di Paolo Arcuri –
È strano osservare le case vuote con gli occhi del ritorno, come se il tempo ne avesse accelerato l’usura. Stanno ancora qui come vecchie croci senza nomi, piegate alla terra nei cimiteri degli antichi ricordi. Inesorabile è il destino per queste case, del loro corpo rimane il vuoto spartano delle stanze, le tracce polverose di chi le aveva vissute.
Come freddi fantasmi di pietra saranno condannate all’oblio della morsa del tempo. Arriveranno gli anni in cui i nostri paesi cederanno il passo a quello che sembra ormai inevitabile: lo spopolamento e l’abbandono.
Verranno i tempi in cui le mura di queste vecchie costruzioni disabitate crolleranno sotto il peso dei tetti, cadranno le vecchie e usurate travi di legno, non più forti di muratura di testa, non più temprate di squadratura d’ascia.
Dall’inevitabile consumo del tarlo cederanno al polveroso marciume i letti di legno dei coppi, gli stipiti e gli architravi, si schioderanno i cardini arrugginiti dei vecchi portoni, si sgretolerà l’amalgama umida di argilla e calce che manteneva le centenarie pietre. Così si dichiareranno battute per sempre le vecchie case. Già, il tempo non ha fretta! Stagione dopo stagione, anno dopo anno, la goccia d’acqua arriverà a bucare la pietra.
Il tempo consuma, erode, accorcia lentamente anche le montagne. Cosa resterà dei nostri vecchi paesi, se non cumuli di sedimentate macerie, di polveri inerti. Il tempo è crudele quando non viene gestito. Il tempo sgretola i ricordi, coprendo nei sudari gli audaci propositi antichi. Il tempo inganna persino l’indifferenza degli animi, come il fuoco incustodito che brucia i pagliai e le torri d’avorio.
Coloro i quali resteranno in questi posti vivranno il loro tempo silente, come ciechi barcollanti, come smemorati senza passato; senza tracce di cosa fu l’edificante sapienza delle nostre origini.
Quando il degrado avrà finito di stendere il suo velo e avrà compiuto il suo corso, con il dissiparsi degli olezzi di vita, resterà di noi solo la sepolcrale sconfitta del nostro futuro. Tuttavia la vita scorre ancora in questo piccolo paese, lontana, specialmente d’inverno, dal frastuono della modernità dei centri più grandi.
Piove e, seppur di pomeriggio, riprendo a piedi la via verso casa. Marzo è l’inverno che stanca a morire; è lungo da passare, è come la coda del maiale, dicevano gli antichi (si lascia in ultimo perché difficile da raschiarne il pelo). E così mi avvio sull’asfalto lucente di pioggia, con l’odore nelle narici di polvere spenta.
Vado spedito sulla direttrice della strada che segna tra le case la cresta del paese. È un buon modo per raccogliere i pensieri, camminare. Essere soli nel cammino è come ritrovarsi, impadronirsi di uno spazio temporale che solo esso può dare.
Un compromesso tra occhi, gambe e naso, portandomi dietro il carico di pensieri frantumati nella mia memoria, solo e senza ombrello nel tedio grigio di un’altro giorno che velocemente andrà a morire.
E così mi ritrovo a ripercorrere le forme disordinate delle vecchie case, cercando il nesso che allacci il mio presente col mio passato.
Sembra strano, ma la greve pioggia che cade riflette nei suoi rivoli una luce alterata; una pesta malinconia per quei posti destinati all’abbandono, come se in queste viuzze sentissi di nuovo un senso d’inquietudine per essermi allontanato dalla sicurezza della mia casa.
Mi sembra di sentire nelle gambe gli stessi incerti passi che muovevo strisciando contro le grigie mura, con il timore di essere osservato, in quel tempo ormai lontano di quando ancora ero bambino.