L’Italia è il Paese che ha fornito alle migrazioni intercontinentali uno dei più grandi contingenti: oltre 25 milioni di partenze durante i 150 anni di vita unitaria.
Un fenomeno che continua giorno dopo giorno e che non conosce confini. Un fenomeno “globale”, sul quale i governi e le istituzioni internazionali mostrano limiti e inadempienze, continuando ad affrontare le migrazioni riferendosi alle persone non come a esseri umani ma come a problemi da evitare. E facendo finta di sapere che le migrazioni si possono arrestare.
Basta leggere i dati statistici per rendersi conto che è vero il contrario. L’ultimo rapporto Onu sulle migrazioni internazionali – pubblicato il 18 dicembre 2017 – evidenzia che nel mondo ci sono 258 milioni di migranti che hanno lasciato i loro Paesi di nascita e ora vivono in altre nazioni. Nel 2000 erano 173 milioni, e nel 2010 erano 220 milioni.
Fenomeno costantemente in crescita, dunque, con il quale bisogna fare i conti. Sia per gli aspetti negativi: l’Asia – con 106 milioni di partenze su 258 – è il primo continente nel quale la gente lascia il proprio Paese, mentre al secondo posto si colloca l’Europa con 61 milioni di partenze. Sia per gli aspetti positivi: il rapporto dice che «i migranti hanno contribuito alla crescita della popolazione in Nord America e Oceania e senza migranti la popolazione europea dal 2000 al 2015 sarebbe diminuita».
Per effetto di questi flussi, oggi gli oriundi italiani nel mondo (considerati fino alla IV generazione) sono in tutto 58 milioni e 200 mila. E si trovano principalmente in Sud-America (39 milioni e 800 mila); e poi in Nord-America (16 milioni), Europa (1 milione e 900 mila) e Oceania (500 mila). Fonte: Ministero degli Esteri, Roma 1988.
E ovunque hanno lasciato il segno. In ogni campo: economico, politico, sociale e anche culturale. A quest’ultimo aspetto ha dedicato parte dei suoi studi Pantaleone Sergi, giornalista e scrittore che conta al suo attivo diverse pubblicazioni sulla stampa etnica, che ebbe il suo massimo splendore all’apice della presenza italiana nei singoli paesi di emigrazione.
«Erano emigrati che avevano diverse caratteristiche», scrive Sergi, al quale dobbiamo le informazioni e le citazioni su questa Stampa Migrante. «Già nella terza decade dell’Ottocento – i primi – c’erano intanto quelli fuggiti per motivi politici, tra cui molti intellettuali. Redattori di giornali che in Patria erano considerati “sovversivi” e per tale motivo erano ben noti alla polizia che li controllava e li minacciava, in seguito, infittirono queste schiere politicizzate di esuli […] E c’erano, infine, masse di proletari in gran parte in fuga dalle regioni povere del Sud e del Nord-Est…».
Nel 1804, a Malta, inizia a svolgere attività giornalistica il profugo italiano Vittorio Barzoni, fondatore del periodico «L’Argo» e del giornale «Il Cartaginese», di tendenze antinapoleoniche; mentre un altro profugo – Tommaso Zauli Sajani – costretto alla fuga dopo i moti del 1831 nello Stato Pontificio, fonda nel 1838 il settimanale «Il Mediterraneo», definito «uno dei periodici simbolo della presenza italiana a Malta».
Nel 1824 Pietro Gamba, legato ai circoli carbonari della Romagna, fonda in Grecia il «Telegrafo Greco», con testi in italiano, francese, inglese e greco, molto seguito da un nutrito gruppo di patrioti, artisti, scrittori e poeti, esuli da diverse parti d’Europa. L’esule mazziniano Giovan Battista Cuneo fonda nel 1836 a Rio de Janeiro «La Giovine Italia», poi a Montevideo nel 1841 il settimanale «L’Italiano» e nel 1856 edita a Buenos Aires il mensile «La Legione Agricola»; mentre Pietro de Angelis, già precettore dei figli di Murat re di Napoli, fonda e dirige numerose testate in lingua spagnola.
Nel 1845 nasce il primo giornale italiano in Egitto, «Lo spettatore egiziano», un bisettimanale che «assolveva le funzioni di gazzetta ufficiale dei consolati sabaudo e spagnolo». Nel 1854 Alessandro Galleano Rivara fonda in Brasile «L’iride italiana» e nel 1859 il milanese Teodoro Silva fonda in Uruguay «La Speranza», «il primo quotidiano italiano in Sud America destinato agli immigrati». Lo stesso anno vede la luce in Tunisia il «Corriere di Tunisi», il quale «aprì un’era che segnò la presenza di numerosi altri periodici in lingua italiana, per lo più politici ed economici».
