Quando qualcuno di passaggio per le strade di Soveria Mannelli, uno che un tempo veniva definito “forestiero”, uno di fuori insomma, si ferma a chiedere informazioni su dove poter mangiare e soprattutto dormire nei dintorni, mette inconsapevolmente in difficoltà chiunque dei residenti sia il destinatario della richiesta.
Tentando di fornire una risposta si potrebbe farfugliare: “Beh, ci sarebbe l’Hotel Sant’Andrea, ma sono anni che è in costruzione e che i lavori sono fermi: non è mai stato e forse non sarà mai finito; poi ci sarebbe l’Ostello della Gioventù che ha funzionato per un po’, ma ora è chiuso da tempo ed è anche stato oggetto di incuria e atti vandalici che lo hanno reso fatiscente e perfino inquietante; una volta c’era il Garibaldi – qui ci sono tante cose che ricordano l’eroe dei due mondi – ma ormai se ne ricorda solo il nome perché non esiste più da decenni”. Allora si punta sulla vicina Decollatura, che in effetti ha da offrire diverse soluzioni e tutte più che dignitose.
Ma un tempo non era così. E a dimostrarcelo sono ancora una volta le pagine del romanzo “Ed ora non rubo più” di Gosuè Arcuri (Gastaldi Editore, Milano, 1958) che rievocano un passato remoto decisamente diverso. Un passato in cui dormire e rifocillarsi a Soveria era la cosa più facile del mondo.
Leggiamo insieme questo brano in cui il protagonista Carmine Ventura e il suo amico Santo, che lo aveva condotto a Soveria Mannelli per fargli conoscere una possibile seconda moglie, visto che era rimasto vedovo, avendo fatto tardi, decidono di trattenersi in paese:
<< “Ormai – disse Santo – non è il caso di ritornare in Sila, tanto arriveremmo verso mezzanotte. Sarà bene dormire a Soveria per ripartire domani di buona ora”.
“A Soveria non c’è da preoccuparsi”, osservò Santo. Poi, volgendo lo sguardo verso sinistra e toccandomi con una mano sulla spalla, mi disse: “Vedi, questo è l’albergo del Bersagliere”. Quindi mi spinse a salire sul marciapiedi e, attraverso lo stesso, mi precedette per dare due colpi di dita ad una porta a vetri. Qualche istante dopo venne ad aprire un vecchio dallo sguardo severo, barba rasa e baffi corti; l’abito nero e le scarpe dello stesso colore imponevano un senso di maggiore autorità, ove mai la statura e la gagliardia non fossero state sufficienti.
“Zio Antonio, – domandò l’amico, – hai da dormire?”.
“Si”, rispose quello, facendo un cenno con la mano ad entrare senza perder tempo.
Una luce fioca mi diede la possibilità di rendermi conto del luogo in cui ci trovavamo: era una trattoria.
Chiusa la porta, il padrone ci avviò verso l’interno, poi domandò: “avete mangiato?”.
“No”, rispose Santo.
“Ebbene, ho da darvi una bella minestra di fagiolini e patate che dovevo mangiare io, ma che non posso mangiare perché mi sento indisposto. Se la volete, ancora è tiepida, non ve la faccio pagare”. Disse zio Antonio.
“L’accettiamo”. Continuò Santo e fece per sedersi presso un tavolo.
“No, no da quella parte. Non si sa mai – osservò il vecchio – può venire qualche altro e non avrei che cosa dargli”.
Entrammo così in uno stanzino e mangiammo con gusto il buon minestrone. Zio Antonio ci fece compagnia. >>
E si, a Soveria non c’è da preoccuparsi. Alberghi e trattorie non mancano. Ma siamo purtroppo negli anni quaranta del secolo scorso. Mentre ora non rimane che dirottare i pochi viaggiatori che passano di qui verso la più accogliente Decollatura.