Grazie alla infaticabile ed encomiabile opera di don Roberto Tomaino, parroco di Soveria Mannelli, presto prenderanno avvio i lavori di restauro della Chiesa di San Giovanni Battista. Un restauro tanto atteso quanto necessario, indispensabile, potremmo dire, sia per risolvere alcuni problemi strutturali dell’edificio sia per restituirlo alla sua originaria decorazione rocaille che alcuni lavori temerari quanto “garibaldini” (è proprio il caso di dirlo visto che siamo a Soveria) avevano finito per brutalizzare e occultare.
L’edificio che riavremo sarà un edificio luminoso, pieno di luce e di tinte delicate, che non mancherà di stupire… anche perché oramai il nostro occhio si era abituato a quei colori cupi verdi e marroni che nulla hanno a che fare con la concezione originaria del tempio.
Ho pensato di condurre i lettori de «ilReventino» attraverso una sorta di visita guidata della nostra chiesa per far conoscere a tutti alcuni tesori che ospita con particolare riguardo agli affreschi. Non c’è tutela né valorizzazione senza conoscenza e, spesso, le cose che conosciamo di meno sono proprio quelle che abbiamo tutti i giorni sotto gli occhi.
L’altare
L’opera certamente più nota che la nostra chiesa ospita è senza dubbio il monumentale altare in marmi mischi proveniente dalla diruta abbazia di Corazzo cui fa da pendant l’acquasantiera che si trova murata nel primo pilastro di destra.
L’altare è stato erroneamente attribuito a Cosimo Fanzago da Alfonso Frangipane. In realtà, pur maestoso ed elegante, è molto distante dalle ardite costruzioni dello scultore bergamasco che effettivamente operò in Calabria al servizio dell’ordine certosino per la costruzione della spettacolare “macchina liturgica” che ornava la chiesa cinquecentesca del cenobio serrese e che oggi è ospitata nella Chiesa dell’Addolorata.
Di chi è dunque l’altare di Soveria? Dobbiamo allo storico dell’arte Mario Panarello il rinvenimento dell’atto notarile con il quale i monaci di Corazzo commissionarono l’opera a un noto marmoraro napoletano, Pasquale Sebastiano, la cui attribuzione – comunque certa per via del riscontro documentale – è rafforzata dal confronto con le altre sue opere, primo fra tutti l’altare della Chiesa di San Domenico di Cosenza che è esattamente identico a quello soveritano, sebbene più grande. Oltre a questo altare, pubblico di seguito l’immagine dell’altare della chiesa di Santa Margherita a Salerno, sempre di Sebastiano, per far apprezzare, anche qui, la notevole la rassomiglianza con l’altare di Soveria.
Le statue lignee
Abbiamo già scritto in passato su «ilReventino» delle statue lignee. Qui ci limiteremo unicamente a ricordare che la chiesa ospita due manufatti di grande valore: il simulacro dell’Immacolata e quello di San Giovanni Battista, entrambi restituiti da Gianfrancesco Solferino a Giuseppe Picano, celebre scultore napoletano formatosi all’interno della cerchia di Giuseppe Sammartino. Le due statue sono state oggetto di un recente e accurato restauro che ha consentito il loro ripristino allo splendore originario che anni di incuria e di interventi di ridipintura e ingessatura “selvaggi” avevano finito per occultare.
Giorgio Pinna, gli affreschi e gli stucchi
Il restauro che sta per avere luogo interesserà, come annunciato da don Roberto – grazie ad alcune economie realizzate – anche gli affreschi di cui non abbiamo mai avuto occasione di parlare. È dunque tempo di rimediare a questa mancanza.
Innanzitutto bisogna dire che la Chiesa di Soveria è nota proprio per la sua volta interamente affrescata che la rende quasi, si parva licet componere magnis, una piccola Cappella Sistina del Reventino la cui superficie, proprio come nel caso del maggiore termine di paragone, è stata nel tempo annerita dal fumo delle candele e dal prodotto (ahimé! duole dirlo, ma corrisponde a verità) della combustione delle stufe da giardino che sono state usate per anni per riscaldare l’ambiente.
Gran parte della decorazione pittorica è stata realizzata da Giorgio Pinna, come attestato dalla lapide realizzata a trompe l’oeil che si trova sulla parete sinistra dell’ingresso.
Pinna è stato un artista raffinato, pienamente inserito in quella che fu la temperie del liberty italiano. Come suggerisce il cognome le origini delle famiglia erano sarde. Pinna nacque tuttavia in Calabria, a Catanzaro. Si trasferì a Nicastro subito dopo la Grande Guerra. A lui si deve, tra l’altro, lo stemma di Nicastro e i grandi affreschi che decorano la sala consiliare della città della piana.
