PREMESSA
A far data dai tempi della preistoria, l’Uomo fu costretto dalla Natura a dovere incessantemente trasmigrare da regione a regione della Terra. Ciò obbediva ad una legge naturale ineludibile che si fondava sulla necessità di ricercare habitat più sicuri e doversi nutrire. Esaurita, infatti, in una determinata zona la provvista naturale della fruttificazione spontanea, questo essere primitivo andava alla ricerca di altro cibo spostandosi in altre regioni a volte alquanto distanti tra loro. La stessa cosa avveniva con riferimento alla caccia. Se la selvaggina cominciava a diminuire, oppure si verificava una carenza di esemplari da elezione venatoria, questo essere andava alla ricerca di altre contrade più vivibili.
Gli studi antropologici successivi classificarono questo essere agli albori della sua esistenza come pitecantropo (piqhkos = scimmia; anqrwpos = uomo). Sono stati, poi, necessari milioni di anni perché questo essere, che la Natura aveva dotato di potenzialità eccezionali, sconosciute alle altre creature viventi (che sono rimaste tali e quali erano al momento della loro nascita), si liberasse di quella scorza esterna che lo rendeva simile ai piqhkoi e diventasse, dapprima soltanto, anqrwpos e, in seguito, tramite una metamorfosi caparbia e costante, millennio dopo millennio, homo abilis, homo erectus, homo sapiens, homo technologicus, homo ratione perfectus e, proprio nella nostra era, homo caelestis, dedicato ad antropizzare altri pianeti. A dimostrazione di quanto precede, i piqhkoi, che non hanno avuto dalla Natura questa fatale e selettiva predestinazione, sono rimasti solo e semplicemente scimmie.
Nei primi tempi della sua esistenza terrena, non esistendo fonti di apprendimento scientifico di natura cartacea o telematica, dalle quali apprendere le leggi poste a fondamento dei fenomeni naturali, il pitecantropo per potere sopravvivere fu costretto, obtorto collo, a praticare la caccia scegliendo animali di dimensioni apprendibili (non disdegnando, tuttavia, anche carcasse di esemplari in decomposizione) e la raccolta della fruttificazione che la Terra spontaneamente offriva, conducendo, in tal modo, una vita da cacciatore-raccoglitore, il che comportava continui spostamenti alla ricerca incessante del cibo, del quale, il più delle volte, sconosceva, le proprietà. Però, come è facilmente intuibile, spostarsi non era affatto agevole, anzi comportava rischi enormi, i quali, tanto per darne qualche esempio, giusto per relationem, consistevano nella presenza di una vegetazione molto fitta, inimmaginabile ai nostri giorni, a causa della quale l’avanzamento era lento e difficoltoso. Manco a dirlo, non esisteva una viabilità da cheiropoiesi (realizzata, cioè, dagli uomini e idonea al raggiungimento di determinati scopi): i pochi e disagevoli sentieri erano costituiti dalla frequenza dei passaggi di animali, soprattutto di grossa taglia, i quali abbattendo parte della vegetazione e calpestando, al contempo, l’erba alta, creavano una parvenza di viabilità alquanto precaria che tornava ad essere annullata dalla vegetazione in poco tempo. A tutto questo, vanno aggiunte non solo le immancabili difficoltà sia orografiche, che, soprattutto, idrografiche, quanto e soprattutto quelle create da animali feroci e carnivori, per combattere i quali non erano disponibili attrezzi adeguati.
Senonché, come è stato sopra accennato, il dna di questo essere primitivo era stato dotato di una potenzialità eccezionale, in quanto, se è vero che la Natura lo aveva fatto nascere selvaggio e animalesco, lo aveva però come preselezionato, dotandolo di una predisposizione attitudinale così spiccata da distinguersi da tutti gli altri esseri viventi.
Naturalmente, questo prototipo di uomo non poteva contare sulla disponibilità di testi scritti dai quali potere apprendere, per esempio, le basilari leggi della agricoltura, oppure l’arte della conservazione delle scorte alimentari, sia vegetali che animali o, ancora, l’arte della manipolazione delle cose materiali per ricavarne attrezzi utili a praticare la caccia e la pesca.
Tuttavia, pur non esistendo biblioteche presso cui istruirsi e migliorarsi, questo essere prototipo e primitivo, distolse l’attenzione dal suo mondo prevalentemente animalesco e iniziò ad osservare, oggi diremmo con animo speculativo, tutti gli accadimenti esterni, i fenomeni atmosferici, la fioritura della vegetazione, la maturazione della frutta, la periodicità della biologia vegetale, la ricorrenza delle stagioni e la concomitanza di alcuni fenomeni legati allo scorrere del tempo. Fu così che, osservando le espressioni fenomeniche di quella grande e insostituibile Maestra, quale è la Natura, si accorse di potere usufruire di una vera e propria Enciclopedia che era stata messa a disposizione sua e solo sua e nelle cui pagine stavano impresse, a caratteri indelebili e apprendibili da chiunque fosse in grado di leggerle, tutte le leggi del Creato: era sufficiente sapere leggere o, rectius, sapere osservare per ricavare principi scientificamente corretti. La posizione eretta gli aveva non solo messo a disposizione anche gli arti superiori, tramite i quali potere intervenire sulle cose del mondo, quanto gli aveva consentito, per la prima volta, di osservare la volta celeste.
Fu così che questo essere primitivo finì con abbandonare il suo originario nomadismo biologico, attestandosi in una conduzione di vita più stazionaria, smettendo l’esclusiva veste di cacciatore-raccoglitore e diventando cacciatore-agricoltore.
Questo nuovo status civile non comportò, tuttavia, il totale abbandono delle trasmigrazioni. Diciamo che queste ultime si ridussero di gran lunga e, soprattutto, non erano più una causa generale e cogente, ma solo eccezionale, in quanto dipendenti da altre e sopraggiunte motivazioni connotate da specificazioni scientifiche, di interscambi di natura commerciale, di alleanze pacifiche, ma anche, e purtroppo, per rapporti di belligeranza.
Con il trascorrere dei millenni, la viabilità ha subito una grandissima espansione in tutto il mondo, assumendo specificazioni particolari, con il transito da esclusivamente terrestre, come era all’origine, ad acquatica, prima (fluviale e marittima), ad aerea in prosieguo e, infine e attualmente, ad interplanetaria.
Per un breve excursus storico riguardante la viabilità mondiale, cfr. M. Manfredi-Gigliotti, Passi perduti, alla ricerca dell’antica viabilità nei Nebrodi:la via Valeria-Pompeia, Yorick Editore 1990; ID., Altri passi perduti, alla ricerca della viabilità antica nella zona dei Nebrodi, Sicilia settentrionale, Edizioni Simple 2015.
LA VIA ANNIA-POPILIA
Secondo il giudizio dato da Strabone (Geographia,V, 3.8), Roma, tra tutte le città dell’antichità, eccelse, soprattutto, nella tecnica di costruzione delle strade, dei ponti, degli acquedotti e delle cloache. Eccellenza, questa di cui anche ai giorni nostri sono visibili meravigliose testimonianze, ancora intatte e, il più delle volte, tuttora usate in alcune contrade agresti dal locale traffico pedonale, come ho dimostrato nei due libri sulla viabilità sopra citati. Per la precisione, ho studiato e documentato alcuni ponti romani anche di tremila anni fa, che sono perfettamente funzionanti, sebbene in assenza di alcuna manutenzione, mentre il ponte “Morandi” di Genova crolla dopo appena cinquant’anni, causando tante vittime. Su tale punto mi è stato eccepito che il “Morandi” sopportava il peso di tanti TIR. Per quanto mi riguarda, ho risposto che, se ai tempi dell’Urbs ci fossero stati i TIR, i tecnici romani avrebbero certamente adottato una tecnica costruttiva consequenziale e i ponti sarebbero stati ancora in piedi.
Quando si fa riferimento alla via romana Annia-Popilia, il pensiero si rappresenta due realtà topografiche italiane, assolutamente differenti e alquanto distanti tra loro: il Settentrione e il Meridione.
