Le fiabe dei nostri nonni, non rappresentano solo avventure piacevoli ed affascinanti. Ci raccontano di tempi lontani e di persone delle quali si è persa la memoria storica, ci rimandano ad avventure e personaggi collocati in un tempo indeterminato, ma richiamano antichi valori e luoghi definiti. Esse raccontano gli antichi segreti e i patrimoni misteriosi della nostra cultura.
I racconti non hanno soltanto lo scopo di far addormentare, sognare o fantasticare i bambini, che li ascoltano con occhi sgranati, ma le loro origini e i loro significati sono molto più antichi di quanto si possa immaginare.
La fiaba, in generale, è un linguaggio espressivo utile a far crescere i bambini, a potenziarne la capacità di parlare dei propri vissuti interiori, nonché educare e rappresentare il mondo. Attraverso la narrazione affiorano emozioni intense, vissuti antichi molto coinvolgenti, consapevolezze nuove, riflessioni sul proprio modo di essere e sul proprio stile relazionale. Per gli adulti i racconti, tramandati di generazione in generazione, rappresentano un’identità sopita, ma non cancellata dal tempo; un tempo in cui i valori di riferimento si costruivano su un substrato e una cultura contadina, sulle vicende di famiglie costrette a vivere nella ristrettezza economica e con il miraggio di una vita migliore.
Il nostro territorio ha una ricchezza di racconti fervida e interessante.
Sulle ginocchia dei nostri nonni abbiamo fantasticato su protagonisti di tempi indefiniti, ma anche su vicende che raccontavano le appassionanti storie di luoghi che ancora ci appartengono, che potremmo chiamare i luoghi del cuore.
Come non ricordarsi della leggendaria storia della “Jocca e dei pulicini d’oro”? Si narra che sul Monte Reventino, durante la notte, passasse una chioccia dalle uova e dai pulcini d’oro; chi avesse avuto la fortuna di trovarne uno, sarebbe diventato ricco. Un racconto leggendario che ha fatto sognare adulti e bambini; infatti, osservando alcune luci muoversi alle pendici del monte, in particolari e serene notti, era possibile trovare conferma e fantasticare ulteriormente. In realtà, si trattava di viandanti che, dai paesi di Conflenti e zone limitrofe, attraversavano in gruppi le montagne perigliose e, armati di lanterne, si recavano a piedi a Lamezia Terme.
Sulle stesse pendici, ma in un altro racconto, si narra di “Schenemezzerichhe”, un bambino nato e cresciuto nei luoghi vicini alla principale sorgente d’acqua. La madre che si era servita di una brocca pesante per l’approvvigionamento d’acqua, si sentì male e, trovatasi da sola e in fin di vita, affidò il suo piccolo e gracile bambino ad una cerva. Il bimbo crebbe tra i boschi con le amorevoli cure della cerva, divenne un conoscitore di ogni angolo del Reventino, muovendosi tra i boschi con disinvoltura e grande senso dell’orientamento. Il padre, ritenuto disperso in guerra, ritornò dopo molti anni e volle visitare il luogo del ritrovamento della moglie deceduta. In questa zona, incontrò gli occhi del figlio e vi riconobbe la stessa luce della madre. Lo riportò alla civiltà e lo amò profondamente dal primo istante. In questa narrazione non è difficile riconoscere i tratti culturali dei nostri antenati e del loro tempo. Il tema principale è quello del ritorno dopo una guerra, ma anche quello relativo alla minaccia per le donne rimaste da sole a crescere la progenie. Nel racconto si preserva la possibilità di ritornare e riappropriarsi degli affetti più cari, affetti riconoscibili anche grazie ad semplice sguardo. Si rimanda alla cultura del ritorno nella propria terra d’origine, mai realmente abbandonata. Volendo azzardare una similitudine, si anticipa il concetto dell’emigrante che parte e che non ha mai realmente abbandonato la sua terra.
Tra i racconti dei nostri nonni, come dimenticare la leggendaria storia della “Grotta delle Fate”? I nostri antenati, costretti ad avvicinarsi ad una grotta cara alle fate, si riunivano in gruppi e costeggiavano un tratto particolarmente pericoloso per evitare di calpestare un suolo così caro alle fate, da difenderlo con qualunque contromisura. La credenza era così diffusa che, i pastori del tempo, usavano addormentarsi dandosi i turni, vegliando sui boschi e analizzando i rumori che si udivano e che provenivano dalle grotte. In realtà, la leggenda era funzionale alla necessità dei briganti di custodire e preservare i loro bottini. Infatti, una volta che si erano impossessati di una particolare malloppo, risalivano i boschi conosciuti ed impervi, evitavano di cadere nelle mani della “forza insecutrice”, sfuggivano al rigore delle leggi e si insediavano in un luogo protetto dove nessuno, intimorito dalla leggendaria presenza di fate malvagie, osava entrare.
Sono sempre i briganti, ad offrire lo spunto per un altro interessante racconto. Un giovane pastore, costretto dalla fame a recarsi al pascolo nella zona del Reventino, si trova ad osservare ingenuamente, l’occultamento di un bottino in una grotta. Il giovane pastorello, scopre la parola magica per far spostare l’enorme pietra posta all’ingresso della grotta e, con uno stratagemma, allontana la guardia, collocata all’esterno del nascondiglio, e si impossessa di una cospicua fetta di denari. La fiaba, corredata di significati antropologicamente interessanti, rimanda alla tradizione araba. Come dimenticare Alì Babà e i quaranta ladroni? Una serie di similitudini, ci ricordano che noi siamo figli di quei popoli che ci hanno conquistati, che il ricordo delle genti che hanno occupato i nostri territori permane nei racconti, adattati ai nostri luoghi ma rigenerati di tratti culturali tipici del nostro territorio. Il sacco utilizzato per il trasporto di denari, diventa “u quartu”, un antico strumento di misurazione dei nostri avi. Alì babà diviene un pastore che pascola tra i boschi del Reventino e i quaranta ladroni diventano briganti e raccontano un pezzo della nostra storia.
Le narrazioni, tripudio di leggenda e cultura, si mescolano alle antiche tradizioni, ai tratti tipici del nostro territorio. La leggenda si attribuisce una certa credibilità confondendosi con la storia; la fiaba regala all’ascoltatore un’arcaica, autentica ed esperta chiave di lettura che riconosce nell’intreccio di saperi, i valori antichi. Il gusto narrativo autentico, consolida tratti tipici e tramanda valori antichi, rigenerati dal tempo, ma mai abbandonati.
Ci riconosciamo nel piccolo “Schenemezzericche” ogni volta che qualcuno ci abbandona, ricordandoci che madre Natura sa provvedere ai suoi figli; ci trinceriamo dietro atteggiamenti di chi difende il proprio territorio da minacce esterne, così come il soldato disperso in guerra e le Fate del Reventino; anche noi ci illudiamo e fantastichiamo, in un tempo di crisi economica globale, di incontrare la chioccia o trovare un bottino nascosto, cambiando la nostra vita; siamo un po’ fate che difendono i propri luoghi, ma anche viandanti che eludono il pericolo trovando strade alternative, ma altrettanto perigliose.
Noi siamo tutti protagonisti della nostra vicenda personale, ma anche protagonisti di una cultura in evoluzione, ma pregna di un antico sapere. Siamo figli del nostro tempo, ma custodi di un mondo e di una cultura antica.