Non fu un autodidatta. Studiò a Roma sotto la guida di uno dei più celebri pittori del Novecento, Giovanni Capranesi. Fu molto prolifico. Sue le decorazioni di alcuni celebri palazzi romani come Palazzo Torlonia o Palazzo Pignatelli.
A Soveria, Pinna giunge su incarico della diocesi di Nicastro (con cui collaborava con una certa assiduità) che aveva raccolto l’invito del parroco dell’epoca, don Vincenzo Sirianni, sotto il cui parrocato la Chiesa di San Giovanni viene interessata da un cospicuo intervento di restauro (“Quod refectione iam diu indigebat”, “Poiché era bisognosa da tempo di ricostruzione”, recita la lapide già menzionata) e di abbellimento.
Non si devono, come pure qualcuno ha sostenuto, a questo periodo gli stucchi che sono invece settecenteschi. Giova qui a tal proposito annotare come, siccome gli stucchi di Soveria sono assolutamente identici a quelli della chiesa dello Spirito Santo a Castagna di Carlopoli ed essendo le due chiese state decorate – come attestato da Mario Panarello – dagli stessi stuccatori cui furono commissionati gli stucchi della chiesa dell’abbazia di Corazzo, abbiamo ragione di credere che l’interno della chiesa di Soveria (complice anche la presenza dell’altare) sia molto simile a quello che dovette essere quello della chiesa dell’Abbazia come si presentava nel Settecento, prima del definitivo abbandono.
La chiesa di Soveria non era dunque una tabula rasa sulla quale Pinna potè dipingere a piacimento. Non solo gli stucchi, ma vi era già presente il grande affresco raffigurante la predica di San Giovanni Battista e, quasi sicuramente, la natività che occupa la parte centrale del presbiterio.
La predica del Battista e la Natività
Non abbiamo notizie sui possibili autori di questi due affreschi che parrebbero ascrivibili (specie la natività) all’ambito del pittore settecentesco nicastrese Francesco Colelli. Probabilmente l’operazione di pulitura e restauro delle due opere consentirà un’attribuzione più certa. La predica di San Giovanni Battista è datata 1812. È interessante notare come il Santo sia stato ritratto prendendo a modello il busto ligneo di cui scrivevamo prima. Il dito puntato verso l’alto, il busto nudo con la pelliccia di cammello alla cintola e il manto porpora che avvolge il corpo in diagonale. La scena si svolge in un ambiente bucolico e sereno. San Giovanni non è il santo possente, tonante e minaccioso dei dipinti di Mattia Preti sullo stesso tema. In alto, a sinistra in una posizione decentrata c’è la figura di Cristo che sembra assistere alla scena, isolato dalla folla e, in alto, la nube dalla quale, secondo San Matteo, provenne una voce divina che diceva “Questi è il mio figlio diletto, ascoltatelo”.
Molto classica nella composizione, la natività. Alla sacra famiglia fa da corona un gruppo di pastori che recano doni, mentre uno inginocchiato suona lo zufolo. La scena si svolge all’interno di una stalla. Sulla destra un’apertura lascia intravedere un paesaggio silvestre.
L’intervento di Pinna si situa armoniosamente tra queste due opere, andando a colmare lo spazio circostante. Non sappiamo, in realtà se vi fossero altre opere preesistenti, magari deteriorate.
Abbiamo ragione tuttavia di dubitare che il tempio, specie nell’area del catino absidale, fosse spoglio.
Chissà che il restauro non ci fornisca qualche informazione in più? Certo sarebbe folle togliere gli affreschi di Pinna per far riemergere qualche opera più antica e probabilmente di minor valore e, tuttavia qualche saggio, specie nelle zone non coperte dalla superficie pittorica, potrebbe restituire interessanti informazioni.
Una “visione” dell’Apocalisse
Pinna, dicevamo, interpreta lo spazio colmandolo con affreschi di grandi dimensioni ed elementi decorativi rispettando la suddivisione in quattro campate della volta. La predica di Giovanni viene “incorniciata” da quattro angeli con trombe. L’immagine è un chiaro riferimento ai primi quattro angeli dell’Apocalisse al suono delle cui trombe si abbattono sulla terra i flagelli che sconvolgono gli elementi.
La scelta non è certo casuale. La predica che Giovanni sta tenendo, stando a quanto narrato da Matteo, è proprio di genere apocalittico: «Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. Io vi battezzo nell’acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile» (Mt 3, 10-13). L’immagine degli angeli, fortemente scorciata a imitazione di quelli di Gianbattista Tiepolo conferiscono dinamismo e drammaticità all’intera volta. Il forte verticalismo delle figure sembra trascinare lo spettatore oltre il limite fisico del soffitto, verso l’infinito. Una sorta di ascensore per il Paradiso.
