Tutti sappiamo – perché lo abbiamo studiato a scuola – che l’Egitto è stato considerato per lungo tempo il granaio della città di Roma e dell’impero romano. Ma lo era assieme alle forniture provenienti da Sicilia, Sardegna e Campania, con cui sfamava una megalopoli molto popolosa come Roma antica (lo sarebbe anche per la nostra epoca con il suo milione e mezzo di abitanti stimati) e un territorio immenso, uno degli imperi più grandi di tutta la storia dell’umanità, che si estendeva su tre continenti: Europa, Africa e Asia.
Il mar Mediterraneo pullulava letteralmente di navi annonarie che trasportavano preziosi chicchi di grano stipati nelle anfore, i container dell’epoca. Ma ora il grano arriva in Italia soprattutto da Canada, Francia, Usa e Australia. Non dalla Russia e dall’Ucraina, il che toglie ogni alibi a chi attribuisce all’ennesima e insensata guerra tuttora in corso l’aumento del costo delle farine e dei prodotti derivati. I motivi sono altri e, come spesso accade in questi casi, quasi certamente speculativi.
Ma perché la Calabria non produce più grano o quasi? Perché si sono abbandonate delle varietà che hanno sfamato per secoli i nostri antenati? Forse perché, per usare una metafora in tema, non siamo stati capaci di separare i semi di frumento dalla pula con il nostro ventilabro, il semplice attrezzo agricolo che consente di effettuare manualmente questa operazione.
Non abbiamo saputo selezionare ciò che è buono da ciò che è cattivo, qualcosa che ha un valore da un semplice scarto. Come invece avrebbe fatto il Cristo preannunciato da Giovanni il Battista: «Io vi battezzo con l’acqua; ma viene uno che è più forte di me, al quale io non son degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali: costui vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Egli ha in mano il suo ventilabro per ripulire la sua aia e per raccogliere il grano nel suo granaio; ma brucerà la pula con fuoco inestinguibile» (Lc, 3,16-17).
«Questa immagine fatta qualche anno fa serve a ricordare a tutti che la crisi del grano è una grande invenzione ed è frutto delle “lungimiranti” politiche agricole e produttive di chi ha governato. Con le migliaia di ettari di terreni incolti che abbiamo in Calabria si potrebbe almeno sfamare tutto il Sud… e a buon mercato», scrive il fotografo Antonio Renda, con una giusta dose di ironia che sta tutta in quel “lungimiranti”, e ha ragione!
Un campo di grano bello e discretamente esteso, certo non sufficiente da solo ma segno di vita e nutrimento, potrebbe in questo momento non esistere più. Potrebbe essersi trasformato in un terreno arido, incolto. E quanto territorio calabrese è stato abbandonato all’incuria negli ultimi decenni? Condannato all’improduttività? Quasi tutto, perché restano solo delle produzioni di nicchia, di chi ci ha creduto e ha proseguito o ripreso un’attività che sembrava anacronistica.
L’agricoltura come nuova sfida per riprenderci il futuro? Può essere se sapremo riconoscere la pula e separarla dal prezioso chicco, un’operazione antica come il mondo e che è metafora di saggezza.
Raffaele Cardamone
Foto di Antonio Renda