di Franco Cimino –
L’ho saputo. C’era la neve. Era caduta abbondante. A Soveria Mannelli e sulla vasta area che la circonda. E ci sono andato partendo da Catanzaro. Con il treno. Quello delle Ferrovie della Calabria. La “calabrolucana” della nostra ormai lontana giovinezza. La linea, questa, del dolore perenne per la tragedia del 23 dicembre del 1961. La linea che scorre emblematicamente sulle contraddizioni della nostra terra. E sugli errori frammisti a ignoranza e immoralità, che hanno impedito la crescita della nostra regione. Sono tutti lì, su questo tracciato che a pezzi separati unisce il mare bello alla montagna bella. Il mare profondo e chiaro dello Ionio. La montagna larga, leggera, verde di bosco fitto, lucente del sole che la illumina e colora.
La montagna degli affacci mozzafiato sul mare. Anzi, due, con il Tirreno, che agli occhi si mostra dall’altro versante. La “strada ferrata” è vecchia e stretta. Un solo binario, che si inerpica sui monti. Come un vecchio scalatore. Che non vuol lasciare la sua passione. E gli scarponi chiodati. E le sua braccia rampicanti sulle rocce innevate. Tutto è vetusto. E il viaggio sembra precario al pari di quello sulle carrozze del vecchio West. Il treno è vecchio, con una sola locomotiva a motore diesel che lo fa correre. Le carrozze su cui andiamo sono più vecchie ancora. Rumorose. Assordanti. Il verso stridulo delle rotaie si somma all’interno vociare forte dei passeggeri.
Noi calabresi, che già parliamo ad alta voce anche al prete nel confessionale, conversiamo come se dovessimo urlare al dirimpettaio delle palazzine dei vecchi quartieri popolari. Dentro si muore di caldo, perché il riscaldamento se lo accendi va a mille. Se lo spegni per non soffocare, si gela. Qualche genio che non manca mai, supera la legge dell’originale contrasto, aprendo i finestrini di colpo (sono quelli preistorici, che si abbassano dall’alto in basso con una bella pressione) e facendo entrare vento della Siberia. Che pure scompiglia i capelli di qualche testa appena fresca di parrucchiere. Nonostante ciò il trenino va che è una meraviglia.
Scomodo e lento, ma dolcemente sale. Ciuf ciuf ciuf, e si diventa bambini che si inoltrano nel mistero. Il treno va. Dentro la montagna. Quasi che fosse lui a bucarla. Ed entri nel buio. Poi, come se si liberasse, entra nella luce. E così, a ritmo di una nostra canzone popolare, a intervalli di pochi minuti, il buio si fa luce e la luce di fa buio. Non è così l’alternarsi naturale del giorno? Non è così il cammino della vita?
Ma lo spettacolo diventa favoloso quando, dai finestrini dimentichi dello spazzolone, ti appare la fotografia della bellezza pura. Che ti si stampa sugli occhi: i piccoli monti bianchi fino a scendere di tale candore sulla via che ti porta più sù. A sinistra. A destra brevi pianure. E piccoli orti coltivati. E case sparse prima che alle spalle della stazione appena accennata di vita, compaiano quei paesini che sembrano presepi eterni.
Ricchi di storia locale, di silenziosi eroismi, di salde tradizioni, di religiosità profonda, di credenza nei valori più antichi del vivere “umano”. Buio luce buio luce. Il cielo che sembra diverso da se stesso, con un chiarore che muta a prescindere dal suo annuvolamento bianco. Non fai in tempo a fare foto, non trovi i minuti per completare il sogno, fotocamera e naso attaccai al finestrino, che devi scendere. Ma come siamo già a Soveria Mannelli? Sì, il trenino è arrivato a destinazione.
Mezz’ora dopo, tra i boschi che incominciano la Sila con i suoi variabili livelli e diversificate forme montuose, c’è Cosenza e tutto ciò che di importante essa rappresenta. Ma, allora, Catanzaro e Cosenza, non sono così distanti? Le due eterne rivali si toccano? Possibile?
Sì. Pensate, non li separa il campanile. Ma la stessa bellezza che su un filo di rotaia le unisce. Lungo un sinuoso cammino che accosta il mare alle montagne. Se questo è, Catanzaro rinasce da una sua natura dimenticata. Quella di essere non cittadina sui tre colli sospesa, senza null’altro avere che la rovina di essere stata abbarbicata su costoni e dirupi. Ma Città del mare e dei monti. E che mare e che monti! I suoi, sono quelli della Piccola Sila. E ora anche quelli del Reventino.
In questa grande città, che più luoghi raccoglie, c’è tutta la ricchezza del mondo. Arte, cultura, chiese e religiosità; gastronomia e prodotti tipici e unici della sua terra, comunità e identità specifiche. Natura stupenda, con i suoi boschi e il suo diversificato clima, paesaggi meravigliosi. Il tutto legato in un tempo massimo di sessanta minuti , adesso che ancora questa ferrovia e più vecchia di se stessa, fondata proprio nei pressi di Soveria poco dopo la metà dell’Ottocento.
Che meraviglia! Si può fare turismo tutto l’anno. Interno, con noi che ci muoveremo quotidianamente. Ed esterno, con i turisti che in estate, la nostra lunghissima estate, possono la mattina bagnarsi nel nostro mare e cuocersi al fuoco del nostro sole, e la sera riposare al fresco che ristora dal centro storico fin su.
Da Pontepiccolo a Taverna. E da San Leonardo su su fino a Soveria Mannelli. Ma l’hai scoperto ora? No, io lo sapevo già. Spero che ora l’abbiano scoperto in molti. Specialmente, quanti nelle loro responsabilità, presente e passata, portano quella di aver trascurato di ammodernare e potenziare la Ferrovia della Calabria. Che, con una buona visione della realtà e dell’utopia, potrebbe ritornare a essere la ferrovia della Calabria e della Lucania. La ferrovia che unisce dapprima la nostra terra e poi una parte di questo Sud da sempre abbandonato.
Con piacere pubblichiamo l’articolo del prof. Franco Cimino, già uscito sul giornale Il Quotidiano con cui da anni collabora. Lo riproponiamo nell’intento di portare altri lettori alla scoperta di questo territorio, a cui tra l’altro l’autore è legato da affetti personali, che appartiene alla parte centrale della Calabria.