Il riferimento all’apocalisse è completato dalle immagini in monocromo del tetramorfo (“i quattro esseri viventi”) simbolo peraltro dei quattro evangelisti (il quarto, collocato sul lato destro della cantoria, è stato quasi completamente obliterato dalle infiltrazioni di umidità e dalla conseguente caduta di materiale pittorico).
Il martirio di Giovanni e lo sposalizio della Vergine
Il ciclo degli affreschi di grandi dimensioni continua sulla volta con il martirio di San Giovanni e con lo sposalizio della Vergine.
A proposito del primo è interessante osservare come vi siano, sia nell’abbigliamento che negli elementi architettonici raffigurati, chiari richiami all’oriente. La scena non si svolge più, come accadeva in passato, in un ambiente familiare, conosciuto, “domestico”. Vi sono molti richiami, a parer mio, all’Egitto o, per lo meno, a quello che in quegli anni veniva percepito come “egizio”. A tal riguardo è da considerare come l’egittologia, in particolar modo quella italiana, abbia ricevuto grande impulso proprio tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e primi del Novecento, influenzando grandemente l’immaginario collettivo.
Dalla parte opposta c’è, dicevamo, un affresco raffigurante lo sposalizio della Vergine. La
scena si svolge in un tempio pieno di fumo (chiara allusione alla presenza di Dio che nel Primo Testamento si manifesta spesso riempiendo il tempio della sua nube).
Il rito che si sta celebrando allude in realtà al rito cattolico. Non sappiamo ovviamente se per ignoranza delle usanze ebraiche o per inserire l’evento del matrimonio di Maria già all’interno del “nuovo patto” cristiano.
Gli sposi sono ritratti nell’atto di scambiarsi gli anelli (elemento rituale assente dal rito del matrimonio ebraico). Il sacerdote è vestito con paramenti tipici della liturgia cattolica: indossa un piviale sotto il quale ha una cotta e sembra stia per benedire con il segno di croce l’anello che Giuseppe sta per infilare al dito di Maria. Anche il copricapo, più che la mitria del sommo sacerdote, sembra alludere alla mitria vescovile. A sinistra, un bambino, un chierichetto, dovremmo dire, regge un libro (non un rotolo, ma un volume) con il rito. Si intravedono solo le tracce di un’altra figura in piedi quasi completamente cancellata.
Gli affreschi della cantoria
Sulla cantoria sono presenti due affreschi dipinti all’interno dello spazio che nel resto dell’edificio è occupato dalle finestre.
Le due opere raffigurano l’uno (molto deteriorato) il Re Davide, adagiato su un trono nell’atto di suonare la cetra, l’altro Santa Cecilia intenta a suonare l’organo, mentre due angeli sorreggono lo spartito. L’affresco, ad eccezione di una lacuna nella parte sinistra, è in buono stato di conservazione e sembra non essere stato interessato dai successivi interventi di ridipintura di cui diremo più avanti.
(A tal proposito mi si consenta una piccola divagazione. L’organo che accompagna come attributo iconografico le immagini della martire è con ogni probabilità frutto di un equivoco nato da un errore di copiatura di una Passio della santa. Il testo descrive Cecilia pronta ad affrontare il martirio “cantantibus organis”, ovvero mentre gli organi cantavano; in realtà il testo probabilmente recitava “candentibus organis”, ovvero tra gli strumenti di tortura incandescenti).
Il ciclo della vita della Vergine
Davvero bello e notevole dal punto di vista artistico è il ciclo con gli episodi della vita della Vergine Maria che decora l’abside: quattro tondi raffiguranti l’Annunciazione, la visita a Santa Elisabetta, la presentazione di Gesù al Tempio (o purificazione di Maria) e l’Assunzione.
Mi permetto qui di esprimere un mio personalissimo giudizio, sottolineando la straordinaria bellezza dell’Annunciazione, di gusto squisitamente liberty, che pare richiamare certi pittori preraffaelliti inglesi. Varrebbe da solo una visita alla chiesa.
Il ciclo contiene due interessanti dettagli. La presentazione al tempio vede tra la folla che assiste al rito lo stesso committente, don Vincenzo Sirianni (facilmente individuabile per via del colletto e degli occhiali) e una donna che, contrariamente alle altre figure, rivolge lo sguardo verso lo spettatore e il cui capo è avvolto dal vancale, il tipico scialle delle donne calabresi. Un semplice vezzo compositivo o il ritratto di una donna realmente esistente? E se fosse la mamma dello stesso don Sirianni?