E poi ancora, dopo l’unificazione e la proclamazione del Regno d’Italia, «La Nazione Italiana», giornale mazziniano e anticlericale nato nel 1868, diventa in Argentina «punto di riferimento dell’intellettualità italiana»; Basilio Cittadini fonda nel 1876 a Buenos Aires «La Patria», diventata poi «La Patria degli italiani»; nel 1880 nasce negli Usa «Il Progresso Italo-Americano», che Sergi definisce «il giornale più diffuso e ascoltato dell’intera comunità italiana di cui fu autorevole portavoce e sostenitore»; nel 1885 vede la luce «L’Italia», primo quotidiano della comunità di emigrati in Brasile, e poi nel 1893 il «Fanfulla», laico e progressista, «vero portavoce degli italiani in Brasile»; nel 1894 è pubblicato a Montréal il settimanale «L’Italo-Canadese», primo periodico in lingua italiana.
Alcune testate durano poco (mesi, oppure qualche anno). Altre, invece, sono pubblicate per un lungo periodo. Come «Il Progresso Italo-Americano», per esempio, che nel 1880 inizia a New York le pubblicazioni in lingua italiana, all’inizio del Novecento diventa il quotidiano italiano più popolare della metropoli americana, e nel 1988 cessa le pubblicazioni.
Su questi giornali, e principalmente nella pagine de «Il Progresso Italo-Americano», troviamo notizie e riferimenti su Domenico Adamo, figlio di un muratore e di una casalinga, nato in Calabria nel 1888, in una realtà povera com’era la San Mango d’Aquino di fine Ottocento.
Adamo – forte, tenace e sognatore – impara a fare il sarto, corre a Napoli per specializzarsi nel mestiere, torna in Calabria, non trova lavoro sufficiente per crearsi un avvenire, si trasferisce nel comune di Cleto, si sposa, a Savuto nasce la prima figlia, parte per l’America, e lì, a Brooklyn, New York, costruisce la sua famiglia e la sua vita. Egli è l’esempio di come sono vissuti tanti altri figli della nostra terra, emigrati calabresi (e italiani delle altre regioni) sparsi per le vie del mondo, costretti ad abbandonare i luoghi di origine alla ricerca di un avvenire migliore per sé e per i propri figli.
Dopo il suo primo viaggio di ritorno in Italia, Domenico Adamo aveva ripreso a scrivere, ispirato forse dai canti di Michele Pane ed incoraggiato da giornali locali come “La verità”, “Scrittori Calabresi”, “La follia di New York” e lo stesso “Il Progresso Italo-Americano”. Era così entrato nel mondo vasto e affascinante degli artisti italiani all’estero, e aveva fatto la conoscenza di poeti, scrittori, musicisti, i quali erano soliti riunirsi e dar vita ai loro famosi incontri conviviali al Leone Restaurant, nella quarantottesima strada di New York City.
Uno di questi giornali, “La follia di New York”, era stato fondato da Alessandro Sisca (padre calabrese e madre napoletana), nato nel 1875 ed emigrato in America nel 1892, autore della canzone “Core ‘ngrato”, scritta in dialetto napoletano con lo pseudonimo di Riccardo Cordiferro. È a lui, a Riccardo Cordiferro che tante volte aveva inserito le sue poesie nell’angolo dei poeti ritagliato sul giornale, invitandolo a continuare a cantare sempre «come l’usignolo che canta nell’ombra per rallegrare la sua solitudine», è a lui – dicevo – che Domenico Adamo dedicherà, in memoria, la lirica “Qual fulgente stella”, definendo il Sisca «guida che ci ammaestra e ci affratella verso la meta dell’umanità».
Queste testimonianze e questi ricordi noi li dobbiamo oggi alla stampa italiana all’estero. La quale, oltre a rappresentare una significativa manifestazione di identità, fu anche veicolo di cultura, strumento di unione e di relazione tra pittori, poeti e narratori che – come nel caso di Domenico Adamo – si raccoglievano nel chiuso della sua bottega di sarto, lungo i viali di Brooklyn, oppure si ritrovavano in casa di amici o nei ristoranti per le cene conviviali. Con la mente rivolta alla terra di origine. Ormai lontana, e per molti emigrati non più raggiungibile, se non attraverso le pagine dei giornali fondati dagli italiani all’estero.
di Armando Orlando