Roma, infatti, costruì due tratti stradali che ebbero la medesima denominazione onomastica:
1) La via Annia-Popilia, allocata nel Settentrione d’Italia tra Romagna e Veneto, si componeva di due tronconi stradali: a) il primo, realizzato nel 132 a. C. per decisione del Console Publio Popilio Lenate, assolveva ad una importante necessità commerciale, congiungendo i mercati marittimi di Ariminum (Rimini) e Atria o Hadria (Adria). Tale tratto è stato denominato via Popilia dal suo curator-aedificator; b) il secondo, realizzato nel 131 a. C. per decisione del console Tito Annio Lusco Rufo, riallacciandosi al capolinea viario (Atria) e intersecando le civitates di Padova e Altino, congiungeva Atria ad Aquileia in Friuli-Venezia Giulia, assumendo la denominazione di via Annia. Ultimato il tratto mancante, tutta l’arteria stradale nella sua totalità itineraria, ab Arimino ad Aquileiam prese il nome di via Popilia-Annia.
2) La via Annia-Popilia allocata nel Meridione d’Italia, interessando tre regioni del Sud, attraversava la Campania, la Lucania e la Calabria, da Rhegium (Reggio Calabria, civitas foederata) a Capua con la presenza nel suo percorso di vari diverticula (diramazioni stradali), di cui uno dei più importanti era costituito dalla via Herculea che, prendendo l’abbrivo da Nerulum (Nerulum, oppidum Lucaniae, che denuncia nella denominazione una semplice assonanza con Nérola [Roma], ma resta di incerta collocazione topografica e altrettanto incerta denominazione attuale) e passando da Grumentum (Grumento Nova), Potentia e Anxia (Anzi), giungeva sino a Venosa (Venusia) in Puglia.
Come è stato preannunciato, mentre l’Annia-Popilia partiva da Reggio Calabria (Rhegium) e raggiungeva Capua (Casilinum, piccolo centro romano, già esistente al tempo della colonizzazione greca e conosciuto con il nome di Kapuh), questa ultima città era collegata a Roma per mezzo della Via Appia, che era stata costruita nel 190 a.C. e venne così denominata da Appio Claudio Cieco (Appius Claudius Caecus). Questa ultima via, partendo da Roma, dopo avere raggiunto Capua, proseguiva per la Puglia, raggiungendo Brundisium (Brindisi).
Della via Annia-Popilia, interessante il Meridione, l’inizio dei lavori viene comunemente fissato nel 132 a. C.-
Operando un veloce raffronto di date e non perdendo mai di vista il quadro generale della viabilità del Meridione e di quella insulare, possiamo introdurre in questo lavoro alcune, anche se brevi, considerazioni di carattere generale.
Nel momento in cui venne aperta al traffico la via Annia-Popilia meridionale (132 a. C.), la Sicilia poteva già contare su una importante viabilità posta sulla sua costa settentrionale-tirrenica, la via Valeria-Pompeia, la quale, in esercizio già a far tempo dal 192 a. C., congiungeva il Fretum (lo Stretto, naturalmente, di Messina) alla città di Lilybaeum (Marsala), sviluppandosi (per l’ appunto, ab Freto ad Lilybeaum) complessivamente per duecentoquaranta miglia romane, equivalenti a circa chilometri trecentocinquanta. Per conseguenza, si può agevolmente argomentare che, per una lunga soluzione cronologica, tra la via Appia (che partendo da Roma arrestava il suo corso a Capua) e la civitas foederata di Reggio Calabria, esisteva una incolmabile e vergognosa soluzione di continuità viario-topografica che non consentiva la prosecuzione di un viaggio terrestre dal meridione della penisola per raggiungere l’isola di Sicilia. E’ giocoforza, quindi, ritenere che la Calabria venisse superata seguendo rotte marittime sino allo Stretto per, poi, volendolo fare, proseguire sulla via Valeria-Pompeia.
Il traffico locale della Calabria (Brutium) prima della costruzione della via Annia-Popilia, si svolgeva tutto su sentieri, tratturi, vie pastorizie di transumanza e strade interpoderali, sino a quando, finalmente, entrò in funzione la via consolare romana, la quale contribuì fortemente allo sviluppo dei commerci del Meridione e che, ampliata, rafforzata e riparata venne tenuta in vita sin quasi al ventesimo secolo, quando lo Stato italiano postunitario ritenne di collegare, alla meno peggio, anche la Calabria al resto della Nazione, costruendo una minimale Autostrada, quasi sulle tracce della via Annia-Popilia, ossia la Salerno-Reggio Calabria.
Niente di nuovo sotto il sole, il Meridione rappresenta una componente minore rispetto al resto del Paese!
Il primo problema che siamo obbligati a trattare è quello relativo alla denominazione della via, alla quale è stata attribuita ab immemorabili e, comunque, a far tempo dalla sua apertura al traffico, la denominazione onomastica di via Annia-Popilia.
Tra gli studiosi il problema della denominazione viaria ha assunto una importanza preminente rispetto a qualsiasi altra problematica attinente a questo tratto viario. Ciò a cui non sono state date risposte certe è rappresentato dall’interrogativo che si riferisce alla doppia denominazione della via, Popilia-Annia o Annia Popilia e, inoltre, a quello volto ad individuare colui che programmò la sua costruzione oppure colui che ne ultimò i lavori, oppure, ancora, colui che ebbe a curarne la manutenzione.
Secondo la maggioranza degli studiosi, capofila il Mommsen, la via Popilia deriverebbe la sua denominazione da PUBLIO POPILIO LENATE (Publius Popillius Laenas), appartenente alla gens Popilia, che fu console nell’anno 132 a. C. e sarebbe stato il promotore originario del progetto di realizzazione dell’opera viaria. Ci sembra opportuno aggiungere che Publio venne accusato, per un cavillo giuridico, di alto tradimento, per cui durante l’iter del suo processo, preferì intraprendere, sua sponte, la via dell’esilio. Liberato, infine, da ogni addebito e riabilitato, fece ritorno in patria.
L’altra denominazione, Via Annia, deriverebbe da TITO ANNIO LUSCO RUFO (Titus Annius Luscus Rufus), uomo politico romano, appartenente alla gens Annia che, durante il suo cursus honorum, ricoprì la carica di Pretore nell’anno 131 e di Console nell’anno 128 a. C.
Sulla costruzione, gestione e manutenzione della via Annia-Popilia le fonti documentarie sono quasi inesistenti, particolarmente quelle cartacee. Una di queste poche esistenti è costituita dal LAPIS POLLAE detto, anche, ELOGIUM.
Il Lapis Pollae, pietra miliare di Polla, cosiddetto in quanto rinvenuto in località San Pietro del Vallo di Diano nella circoscrizione amministrativa del comune di Polla (SA), che venne fondato nel Medioevo, a seguito della distruzione ad opera di Alarico avvenuta nel 410 di Forum Popilii.
Questa pietra miliare viene anche denominata, come già detto, Elogium, che si traduce con cartello segnalatore, ma, anche e semplicemente, con elogio, lode, poiché, come si vedrà qui di seguito, rappresenta una specie di compendiata apologia pro se del suo autore.
Segue, qui sotto, il testo lapideo espresso in una lingua latina che non si può, certo, definire né protocollare, né classica.
“VIAM FECEI AB REGIO AD CAPUAM ET IN EA VIA PONTEIS OMNEIS MILIARIOS TABELLARIOSQUE POSEIVEI HINCE SUNT NOUCERIAM MEILIA LI, CAPUAM XXCIIII, MURANUM LXXIIII, COSENTIAM CXXIII, VALENTIAM CLXXX, AD FRETUM-AD STATUAM CCXXXI, REGIUM CCXXXVII, SUMA AF CAPUA-REGIUM MEILIA CCCXXI ET EIDEM PRAETOR IN SICILIA FIGITEIVOS ITALICORUM CONQUAEISIVEI REDIDEIQUE HOMINES DCCCCXVII, EIDEMQUE PRIMUS FECEI UT DE AGRO POPLICO ARATORIBUS CEDERENT PAASTORES FORUM AEDISQUE POPLICAS HEIC FECEI”
“HO COSTRUITO LA VIA DA REGGIO A CAPUA E IN QUELLA VIA HO POSTO TUTTI I PONTI, I MILIARI E I TABELLARI. DA QUESTO LUOGO A NOCERA (ALFATERNA) 51 MIGLIA, A CAPUA 84, A MORANO 74, A COSENZA 123, A VIBO VALENTIA 180, ALLA STATUA DELLO STRETTO (IL PIANO DELLA MILEA PRESSO CUI ERA POSTO IL TEMPIO DI APOLLO) 231, A REGGIO 237. LA SOMMA DA CAPUA A REGGIO (E’ DI) 321 MIGLIA E IO STESSO, PRETORE IN SICILIA, CATTURAI E RESTITUII GLI SCHIAVI FUGGITIVI DEGLI ITALICI (OSSIA) 917 UOMINI E SEMPRE IO PER PRIMO HO FATTO IN MODO CHE CON RIFERIMENTO AI FONDI DI NATURA DEMANIALE I PASTORI DOVESSERO DARE LA PRECEDENZA AGLI AGRICOLTORI. IN QUESTO LUOGO HO EDIFICATO UN FORO E UN TEMPIO PUBBLICI ”.
