Era il 28 giugno 2012 quando l’ONU deliberò una risoluzione – le cronache dicono in base ad una proposta di un giovanissimo consigliere Jayme Illien, che fu uno dei tanti giovani salvati da Madre Teresa per le vie di Calcutta – attraverso cui veniva istituita la ‘giornata della felicità’ ogni vigilia di primavera, invitando: ‘A celebrare la ricorrenza in modo appropriato anche attraverso attività educative e crescita della consapevolezza pubblica’ (risoluzione A/RES66/281). Come dire che almeno un giorno all’anno dovremmo ricordare a noi stessi, tra le mille cose che facciamo, di cercare anche la felicità.
Ma la storia della felicità non nasce da qualche decreto scritto è più antica quanto è antico l’uomo ed è più profonda di quanto può fare qualsiasi pagina scritta. Tutti cercano di esseri felici e forse per questo esistono intere biblioteche sull’argomento, in ogni parte del globo terrestre.
In questa parte del mondo occidentale, poi, fu il mondo greco e poi quello romano a riflettere sul tema, e successivamente – cosa che spesso si dimentica – fu il messaggio cristiano a ridargli nuova linfa.
Ad esempio Aristotele, fu il primo grande scrittore e filosofo a parlare in termini soggettivi dell’idea di felicità. Nella sua Etica, che fu davvero un bestseller nell’antichità e in parte lo è ancora oggi – ne parlò in termini soggettivi, poiché in termini oggettivi l’idea di felicità in qualche modo era già presente ai molti. L’unica grande nostra nostra responsabilità, diceva, è in fondo quella di diventare soggettivamente felici, a prescindere dalle circostanze della vita. Anzi lui osava affermare che bisogna decidere di diventare felici.
Ma, appunto, cos’è la felicità? Come si distingue ad esempio dal benessere? Come nasce in noi e come si custodisce la felicità?
Il mondo antico aveva cominciato a pensare che la felicità è insita in ogni desiderio umano come un fine, che una volta raggiunto non rimanda più a nessun’altra cosa. La felicità è un terreno roccioso su cui costruire casa ed d’esistenza umana. Per intenderci: voler partecipare ad una finale di Champion League, prepararsi a scalare la vetta dell’Everest o intraprendere il Cammino verso Santiago di Compostela, acquistare un biglietto per un concerto di Bobby McFerrin o prenotare un posto in teatro per una performance della London Philharmonic Orchestra, sono sempre cose che si fanno in vista di qualcos’altro, per essere visibili, per affermare un nostro modo di essere, ma in definitiva perché crediamo che facendo così saremo felici. Tutta la nostra vita è in fondo una ricerca di felicità e non solo di un benessere. Meglio ancora se questa felicità non passa, ma duri nel tempo.
Ma se ci facciamo caso, ciò che ci restituisce la felicità più duratura, riguarda più l’essere che il nostro operare; più ciò che realizza noi stessi piuttosto che dare vita a qualcosa di nuovo, che inevitabilmente invecchia al sopraggiungere del nuovo. La nascita di un figlio, il conseguimento di un traguardo accademico, la firma di un contratto lavorativo a tempo indeterminato, aver scritto un libro di grande successo e così via. In tutti questi casi la felicità sembra essere più duratura. Ecco dunque: ciò che ci tocca in profondità, nell’animo, sembra darci felicità più stabile e duratura.
Ma c’è dell’altro. C’è qualcosa di più profondo.
C’è qualcosa in noi che assomiglia alla presenza di un desiderio arcano che invoca completezza, compimento. Qualcosa che affiora e scompare, a seconda della esperienze di vita, una specie di nostalgia di sottofondo, simile a quella presente in coloro che cercano, senza mai raggiungere, un amore autentico o un amicizia pienamente corrispondente alle proprie attese. In quei momenti si rimani come sospesi a metà strada, in attesa come alla fermata dell’autobus. La felicità arriva quando il divario è colmato.
Ecco allora nascere alcuni tentativi, a volte maldestri, di ricerca della felicità. E ciò non deve stupirci poiché il marketing dei facilitatori di felicità – o forse di desideri di felicità – oggi è immenso.