Riecheggia della serenità compositiva di alcuni dipinti rinascimentali, l’Assunzione. La Madonna sembra quasi avvolta in una mandorla mentre viene sospinta in cielo da un volo di puttini, accolta nella gloria da un coro d’angeli. Il sepolcro è fiorito. Dalla morte è rifiorita la vita. Sulla base del sepolcro è dipinta la data “maggio 1922” che indica presumibilmente la conclusione dei lavori.
Il catino absidale
Il catino absidale ha al centro, in un fastigio, la figura molto deteriorata del Padreterno, con l’aureola triangolare mentre regge con la mano destra lo scettro e con la sinistra il globo terracqueo. Non sappiamo, e al momento, viste le condizioni dell’opera, è difficile dirlo, se l’affresco sia preesistente all’intervento di Pinna o se ne sia lui l’autore.
A destra e a sinistra due angeli sorreggono un turibolo, fuoriuscendo dalle cornici e aumentando così l’effetto di realismo amplificato dalle ombre dei chiaroscuri.
Gli elementi decorativi “minori”
Accanto ai grandi affreschi sono presenti una serie di elementi decorativi che potremmo definire “minori”. Tra questi segnaliamo i due cuori immacolati di Gesù e Maria, dipinti nelle vele delle finestre centrali, circondati da quattro puttini che reggono dei simboli.
È interessante notare come i simboli degli angioletti siano tutti mariani (anche la corona di spine all’interno del discorso iconografico complessivo può essere un simbolo mariano indicante la condivisione della passione del Figlio da parte della Madre).
In particolare: l’angioletto che si trova a destra dell’immagine del Cuore di Gesù, regge tra le mani lo specchio e l’ulivo, entrambi simboli tradizionalmente associati all’Immacolata, Specchio di giustizia e Olivo maestoso (dal libro del Siracide); quelli che circondano il cuore di Maria hanno la colomba, classico riferimento al Cantico dei Cantici e una ghirlanda di rose (Rosa mistica).
Trovo interessanti questi riferimenti all’Immacolata perché testimoniano, ancora una volta, il legame particolare di questa chiesa con la Vergine Immacolata cui, a parere di chi scrive, stante anche a quanto scritto sull’architrave del portale principale (“Hic est Immaculata…”) era un tempo dedicata.
I due dipinti su lastra di rame
In corrispondenza del transetto vi erano due dipinti su lastra di rame, l’uno di fronte all’altro. Il primo ancora in situ versa in cattive condizioni e raffigura la Madonna del Carmine. Si tratta di un’opera ricca di figure che dimostra una notevole abilità pittorica e compositiva; l’altro che si trova attualmente nella sacrestia del Santuario Nostra Signora di Fatima della cittadina raffigura San Carlo. Il dipinto è firmato “Giorgio Pinna” cui è certamente da attribuire anche il “gemello”. L’opera in realtà era già stata spostata molto tempo fa (ne ignoro la data) dalla sua cornice originaria per fare spazio a una nicchia che attualmente ospita una statua di piccole dimensioni di Cristo risorto ed era stata collocata in una posizione alquanto infelice all’interno della cappella di Sant’Antonio prima che venisse collocata nella sua posizione attuale.
Il fonte battesimale
L’ultimo affresco di cui parleremo è quello che orna il fonte battesimale raffigurante, non a caso, il Battista nell’atto di battezzare Gesù.
L’affresco, probabilmente un tempo deteriorato a causa di infiltrazioni di umidità ha subito un intervento piuttosto pesante di reintegro che ha finito per pregiudicarne l’aspetto originario: basti guardare alle figure centrali, all’ingenuità dei chiaroscuri e dei dettagli anatomici e metterli a confronto con altri elementi minori del dipinto come i paesaggi, le piante e gli animali per notare come vi sia un’enorme differenza stilistica e artistica. Può un pittore capace di tali delicati tocchi di colore nel raffigurare un pettirosso rendere così grossolanamente i dettagli anatomici e gli elementi chiaroscurali del Battista?
L’intervento di Felice Cerra
Questo interrogativo ci introduce direttamente nell’ultima parte del discorso che ci siamo prefissati di affrontare: il restauro delle superfici pittoriche avvenuto, secondo quanto attestato dalla lapide di cui parlavamo poc’anzi, nel 1953, sotto il parrocato di don Francesco Massara, per mano del pittore locale Felice Cerra.
Cerra, di cui chi scrive ha avuto modo di vedere diverse opere, pur dimostrando un certo talento e, senza dubbio, tanta buona volontà, era un pittore tutto sommato “ingenuo” la cui abilità non era di certo paragonabile a quella di un artista “laureato” come Pinna.
Il cantiere di restauro che ci si appresta ad aprire avrà senza dubbio il merito di separare il grano dal loglio.
di Antonio Cavallaro
Foto di Gianluca Abbruzzese