Il contenuto dell’iscrizione, riportato sopra, nella lingua originale e nella traduzione in quella italiana, genera alquante perplessità delle quali, in modo compendiato, riassumeremo le più evidenti.
Già abbiamo sopra evidenziato la perplessità causata dalla espressione linguistica, la quale, in riferimento a Publio Popilio Lenate e Tito Annio Rufo, entrambi intraprendenti il cursus honorum delle magistrature romane, il primo raggiungendo il grado di console e il secondo quello di pretore, avrebbe dovuto ubbidire a determinati protocolli espressivi quali, appunto, quelli delle cariche da essi ricoperte.
Al contrario, è di tutta evidenza come l’espressione linguistica del Lapis sia, al contrario, di indirizzo demotico, tale e quale veniva parlato dai militari semianalfabeti delle legioni romane, i quali, poi, lo diffondevano nelle province conquistate da Roma.
Altra perplessità è generata, saltando anch’essa immediatamente agli occhi, dalla circostanza secondo cui, pur essendo il racconto lapidario costruito in prima persona, non vi sia alcun riferimento anagrafico all’autore dello scritto. E’ doveroso aggiungere come tale deficienza possa essere stata prodotta non già da un disegno volontario di volere mantenere l’ anonimato, ma, piuttosto, da una mutilazione grafica successiva causata dal tempo, dalla manipolazione umana o da qualsiasi altra causa fortuita, come è stato ipotizzato da vari autori. Noi siamo più che convinti che la mancanza dell’indicazione dell’autore sia dovuta a causa fortuita, soprattutto in considerazione del contenuto dell’ epigrafe, la quale evidenzia tutta l’intenzione autoreferenziale del suo autore che, espone, in una specie di curriculum vitae, fuori luogo e fuori sede, i meriti acquisiti durante il suo cursus honorum. Che, poi, l’autore dell’epigrafe, dopo avere effettuato questa specie di apologia pro se, dimentichi, volontariamente, di indicare a chi l’apologia si riferisca, sarebbe un controsenso.
Abbiamo anche affermato che l’elogio di se stesso sia fuori luogo e fuori sede, per il semplicissimo motivo per cui, mentre l’esposizione delle distanze miliarie della via Annia-Popilia e quella della costruzione dei ponti, dei miliari e tabellari, risulta coerente con la stessa funzione tabellare, di cui osserva il thema tractandum, non si riesce a comprendere e a giustificare, invece, l’elenco dei meriti acquisiti riguardo a quella specie di fac-simile di riforma agraria in danno dei pastori e a favore degli agricoltori, né l’altra affermazione di avere costruito, proprio in quel punto topografico, un Foro e un Tempio pubblici. Come appare di tutta evidenza, emerge una chiara volontà di autoincensamento, assolutamente estranea alla natura e funzione del Lapis. Non a caso, riteniamo, il cippo di Polla, oltre alla denominazione abituale più volte riportata, viene identificato come Elogium Pollae, definizione, quest’ultima, del tutto estranea alla segnaletica stradale di Roma antica.
L’ultima e, forse, dalla maggior parte degli ermeneuti la più incomprensibile, delle incongruenze riscontrate e conseguenti all’esame grafico del testo, è data dalla particolare consecutio nominum usata dall’autore grafico del Lapis.
Prima di esporre l’epicentro del problema, appare necessario illustrare alcune premesse chiarificatrici del problema stesso.
Come abbiamo più volte evidenziato, Roma è stata una eccellenza indiscussa per ciò che attiene alla costruzione delle strade, degli acquedotti, dei ponti e delle cloache ipogee. Questi elencati sono i campi in cui le evidenze saltano subito agli occhi in quanto connotate da caratteri “grassetto”, mentre ve ne sono altri che hanno caratteri più tecnici e professionali, come il campo del diritto. Sono molteplici gli istituti del diritto positivo vigente in Italia e in altri Paesi neolatini che derivano i loro principi generali civili, penali e amministrativi dal Diritto di Roma, a partire dalla Lex duodecim tabularum.
Nel corso della sua millenaria vita storico-politica, l’Urbs costruì in tutto il mondo allora conosciuto una rete viaria così estesa da evitare con facilità qualsiasi termine di paragone. La fonte originaria (ombilicus mundi) di tutte le strade costruite, era, ovviamente, la capitale e nella capitale, a sua volta, l’onfalos era situato nel Foro, accanto al Tempio di Saturno, dove, per volontà di Augusto, che agiva nella veste istituzionale di curator viarum, venne eretto, nell’anno 20 a. C., il MILIARIUM AUREUM (Pietra miliare di oro, anche se, in effetti, era costituita da una colonna marmorea rivestita da una lamina di bronzo dorato), il quale riportava le distanze, espresse in miglia romane (un miglio = a metri 1.480), esistenti tra la Porta Capena di Roma (che era la fons a qua venivano prese e annotate le varie città delle Province conquistate con le relative distanze miliari) e le città stesse..
E’, pertanto, conseguenza logica e ineludibile che tali distanze venissero tutte espresse usando due complementi di luogo: il primo era sempre il complemento di moto da luogo e consisteva nella espressione canonica AB ROMA (da Roma); anche il secondo era sempre un complemento di luogo e, precisamente, il complemento di moto a luogo e consisteva nella espressione canonica della preposizione semplice AD (seguita dal nome della città considerata, come, facendo un esempio, Capua) CAPUAM. Seguiva, infine, la distanza miliaria espressa in lettere romane con valore numerale.
L’ordine delle nomenclature topografiche lapidarie partiva, sempre e comunque, da Roma confluendo nella successiva città provinciale. Nel caso in cui il miliario relativo non potesse riferirsi a Roma, trattandosi di distanza intermedia tra due città entrambe provinciali, l’ordine espositivo restava, sempre e comunque, osservato e presente con l’obbligo di esporre la provenienza (ab) dall’agglomerato urbano che si fosse trovato più vicino a Roma e la destinazione (ad) da quello che da Roma si fosse trovato più lontano.
Che i Romani coltivassero un culto campanilistico e urbicentrico è cosa che non necessita di particolari considerazioni. Il loro convincimento si incentrava (cosa che, del resto, aveva un serio fondamento) sulla considerazione che tutta la rete viaria romana originasse, appunto, dalla città di Roma, per cui tutte le strade partivano da Roma e raggiungevano tutto il mondo allora conosciuto con esclusione, quindi, delle regioni classificate con l’etichetta “hic sunt leones”.
Esisteva, comunque, una nutrita schiera di persone, soprattutto provinciali, che la pensavano esattamente al contrario, nel senso che tutte le strade non partissero da Roma, ma che tutte le strade portassero a Roma, con tutti gli effetti che tale convincimento comportava soprattutto in ordine al sovraffollamento demografico e, in special modo, alla qualità delle persone che si urbanizzavano.
Come è facilmente riscontrabile, anche il cippo di Polla, con il suo ordine espositivo, non osserva il principio maggioritario testé espresso, anzi lo viola apertamente annullando la potiorità capitolina.
Nell’incipit della richiamata epigrafe, infatti, è detto Viam fecei ab Regio ad Capuam, mentre la versione corretta sarebbe dovuta essere Viam fecei a Capua ad Rhegium, secondo l’ordine imposto dal Miliarium Aureum.
Ma la stranezza, anziché scemare, aumenta ancora di più, quando, subito dopo l’incipit, l’ordine espositivo riprende rientrando nella normalità tramite l’abbrivo dal punto geografico di Capua e venendo giù, via via, fino ad arrivare a Reggio.
E’ come se l’ autore dell’epigrafe lapidaria fosse stato colto, al momento della iscrizione, da un raptus di natura sentimentale che lo ha portato a conferire, in modo istintivo e inconscio, una preminenza classificatoria a Reggio Calabria rispetto a Capua.
L’ osservazione che precede non nasce da un nostro disappunto. Il fatto preminente è che vorremmo capire solo il perché delle cose al fine di conseguire una soddisfazione logica.