Alcuni parlano di felicità come uno stato emotivo interiore (contrario alla depressione) che produrrebbe un atteggiamento ottimistico nella vita. Così la felicità potrebbe trovarsi anche in un individuo nullafacente, che sta seduto tutto il giorno a guardare tv o navigare su internet. Fare il bene o il male sarebbe indifferente. Nel mondo orientale, ad esempio, questo ‘stato emotivo interiore’ aveva trovato spazio attraverso semplici tecniche come la meditazione, di esercizio fisico o interiore e così via. Qualche scienziato pensò più concretamente che per essere felici ci sarebbe bastato produrre alti livelli di serotonina, magari usando un buon farmaco antidepressivo. In molti paesi europei la prescrizione e l’uso di farmaci antidepressivi non necessariamente presuppongono vere malattie. Si consigliano per superare momenti down.
Ma una felicità indotta quale prospettive ha di essere autentica? Possiamo definire una vita felice quella che viene da un farmaco? Infine le azioni hanno riflessi nella nostra interiorità oppure no?
Ecco allora farsi avanti altri interpreti dell’idea di felicità. Come quelli che la pensano come frutto di quel tempo impiegato a provare piacere e divertimento. La regola è lineare: tanto piacere tanta felicità. Ma la domanda che sorge è: ‘quanto durerà in noi la capacità di produrre piacere, se il piacere più è praticato e più diminuisce i suoi effetti in noi?’ E soprattutto: ‘questa via escluderebbe ogni tipo di sofferenze collaterali? O per dirla tutta: cosa distinguerebbe sul piano quantitativo il piacere umano da quello di una scimmia o di un maiale? Anche loro vivono di questo tipo di piacere e dunque anche loro sarebbero felici anodo loro.
Qualcuno perciò cominciò a pensare che esistono piaceri superiori (arte, comportamenti virtuosi) da piaceri inferiori (cibo, sesso, ecc. ecc.) ma questa è un altra storia.
E così nacque un terzo approccio all’idea di felicità soggettiva come qualcosa che si connette in modo attivo alle proprie ambizioni, ai proprie qualità personali, ai propri comportamenti e relazioni con il mondo. Qui il mondo antico ci ha regalato una vera perla di saggezza e forse aveva visto giusto: la felicità ci nasce dentro quando lavorando su noi stessi, suo nostro carattere, sulla nostra interiorità impareremo a ricercare sempre, beni veri, autentici, evitando i mali. La felicità è una via pratica! Insomma se parlassimo sempre con amabilità e correttezza con le persone che incontriamo alla fine noi stessi diventeremo naturalmente amabili e corretti. Praticando ciò che è bene, santo, bello, buono, diventeremo noi stessi tutte quelle cose. Così cambia l’esistenza e con essa nasce la felicità. Noi diventiamo ciò che pratichiamo. L’agire ci costruisce come persone. Allo stesso modo chi si è abituato a fare il male prima o poi diventerà lui stesso male. Così pensavano gli antichi.
Insomma, per loro la felicità era connessa ad un’attività dell’anima conforme alla virtù (parola che non si usa più), intendendo per virtù, una disposizione d’animo che cerca e fa il bene nella sua forma più eccellente e secondo la misura della capacità personali, senza mai oltrepassarle. Allora sentiremmo in noi sentimento di compiutezza, un completamento di ciò che ci manca. Ci sentiremo di nuovo in cammino.
Di questa felicità, oggi, ne abbiamo bisogno più dell’aria che respiriamo. Abbiamo bisogno di questa disposizione d’animo che permetterebbe alla politica, alle professioni, ad ogni relazione affettiva, di presentarsi con delicatezza, mitezza e verità in ogni suo gesto e parola. Forse quella specie di rabbia personale, di invidia e gelosia, che si sperimenta ovunque sempre più in tanti luoghi, potrà disinnescarsi. Chi cerca la propria felicità salva il mondo, quella felicità però che esige lavoro, decisione, dedizione.
Domenico Concolino
Docente di Etica UMG Catanzaro