ha prudentemente detto che ci si sta attrezzando per un esame di maturità a distanza).
Ma quando accadrà, quando l’Italia sarà “unlocked”, lo sblocco avverrà comunque in maniera graduale. E l’augurio di poterci di nuovo riabbracciare, riempire piazze, stadi, chiese, cinema e teatri impiegherà ancora tanto tempo a realizzarsi.
E quando ricominceremo a camminare, quando potremo girare di nuovo la chiave nel cruscotto del Paese, forse ci accorgeremo che il carburante nel frattempo si è misteriosamente prosciugato e, se ne fosse rimasto ancora un poco , probabilmente faremo attenzione a non sprecare quel poco.
D’altro canto, lo stesso Conte, durante una delle ultime conferenze stampa post-cena via Facebook cui ci ha abituati, ha chiaramente detto che quella che vivremo sarà una crisi pari a quella del secondo dopoguerra che – ci permettiamo di ricordare – venne superata, anzi venne seguita dal boom economico, solo perché ci fu il Piano Marshall, un massiccio piano di aiuti da parte degli Stati Uniti che consentì al nostro paese di ripartire e intraprendere la strada dell’industrializzazione. Il nuovo Marshall avrà gli occhi a mandorla? Ma, soprattutto, ci sarà un nuovo Marshall?
Mario Draghi, ex presidente della BCE, ha definito la situazione che ci troveremo a fronteggiare “una tragedia di proporzioni bibliche”.
Da non poche parti si agita il fantasma della crisi del ’29, la grande depressione che spalancò le porte all’ascesa dei totalitarismi.
Quale sarà l’impatto di una crisi di simili proporzioni sulla nostra fragile economia? Secondo l’Organizzazione Mondiale del Lavoro la pandemia porterà a 25 milioni di disoccupati. Cosa accadrà in una regione come la Calabria che ha già il 55% dei disoccupati?
È vero, il governo ha previsto delle misure per allontanare le scadenze delle tasse, ma come faranno le tante micro-imprese della nostra regione a pagarle se nel frattempo non hanno recuperato liquidità visto che sono chiuse? Che ne sarà dei negozi, dei bar, dei locali che sono riusciti a tenere duro e a stringere i denti in questi anni e a tenere vivi paesi che si stanno rapidamente spopolando? Quanto peserà su di loro la crisi che vivremo?
Ogni crisi – lo abbiamo imparato dalla grande crisi del 2008, che a detta degli analisti non è nemmeno paragonabile a quella che ci dobbiamo preparare ad affrontare – ha due dimensioni, una reale e una “avvertita”. Le persone di fronte all’insicurezza generalizzata tendono a sentirsi veramente più povere anche se (come accade con i dipendenti pubblici, ad esempio) la crisi non ha intaccato il loro potere d’acquisto, e a spendere di conseguenza di meno. Per cui agli effetti della crisi reale si sommeranno quelli della crisi che potremmo definire “immaginaria”.
In questo caso specifico poi alla paura della povertà si unirà la paura della malattia. Finché il covid-19 non sarà definitivamente battuto grazie a un vaccino o a un antivirale realmente efficace, ognuno di noi vivrà nel costante timore degli altri. Chiunque può essere un portatore del temuto coronavirus. Per questa ragione continueremo a rallentare la nostra socialità, eviteremo i luoghi affollati, annulleremo vacanze, spettacoli, concerti, gite, pomeriggi di shopping… non solo perché un decreto ce lo imporrà. E tutto questo chissà fino a quando.
No, credetemi, non sarà tutto come prima.
di Antonio Cavallaro