Anche perché tale inversione dei termini potrebbe significare qualcosa di più importante riguardo alla posizione dell’autore dell’epigrafe medesima.
Per concludere sul punto in rassegna, è di obbligo dire la nostra per tentare di dare una spiegazione circa la doppia denominazione onomastica assunta dalla via.
Quale fu la motivazione per la quale l’autore grafico del cippo di Polla si permise di invertire il sacro ordine delle cose?
Come abbiamo già accennato all’inizio, le ipotesi su tale doppia denominazione sono molteplici e svariate, tutte logiche, tutte probabili, ma nessuna di esse, riteniamo, che abbia raggiunto la sacralità storica.
La nostra ipotesi, che viene esposta con ogni sottomissione possibile e con il convincimento che si tratta pur sempre di una ipotesi come tante altre ne sono state fatte, è che la soluzione del problema si trovi nella stessa lettera del cippo.
Infatti, in uno dei luoghi letterari del Lapis, è dato leggere: “E io stesso, pretore in Sicilia, catturai…ecc. ecc.”.
Orbene, tra i due intestatari della prosecuzione della via Appia verso il Brutium, Publio Popilio Lenate e Tito Annio Lusco Rufo, quello che, effettivamente, ricoprì la carica di pretore in Sicilia nell’anno 131 a. C., fu proprio Tito Annio Lusco Rufo che, successivamente, nell’anno 128 a. C., ricoprì anche la carica di console.
Non vi sono elementi oggettivi che contrastino le affermazioni contenute nel cippo di Polla, risultando anzi dalle fonti tràdite che Tito Annio non solo ricoprì la carica di pretore e, successivamente, quella di console, quanto risulta al vero il suo impegno di cattura degli schiavi fuggitivi. Ciò ci abilita a ritenere che il personaggio elogiato sul cippo sia proprio lui.
A noi, infine, non risulta fondata l’opinione in base alla quale siano esistiti due personaggi quasi omonimi: uno denominato Tito Annio Rufo; l’altro Tito Annio Lusco, entrambi divenuti pretori ed entrambi divenuti consoli.
Il personaggio in rassegna è unico e si chiamava, all’origine, Tito Annio Rufo, appartenente alla gens Annia in quanto figlio dell’omonimo console che ricoprì tale carica prima di lui nell’anno 153 a. C.-
Tito Annio, per motivazioni sue personali, volle aggiungere al suo originario cognomen (patronimico) di Luscus, l’agnomen (soprannome) di Rufus.
Occorre precisare che entrambe le cariche magistrali da lui ricoperte, pretura e consolato, gli avrebbero consentito, in ogni caso, quello jus imperii necessario, sia per costruire di iniziativa, ex novo, una via pubblica, sia per ultimarla in ipotesi di interruzione dei lavori della stessa per cause di forza maggiore.
In concomitanza, con la serie di coincidenze da noi sopra evidenziate e riguardanti Tito Annio Lusco Rufo, ve ne è un’altra, storicamente accertata, che riguarda l’altro cointestatario della via di cui ci stiamo occupando e, cioè, Publio Popilio Lenate.
Secondo l’opinione dottrinale maggioritaria (Mommsen capofila), sarebbe stato proprio Publio Popilio Lenate a tagliare il nastro di inaugurazione dell’inizio dei lavori per la costruzione della via che avrebbe dovuto congiungere Capua a Reggio Calabria. E su tale premessa riteniamo che non vi sia alcunché da eccepire, non risultando elementi contrastanti. Il punto in cui, però, la nostra ipotesi diverge dalla maggioranza dottrinaria deriva dalla biografia di Publio Popilio Lenate, alla quale abbiamo sopra effettuato un breve accenno.
PUBLIO POPILIO LENATE (Publius Popillius Laenas), appartenente alla gens Popilia, che fu console nell’anno 132 a. C. (come appare subito evidente le date storiche coincidono con la narrazione dei fatti relativi sia alla vita di Publio Popilio, che a quella di Tito Annio), sarebbe stato il promotore originario del progetto di realizzazione della via. Senonché la sua vita, sia privata che di impegno civile pubblico, fu oscurata da un avvenimento particolare che lo fece cadere in disgrazia, interrompendo, anche, il suo cursus honorum.
La vita politica di Roma era connotata, nel periodo preso in esame, dalle contese politiche, spesse volte violente e senza esclusione di colpi bassi, tra due fazioni tra esse avversarie, quella dei POPULARES (Popolari) e quella degli OPTIMATES (Ottimati).
I primi appartenevano a famiglie di origine umile, ma che erano riuscite, con caparbia, costanza lavorativa e ininterrotto impegno ingegnoso, a raggiungere uno stato di agiatezza economica di rilievo, al punto che molti loro componenti avevano intrapreso con successo il cursus honorum delle magistrature romane.
I secondi, al contrario, appartenevano a famiglie che oggi definiremmo di una certa blasonatura conferita dagli avvenimenti storici, in quanto alcuni dei loro antenati avevano avuto la ventura di partecipare alla fondazione della Città Eterna, anche se, nei tempi del nostro riferimento, avevano subito un rallentamento socio-economico notevole.
Tali evidenti situazioni di contrasto portavano all’instaurazione di un clima particolare, per cui gli ottimati guardavano i popolari dall’alto in basso, supportati da quello che loro ritenevano di potere esibire come albero genealogico connotato da antica nobiltà, mentre i popolari si ritenevano superiori ai loro avversari, supportati dalle loro conquistate agiatezze economiche.
In questo clima da moderni Capuleti e Montecchi, era accaduto che Publio Popilio Lenate venisse accusato di avere commesso, nell’esercizio delle sue funzioni pubbliche, il reato di alto tradimento, in quanto, si era reso responsabile nei confronti del popolo di Roma di avere istituito una quaestio extraordinaria (ai giorni nostri, la chiameremmo giudizio con rito direttissimo, senza, cioè, udienza preliminare e istruzione dibattimentale) e di avere conseguentemente pronunciato una sentenza di condanna a morte di un civis romanus, mentre, secondo le antiche e mai abrogate leggi di Roma, avrebbe dovuto, prima, ottenere il consenso popolare che rappresentava la condicio sine qua non della legittimazione alla pronuncia della sentenza capitale, in deroga ai principi della competenza funzionale dei Comizi Popolari. A quanto precede occorre aggiungere che la quaestio extraordinaria riguardava i complici di Tiberio Gracco, il che provocò la reazione irosa e vendicativa dei populares.
In sostanza, Publio Popilio Lenate procedette all’emissione della sentenza di condanna in assenza del preventivo placet popolare, ossia, con terminologia tecnica, iniussu populi.
Questo modus procedendi gli comportò, come già detto, l’accusa di alto tradimento, che era considerato reato gravissimo, in quanto la dottrina giuridica riteneva che il soggetto passivo e persona lesa da tale comportamento antidoveroso non fosse un quivis de populo, ma un soggetto particolare e fondamentale quale era indubbiamente il Populus Romanorum, in questo frangente inteso alla stregua di una entità giuridico-politica collettiva di natura costituzionale.
Fu così che venne iniziato, nei confronti di Publio Popilio Lenate il processo penale per alto tradimento, del quale, comunque, l’imputato non vide la conclusione perché, avendo, con ogni evidenza, compreso che il verdetto sarebbe stato inevitabilmente di condanna, come poi, in effetti, fu, egli preferì (così come si era soliti fare, in ipotesi di colpevolezza conclamata, come, ad esempio, citiamo il caso di Verre per tutti), non attendere la lettura della sentenza, allontanandosi prima da Roma e, successivamente, in obbedienza alla emessa sentenza, dall’Italia.
In effetti, così come abbiamo testé preannunciato, la sentenza affermò la responsabilità penale dell’imputato in ordine al reato che gli era stato contestato e, in conseguenza di ciò, a Publio Popilio Lenate venne applicata la sanzione personale del divieto di risiedere nel territorio della penisola.
Quando, poi, in successione temporale, il patriziato di Roma, riuscì a conseguire il sopravvento sul ceto dei populares e, così, a riconquistare i pieni poteri, la sentenza di condanna contro Publio Popilio venne revocata ed egli potè, quindi, rientrare in Italia.
Non conosciamo con esattezza il dies a quo della emissione e della esecuzione della sentenza nei suoi confronti, né la durata del suo soggiorno penitenziale all’estero.
Conoscere i limiti della parentesi cronologica del suo allontanamento dall’Italia, sarebbe di notevole importanza ai fini della risoluzione degli interrogativi irrisolti riguardanti la via Annia-Popilia, anche se, occorre precisare, che gli elementi esaminati a nostra disposizione, sono, comunque, tutti concordi nell’indicare e, quindi, nel fornirci, per implicito, un valido supporto, che gli eventi suesposti si siano verificati intorno all’arco temporale coinvolgente gli anni 132-131-130-129-128 a. C., (anno più, anno meno), in concomitanza, cioè, di quel periodo di tempo nel quale sia Publio Popilio Lenate, sia Tito Annio Lusco Rufo ebbero ad interessarsi, istituzionalmente, della costruzione di entrambe le vie Annia-Popilia, sia di quella romangolo-veneta, sia di quella che intersecava la Campania, la Lucania, e la Calabria.
La vicenda giudiziaria sopra riferita potrebbe, con una probabilità matematica molto prossima al cento per cento, avere determinato, in capo a Publio Popilio Lenate, la forzata interruzione dell’esercizio delle sue prerogative di magistrato, ivi compresa l’interruzione, dopo avere inaugurato l’inizio dei lavori, della costruenda via Popilia e della sua funzione di curator viarum, il cui posto, rimasto così vacante, potrebbe essere stato occupato da Tito Annio Lusco Rufo, il quale, dopo avere portato a termine i lavori, aggiunse, con suo pieno diritto, il proprio nome a quello di Lenate.
Tutti gli episodi narrati, come si è potuto constatare, si sono verificati con una successione cronologica quasi simultanea e sincronica.
Riteniamo che Publio Popilio Lenate abbia fatto appena in tempo a dare il via all’ inizio dei lavori, quando gli è capitata, tra capo e collo, la tegola giudiziaria sopra narrata.
E’ consequenziale che la sostituzione istituzionale di Popilio tramite il suo collega magistrato Tito Annio Lusco Rufo, debba essere stata drasticamente repentina tanto quanto l’allontanamento di Publio Popilio da Roma e dall’Italia.
Questa ipotesi potrebbe spiegare la doppia denominazione della via, oramai storicamente accreditata come via Annia-Popilia o, a piacimento, Popilia-Annia.
La circostanza per cui Tito Annio ebbe ad interessarsi della costruzione della via in rassegna sembrerebbe confermata, anche, dal ritrovamento casuale di una iscrizione inframiliare, avvenuta nel territorio di Sant’Onofrio presso Vibona (Vibo Valentia), la quale effettua un riferimento, anche se con costruzione letteraria acronima, proprio a Tito Annio.
La circostanza della denominazione, per così dire, binaria e condominiale della via non dovrebbe, a nostro avviso, creare tutta quella diatriba a cui, invece, ha dato luogo.
L’interrogativo può agevolmente essere risolto, facendo riferimento all’altra via Popilia-Annia del Settentrione, alla quale in premessa è stato fatto riferimento.
Prescindendo, per ora, dall’identità anagrafica dei personaggi protagonisti, tale via consolare del Settentrione ebbe ad assumere sin dall’origine la denominazione che poi ha sempre mantenuto nel tempo, via POPILIA e ciò in onore del suo curator, il console Publio Popilio Lenate (il medesimo della via Popilia del Meridione), che ebbe a realizzarla nell’anno 132 a. C. (coevamente, quindi, alla via Annia-Popilia meridionale).
Il capolinea di tale tratto settentrionale era costituito dalla città di Rimini e la destinazione finale da quella di Adria (ab Arimino ad Hatriam).
Dopo l’apertura al traffico del tratto ultimato, fu subito evidente a tutti come la via Popilia Rimini-Adria avesse assunto (oltre, naturalmente, quella immancabile militare che riguardava tutte le strade romane) una specifica e notevole importanza sotto il profilo economico e ciò in quanto erano sotto gli occhi di tutti la velocizzazione e la moltiplicazione dei traffici commerciali.
Fu, di conseguenza, subito chiaro ai curatores viarum che, al fine di incrementare ulteriormente i traffici commerciali, occorreva prolungare l’asse viario da Hatria, ove si era arrestata la via Popilia, ad Aquileia in Friuli-Venezia Giulia. Fu così che nell’anno 131 a.C. il console Tito Annio Lusco Rufo, decise di completare il tragitto viario nel senso suddetto, curando che la via toccasse, nel suo sviluppo, le civitates di Padova e Altino.
Questo secondo tratto stradale, in prosecuzione del primo che era stato già denominato via Popilia per onorare il nome del suo costruttore, console Publio Popilio Lenate, venne denominato via Annia in onore del console curator.
La conseguenza più logica fu che l’intera via, comprensiva dei due tratti stradali, ab Arimino ad Aquileiam, venisse denominata via Popilia-Annia.
Non era la prima volta, né, per la verità, l’ultima, che succedeva che una via assumesse una denominazione binaria e ciò poteva avvenire in riferimento al costruttore, al prosecutore dei lavori, in ipotesi che gli stessi venissero interrotti, oppure in riferimento a chi, in prosieguo, ne venisse la manutenzione e il miglioramento e, infine e non di rado, in riferimento alla denominazione topografica.
Tanto per ricordare alcuni di tali assi viari, ci piace evocare: la via Julia-Augusta, così chiamata in onore di Giulio Cesare e di Augusto, congiungeva Placentia (Piacenza) a Var (Varo, Francia); la via Claudia Augusta, costruita dal generale Druso e successivamente ampliata da suo figlio Claudio, da cui assunse il nome, congiungeva, attraversando le Alpi, la pianura padana alla Baviera; la via Tiburtina-Valeria, antica via naturale di transumanza che congiungeva Roma a Tivoli (Tibur), dopo essere stata sistemata e pavimentata dal console Marco Valerio Massimo Potito, assunse il nome, congiuntamente, del console e del luogo; la via Appia-Traiana, che congiungeva Benevento a Brindisi, fu voluta e realizzata dall’imperatore Traiano; la via Valeria-Pompeia, voluta dal console Marco Valerio Levino, governatore nel 210 a. C. della Sicilia e denominata Valeria, evidentemente, in suo onore, congiungeva il Fretum (Stretto di Messina) a Lylibaeum (Marsala) percorrendo tutta la costa settentrionale dell’Isola. Divenne, in seguito via Valeria-Pompeia, quando per interessamento di Pompeo Magno (secondo l’opinione di alcuni studiosi), ma di Gneo Pompeo (secondo altri), venne costruito il tratto stradale dal Fretum a Siracusa; la via Appia-Popilia-Annia, che, partendo dalla regina viarum, la via Appia, rappresenta la sommatoria della via Appia (costruita da Appio Claudio Cieco) che congiungeva Roma a Capua e della via Annia-Popilia (costruita dai nostri due, Publio Popilio Lenate e Tito Annio Lusco Rufo), che collegava Capua con Reggio Calabria.
Nessuna meraviglia, dunque, se la via della quale stiamo scrivendo, si presenti con una doppia denominazione. La giustificazione storica potrebbe benissimo essere quella sopra rappresentata, così come pacificamente è avvenuto in riferimento alla via Popilia-Annia dell’Italia settentrionale.
Per quanto, invece, attiene al contenuto epigrafico del Lapis Pollae, sconosciamo il nome di chi possa esserne stato l’autore, sia materiale (per quanto attiene alla grafia vera e propria), sia spirituale (per quanto attiene al contenuto concettuale dello scritto), ma, al contrario di quanto precede, noi riteniamo che il personaggio storico, al quale tale contenuto si riferisce, sia, invece, agevolmente individuabile, come diremo qui di seguito.
Il riferimento, in assenza di una specificazione nominativa, non può che essere ricavato dall’esegesi del suo stesso contenuto.
Riteniamo, su tale punto, che si possa affermare che il riferimento sia indirizzato a Tito Annio Lusco Rufo, in quanto, procedendo ad un rapporto comparativo riguardo all’altro possibile contendente, Publio Popilio Lenate, quello che, secondo la lettera stessa dell’epigrafe del cippo, ebbe a rivestire la carica di magistrato pretorile in Sicilia, è, appunto, Tito Annio Lusco Rufo.
Orbene, quanto afferma la lettera epigrafica del lapis, riguardante la carica pretorile svolta in Sicilia da Tito Annio, sulla cui fondatezza non emergono motivi dubitativi, deve essere messo in rapporto con quell’episodio, che abbiamo riferito supra e che ebbe a coinvolgere la vita privata e pubblica di Publio Popilio Lenate.
Ci riferiamo all’accusa di alto tradimento che vide Publio Popilio Lenate imputato di tal delitto e condannato all’allontanamento da Roma e dall’Italia.
La storia dimostra come gli interventi, in ordine alla costruzione della via ab Rhegio ad Capuam, da parte di Publio Popilio Lenate e Tito Annio Lusco Rufo, siano stati, come abbiamo già affermato in altro luogo letterario del presente lavoro, pressoché coevi (in un periodo di tempo oscillante tra gli anni 132-131-130-129-128 anno più, anno meno) e, se non proprio coevi, essi si sono certamente intersecati, tenendo sempre presente che l’intero tratto di ben 321 miglia romane (odierni Km. 475) tra Reggio e Capua, fu costruito in un tempo, che oggi, malgrado le nostre avanzate tecniche costruttive stradali, ci sembra un tempo da primato olimpico, essendosi limitato ad appena circa quattro anni, dal 132 al 128 a. C..mentre per la costruzione ex novo dell’Autostrada Salerno-Reggio Calabria i limiti cronologici della costruzione vanno dal dies a quo del 1962 al dies ad quem 1974.
E non è tutto!
Infatti, siccome i lavori autostradali sono stati, evidentemente, eseguiti non rispettando il principio di assolute obbedienza e osservanza di quelle che sono le regole dell’arte, si è dovuto intervenire nuovamente, a distanza di pochi anni, per molteplici ammodernamenti e riparazioni tramite importanti lavori durati dal 1997 al 2017.
E’ necessario aggiungere che lungo l’intero percorso delle strade romane erano predisposti dei punti di assistenza e sosta al fine di rendere il viaggio il meno disagevole possibile.
Infatti, il viaggiatore aveva la possibilità di usufruire delle seguenti attrezzature edilizie finalizzate tutte alle sue assistenza e accoglienza:
Cauponae: osterie-taverne. Erano luoghi di ristorazione frugale e popolare, il più delle volte frequentati anche da malviventi e prostitute, come narrano le cronache dell’epoca;
Mansiones: alberghi, luoghi di soggiorno diurno e notturno. L’intervallo tra una mansio e quella successiva obbediva alla misura canonica di circa venticinque miglia romane, sì da consentire al viaggiatore di coprire l’intera distanza in un giorno solare, essendo abitudine dei peregrini di evitare di viaggiare di notte e ciò per motivi soprattutto di sicurezza;
Mutationes: luoghi di assistenza viaria attrezzati. Infatti, era possibile, nell’ambito della mutatio, sostare per accudire i cavalli o per procedere al loro cambio e fare, allo stesso tempo, un veloce spuntino. Per questo, le mutationes erano particolarmente usate dai corrieri ufficiali o militari e da quelli postali;
Stationes: veri e propri ostelli ante litteram. In queste aree di sosta si poteva trovare di tutto.
Tabernae: alberghi di livello popolare, nei quali era anche possibile effettuare una piccola colazione. Era ben noto il detto del comune viaggiatore romano, quando la notte era incipiente: devertere in tabernam (fermarsi in albergo).
I Romani, per evidenti motivi di sicurezza personale e salvaguardia dei propri beni al seguito, evitavano, sempre e in ogni modo, di viaggiare di notte, tranne che non vi fossero costretti da esigenze seriamente vitali.
Come abbiamo fatto altre volte, siamo soliti ricordare, ad esempio, il viaggio da Marco Tullio Cicerone, intrapreso nottetempo per allontanarsi da Roma, nel momento in cui, entro le mura della capitale, avrebbe certamente rischiato la vita. In questa occasione, però, l’insigne avvocato si era munito (come, in caso di bisogno, facevano le persone abbienti) di quello che i Romani chiamavano servus prelucens (servo che illuminava la strada precedendo il dominus), ovverosia di uno schiavo che di corsa, munito di una capace fiaccola, precedeva la lettiga o il cavallo. Era evidente, però, che non tutti i cives romani potevano permettersi l’ausilio di un servus prelucens, per cui i curatores e i magistri viarum, al fine di risolvere il problema erga omnes, avevano provveduto ad introdurre una norma, la quale stabiliva che ogni mansio, ogni statio e ogni mutatio fosse posta ad un distanziamento miliare da quella immediatamente successiva di un minimo di venti ad un massimo di venticinque miglia, secondo l’asperità o meno del terreno attraversato dalla via. L’osservanza di tale norma consentiva al viaggiatore di coprire tale intervallo miliare usufruendo per tutto il viaggio della luce del giorno.
Il peregrino (colui che andava per [attraverso] agros [campi], nel senso di viaggiatore), soprattutto se, forestiero, non conosceva i luoghi che stava percorrendo, si serviva, il più delle volte, di carte topografiche (cosiddette itineraria) che, già a quei tempi, erano disponibili.
Esse erano di due tipi, itineraria scripta (carte topografiche scritte), i quali riportavano letteralmente, in corretta successione topografica con l’aggiunta delle relative distanze miliari, le denominazioni dei vari insediamenti antropici e delle attrezzature di ristoro e pernottamento come le cauponae, mansiones, mutationes, stationes e tabernae.
Esistevano, anche, delle carte topografiche diversamente concepite, gli itineraria picta (carte topografiche riproducenti i luoghi con il disegno), i quali, alle denominazioni antropiche e a quelle delle strutture ricettive lungo i percorsi viari, aggiungevano, rappresentato figurativamente con disegno, il percorso stradale esistente.
Ci occuperemo, adesso del tragitto della via Annia Popilia sui territori attraversati, considerato che il Lapis aut Elogium Pollae è piuttosto reticente e laconico su tale punto, in quanto si limita all’indicazione dei soli centri urbani e di sparute stationes ritenuti più importanti (Capua, Nuceria, Morano, Cosenza, Vibo Valentia, Fretum-ad Statuam ed, infine Reggio Calabria), mentre l’asse viario, diverticolando da Capua, ne toccava tanti altri e precisamente:
Nola (Nola); Nuceria Alfaterna (Nocera Superiore); Salernun (Salerno); Eburum (Eboli); Atina (Atena Lucana); Tegianum, Consilinum (Padula); Sontia (Sanza); Marcellianum (si tratta di un villaggio-pagus-in territorio di Consilinum,Civita presso Padula); Forum Popilii (Polla); Nerulum; Muranum (Morano Calabro); Interamnium (letteralmente, territorio posto tra due fiumi, corrisponde a San Lorenzo del Vallo); Caprasia (Tarsia); Consentia (Cosenza); Mamertum (Martirano Vecchio); Ad Sabatum Flumen (fiume Savuto [un tempo Sabatus e prima ancora Wkinarws], nei pressi di Martirano Vecchio: questo era il punto nel quale la via Annia-Popilia, provenendo da nord-est rispetto al fiume, lo supera dalla parte della sua riva destra, continuando, poi, il percorso lungo tutta la sua riva sinistra, sino al colle Sabazio, dove era la sua foce e sulla cui sommità era posta la città di Terina [Nocera Terinese] che veniva lambita in tangente nella zona di Portavecchia).
Da qui, mentre il diverticulum della via Annia-Popilia, denominato via Traiana, proseguiva seguendo un suo percorso essenzialmente costiero (che raggiungeva Temesa [territorio, oggi, di Campora San Giovanni-Amantea]; Clampetia [Amantea], Paola [Pabula, fitonimico per “pascolo”], Cetraro [fitonimico da cidrus=cedro], Scalea [probabilmente San Nicola Arcella]) , la via Annia Popilia proseguiva il suo corso passando da Campodorato (campus de Arata, in territorio dell’odierna Nocera Terinese); Piano delle Vigne (ager, in territorio dell’odierna Falerna, transitando nei pressi della villa romana i cui resti, portati alla luce, sono tuttora visibili); Ad Turres (statio situata nella Piana di Sant’Eufemia Lamezia),; Ad flumen Angitulam (statio nella Piana di Sant’Eufemia Lamezia); Hipponium (che successivamente venne ribattezzata Valentia e, dopo essersi fusa amministrativamente con Vibo, diede vita a Vibo Valentia), Nicotera; Tauriana; ad Fretum alias ad Statuam alias ad Columnas (Cannitello, sull’Altopiano della Milea ove esisteva un Tempio dedicato a Poseidone che, in posizione panoramica, guardava la costa Calabra ai suoi piedi e quella sicula dirimpetto; ad Fretum, presso lo Stretto di Messina; ad Statuam, presso la statua del dio; ad Columnas, presso le colonne del Tempio); Scyllaeum (Scilla) e, quindi, Rhegium (Reggio Calabria).
E’ superfluo ribadire come la via Annia-Popilia abbia costituito, non solo per le singole regioni meridionali direttamente interessate al suo percorso (Campania, Lucania e Calabria), ma anche per tutta la viabilità sia peninsulare, sia insulare (in particolar modo quest’ultima interessava la Sicilia), un importante e decisivo veicolo di progresso, benessere e, in una parola, civiltà.
Si sarà certamente notato come né il Lapis Pollae, né gli altri studi successivi, relativi alla via Annia Popilia, nominano mai Terina, la città magno-greca, sub-colonia di Crotone che pure, per la sua posizione sul colle Sabazio e la sua evoluzione socio-economica, rivestiva sull’arteria consolare una importanza notevole.
Noi riteniamo che il silenzio delle fonti dipenda dalla circostanza per cui, tale insediamento storico venne distrutto nel 203 a. C. da Annibale, il quale, non potendola difendere e temendo che, se conquistata dai Romani, essa potesse divenire un loro caposaldo, solo eam aequavit (la rase al suolo). Di conseguenza, quando nel periodo che va dal 132 al 128 a. C. nei suoi pressi fu collocato il tracciato della via Annia-Popilia, Terina non venne considerata in memoria, poiché di essa esistevano solo i ruderi.
A proposito di Terina, Gio. Battista di Nola Molisi (Cronica dell’antichissima e nobilissima città di Crotone e della Magna Grecia, Arnaldo Forni Editore 1982, ristampa anastatica edizione del 1649), riporta (Capitolo XV, pag. 103) quanto segue:
“Strabone dice che la città detta Terina era colonia dé Crotonesi, al presente si chiama Terra Nuova”. Prosegue l’autore nella sua disamina ribadendo il concetto, che attribuisce a Strabone, per cui “Terina, colonia dé Crotonesi, detta hoggi Terranova ecc. ecc.”.
In pratica, il Nola Molisi – si ripete – attribuendo l’affermazione a Strabone, afferma che, oggi (ai suoi tempi), Terina, ossia Nocera Terinese, si denominasse TERRA NUOVA o TERRANOVA.
Nocera Terinese non ha mai avuto tale denominazione in nessuno dei periodi storici attraverso i quali si è evoluta la sua storia.
Con ogni evidenza, l’affermazione che precede è frutto di una svista oppure di un errore di trascrizione nella traduzione dalla lingua greca.
Per giungere, infatti, a tradurre Terra Nuova o Terranova, il termine originario greco avrebbe dovuto essere neh (Nuova) kwra (Terra), mentre l’etimo corretto per Nocera risale ai termini neos (Nuova) kairws (Casa), da interpretarsi correttamente nel senso che Nocera Terinese altro non era se non un insediamento dei Terinei creato ex novo dopo che, a seguito delle scorrerie dei legni barbareschi, Terina era stata distrutta.
L’evidente assonanza, che facilmente può determinare un errore di trascrizione, tra kwra e kairws probabilmente avrà generato l’equivoco.
Prima di passare alle tecniche costruttive riguardanti le vie pubbliche adottate dai Romani, riteniamo conducente esaminare, sia pure brevemente, quali fossero le caratteristiche che dovevano osservare i costruttori delle vie al tempo di Roma.
La legge fondamentale – l’equivalente, quindi, di una moderna Carta Costituzionale – alla quale, in origine, i curatores e i magistri viarum erano tenuti ad obbedire per determinare le caratteristiche delle vie pubbliche di Roma (come, anche, per altre svariate materie) era costituita dalla Lex duodecim tabularum che è un corpo di leggi che venne emanato nel 451-450 a. C. da potere dei decemviri legibus scribundis, contenenti norme di diritto privato e pubblico.
Occorre subito precisare che, secondo il racconto tràdito e ormai accettato, le Tavole vennero distrutte dall’incendio di Roma da parte dei Galli. La raccolta normativa venne, però, ricostruita ex post, esclusivamente fidando
sulla memoria di quanti la avevano studiata.
Marco Tullio Cicerone ci spiega che non fu difficile la ricostruzione a memoria, in quanto egli stesso, da giovane, aveva avuto, come testo scolastico, la Legge delle Dodici Tavole, che gli studenti d’allora aveva tutti l’obbligo scolastico di impararla a memoria, ut carmen necessarium, come dice l’oratore romano.
E’ una raccolta di singole leggi, che, per i motivi suddetti, non conosciamo nella loro integralità, essendo pervenuta a noi in maniera frammentaria e mutila.
Con specifico riferimento alla viabilità pubblica, la Tavola VII, anch’essa pervenuta in frammenti, così recita:
“Viae latitudo ex lege duodecim tabularum in porrectum octo pedes habet, in anfractum, id est, ubi flexum est, sedecim”.
In italiano:
“La larghezza della via, secondo la legge delle Dodici Tavole, é di otto piedi se la via é dritta e, nella tortuosità, cioé dove é curva, é di sedici piedi”.
Considerato che il valore centimetrico del piede romano equivale a centimetri ventinove e sei millimetri, si ricava che la via pubblica romana, se rettilinea, doveva osservare la larghezza minima di metri due, centimetri ventotto e millimetri otto, mentre nelle curve tale larghezza minima doveva essere di metri quattro, centimetri settantatre e millimetri sei.
Questi valori minimi erano imposti ex lege per motivi, ovviamente, di opportunità e, precisamente, per consentire il transito simultaneo sulla via di due carri provenienti da direzioni opposte, considerato che il carrus era, ai tempi ai quali ci riferiamo, il veicolo più diffuso nel mondo romano.
Con il trascorrere del tempo e per il fatto che i veicoli andavano man mano aumentando le loro dimensioni, ci si accorse che tale misura minimale, soprattutto in caso di incrocio di due veicoli, non era più sufficiente a garantire un transito scorrevole, per cui i curatores e i magistri viarum, aumentarono la larghezza minima delle vie, portando i metri da quattro a sei nei rettilinei e da dieci a quattordici nelle curve.
Oggi noi chiamiamo carreggiate le due corsi di marcia in cui è divisa la strada a doppio senso di circolazione, oppure, al singolare, se si tratta di strada a senso unico di circolazione. Come appare subito evidente il termine carreggiata che usiamo deriva dal latino carrus, il veicolo dei Romani.
L’uso delle viae publicae era consentito a tutti senza limiti particolari, essendo il loro regime giuridico rientrante nei jura publica servitutis,come pure i marciapiedi, precorrendo, così, di millenni il regime giuridico odierno.
A questo punto vediamo il modus aedificandi viarum da parte dei Romani, i quali, secondo parecchi studiosi, lo avrebbero appreso dagli Etruschi. Sconosciamo come sia in effetti andata, anche se non si può smentire che la civiltà etrusca preceda quella romana. Una cosa, però, sembra certo e cioè che, se è vero che in questo campo furono gli Etruschi i maestri dei Romani, bisogna ammettere che, come è avvenuto spesso nella storia, è finito che i discepoli abbiano superato i maestri.
I Romani suddividevano il genus delle arterie stradali in due grandi species: le stratae (da cui deriva il termine italiano di strade, cosiddette perché erano formate da strati di materiale edilizio, interrati e sovrapposti) che erano le arterie viarie all’interno dei centri urbani e le viae, nella quale categoria rientravano tutte le arterie extra urbane che, però, potevano assumere denominazioni diverse secondo la loro allocazione topografica o l’uso a cui erano destinate, come, ad esempio: callis, piccola strada montana; actus, percorso esclusivamente pedonale; diverticulum, diramazione viaria; bivium, diramazione ad un solo diverticolo; trivium, crocicchio a due diverticoli; quadrivium, crocicchio a tre diverticoli.
Le strade di Roma, che come sappiamo, sono durate quasi intatte per tanti millenni, senza alcuna manutenzione ad adjuvandum, venivano costruite secondo regole e criteri molto precisi che, intanto, tenevano in considerazione la natura del terreno e, per questo, gli ingegneri, prima di dare il via ai cantieri, effettuavano un attento e professionale sopralluogo al fine di qualificare, dal punto di vista geologico, la natura del terreno cu cui operare.
Dopo tali attività preliminari si effettuava uno scavo, la cui profondità era variabile in rapporto alla natura del terreno. Lo scavo proseguiva sin tanto che non venisse rinvenuto nell’ipogeo uno strato solido o, meglio ancora, pietroso e veniva interrotto quando l’ipogeo offriva ai costruttori un appoggio staticamente solido, che veniva destinato a costituire il piede fermo di tutti gli strati che sarebbero stati sovrapposti.
Gli strati erano, in ordine dal basso verso l’alto, nel numero di quattro:
1) Statumen, era composto esclusivamente di sassi con poca argilla depositata come collante;
2) Rudus, era un impasto composito, costituito da sassi di media dimensione, schegge di mattoni e, per finire, rena il tutto impastato con calce;
3) Nucleus, strato costituito da ghiaia e pietrisco e, infine:
4) Summum dorsum, visibile in superficie e destinato ad accogliere il transito veicolare o pedonale, era quello che oggi chiamiamo manto stradale che, però, anziché di bitume, era costituito da piastrelle di pietra.
Il viaggiatore era aiutato, durante il tragitto, da numerosi cartelli stradali, di cui i più importanti erano i cosiddetti miliaria, ossia dei cippi (lapides) marginali posti presso le strade, che riportavano, per ogni miglio (m.1480) la distanza percorsa dal viaggiatore di modo che fosse agevole conoscerla, per potere ricavare quella che rimaneva ancora da coprire.
Tali segnali avevano una importanza fondamentale, per quei tempi. Ciò era generalmente riconosciuto anche da parte di coloro che stavano fermi nelle città, al punto che moltissime città italiane, nella loro denominazione onomastica, mantengono tuttora, a perenne ed indelebile memoria del passato, i numeri miliari, di modo che, quando ne nominiamo qualcuna, ad esempio, Quarto dei Mille, il nome ci fa venire immediatamente alla memoria che tale centro non solo fu il luogo da cui salparono le Camicie Rosse di Garibaldi dirette in Sicilia, quanto era, al tempo di Roma, posto al quarto miglio dalla città vicina.
E, ancora, ricordiamo:
Quarto d’Altino (ad quartum lapidem); Tor di Quinto, Quinto Romano, Quinto Vicentino (ad quintum lapidem); Sesto Fiorentino, Sesto San Giovanni (ad sestum lapidem); Settimo Torinese, San Frediano a Settimo, Settimo Milanese (ad septimum lapidem); Azzano Decimo, Decimomannu (ad decimum lapidem).
Un cenno, anche se breve, meritano i ponti costruiti dai Romani per superare i corsi d’acqua che si incontravano edificando la via.
Si è fatto già cenno, in precedenza, alle nostre ricerche sulle vie e sui ponti costruiti dai Romani (Cfr. Passi perduti..riportati in bibliografia).
Il fascino che suscita la visione di questi ponti è qualcosa di difficilmente trasmissibile se non lo si prova ex se.
Di per se stesso un ponte è la misura, oggettivamente fissata nel tempo, della costanza, dell’ingegno e della tecnica usati dagli uomini nel corso della storia per migliorare se stessi e la società in cui vivevano nella coscienza, inoltre, che le loro conquiste sarebbero diventate eredità delle generazioni successive.
E’ facilmente intuibile il disagio avvertito dall’ uomo primitivo quando si è trovato il sentiero improvvisamente sbarrato da un corso d’acqua di notevole portata. Fermo su una delle rive, vedeva su quella opposta la campagna fitta di alberi carichi di frutta e di animali di piccola taglia al pascolo. In quel momento, ebbe l’esatta cognizione della sua collocazione in un regno del creato privilegiato e comprese il suo destino particolare, che gli avrebbe offerto, sì, una situazione privilegiata, ma, proprio per questo, tormentata. Gettò il cuore al di là del corso d’acqua e cominciò a pensare al come potere realizzare una struttura stabile che gli consentisse di superare l’ostacolo
ogni volta in cui si presentava la necessità di farlo.
Fu così che i ponti divennero, per primi, la prova della cheiropoiesi (vera e propria poesia della manualità) del genere umano, nato da poco e da poco liberatosi dalla villosità scimmiesca.
La tecnica edificatoria dei ponti impiegata dai Romani è veramente sbalorditiva, anche se il principio sfruttato nella costruzione è di una semplicità elementare.
Il ponte romano è a schiena d’asino, di modo che esso tragga da se stesso la capacità di restare in piedi sfruttando semplicemente il principio fisico della spinta e controspinta, in virtù del quale tali manufatti hanno sfidato i millenni e sono giunti sino a noi pressoché ancora intatti e utilizzabili.
Durante la ricerca dei ponti antichi, abbiamo avuto l’opportunità di studiarne uno alquanto particolare, denominato Ponte dei Saraceni (di epoca posteriore a quella romana), sito nel territorio del comune di Adrano (CT), località Càntera, sul quale ho scritto (op. cit.):
“Talmente sono rimasto colpito da un’emozione straordinaria e profonda, vissuta un’altra solo volta nella mia vita, quando vidi il Tempio di Segesta. Il ponte dei Saraceni ti entra subito nel cuore e nell’anima, andando, infine, a scegliersi un posto in prima fila nella mente. Ti colpiscono i colori e la forma. Non si può fare a meno, guardandolo, di andare con la mente alla storia antica di questa terra”.
Il ponte si compone di quattro archi, tra loro asimmetrici, che, soprattutto nella parte culminale, sfrutta la forma della schiena d’asino. La successione degli archi, però, mi ha dato l’idea di denominarlo a carovana di cammello.
E’ stato per me spontaneo denominarlo, però, a carovana di cammello.
Tornando ai manufatti romani, soprattutto in riferimento alle strade costruite da Roma in tutto il mondo allora conosciuto e, anche, conquistato, essi rappresentano una vera e propria ragnatela reticolare.
E’ evidente come le finalità perseguite dall’Urbs siano state essenzialmente economiche e militari. Delle due non possiamo individuare quale venga per prima e quale sia successiva. Le conquiste di terre e popoli, manu militari, avvengono per motivazioni economiche, per realizzare le quali sono necessarie le armi, che continuano ad essere ancora necessarie per mantenere intatte le fonti dei guadagni e del benessere. Per fare questo, oltre alle armi e agli esperti che le sapessero maneggiare, è stato necessario costruire le strade, dalle quali, tutto sommato, sono stati tratti da tutti anche dei benefici.
Come abbiamo detto nella premessa, le strade sono state indispensabili per l’intera Umanità, che, tramite esse, si è spostata da una regione all’altra, per conoscere e fare conoscere, in una reciproca mutualità, le conquiste intellettuali acquisite, i progressi ottenuti, la specializzazione nella produzione dei prodotti della Natura, l’evoluzione del pensiero, il commercio e quant’altro di simile.
Purtroppo, abbiamo sottolineato, le strade sono, anche, servite, molto spesso, per fare le guerre, per fare giungere, più velocemente, sui luoghi degli scontri, i soldati e le attrezzature belliche.
Dobbiamo avere, però, l’onestà di riconoscere che favorire le attività belliche o, addirittura, promuoverle non è una prerogativa connaturata alle strade. E’ l’uomo, e solo l’uomo, che determina, con la sua volontà, di adibire le strade per una finalità anziché per un’altra; è l’uomo, e solo l’uomo, che decide di fare la guerra o di vivere in pace. E’ doloroso riconoscerlo, ma la storia dell’Umanità è una storia di guerre, una dopo l’altra, di ogni tipo, a partire dalla prima in assoluto, quella tra Caino e Abele: guerre di conquista, di vendetta, di repulsione, di riduzione in schiavitù, di difesa. Sempre guerre, una dopo l’altra, e tra una guerra e l’altra l’Umanità non ha goduto di periodi di vera pace costruttiva, ma solo di armistizi, finalizzati, il più delle volte, a riarmarsi, a perfezionare le armi, a renderle più potenti e, quindi, più letali, per avere la meglio sugli altri.
Fra le altre, i cui focolai sono accesi in tutto il mondo, ve ne è una in corso che è la più esacranda e disumana di cui si abbia conoscenza, perché volta a colpire, indiscriminatamente, soprattutto la popolazione inerme costituita da giovani, vecchi, donne, bambini. E, perché l’orrore sia ancora più efficace, le strade sono state adibite esclusivamente al passaggio dei carri armati: le altre, quelle della pace, i corridoi umanitari, sono stati sbarrati.
In definitiva, e tenendo nel debito conto le pochissime eccezioni, possiamo tutti definirci figli di Putin!
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