Nei giorni scorsi una notizia ha fatto il giro dei giornali e del web. L’autorevole quotidiano americano «The New York Times» avrebbe rivolto delle lodi sperticate alla nostra regione e in particolare alla sua Presidente, Jole Santelli, per la gestione dell’emergenza coronavirus.
La notizia giungeva provvidenzialmente dopo il tristemente noto servizio di «Report» durante il quale Domenico Pallaria, capo, poi dimissionario, della Protezione Civile regionale, scelto dalla stessa Presidente come responsabile della struttura speciale chiamata a coordinare le attività per il contenimento del Covid19, aveva candidamente dichiarato di non sapere cosa fosse un ventilatore per la respirazione assistita.
Stando a quanto riportato da alcuni media nostrani il quotidiano americano avrebbe detto che: «La Calabria viene vista come un “modello” nella gestione della crisi sanitaria causata dal Coronavirus anche negli Stati Uniti» (strettoweb.com)
«Dal più famoso quotidiano del mondo, “The New York Times”, la Calabria viene vista come modello nella gestione della crisi sanitaria causata dall’emergenza Covid-19» (la Riviera)
Due esempi di questa nuova narrazione della Calabria che ha fatto il giro dei social e grazie alla quale i calabresi non si sono più sentiti gli ultimi della classe (come al solito) ma addirittura additati come modello a livello internazionale.
Qualcuno, insospettito da tanto clamore, ha persino malignato pensando che il giornalista del NYT fosse stato assoldato da Berlusconi per tessere le lodi della Santelli che, com’è noto, appartiene a Forza Italia.
Confesso subito che la cosa mi era apparsa sin da subito strana. La Calabria è una terra bellissima, ricca di cultura e di paesaggi meravigliosi, ma se c’è un qualcosa nel quale non può certo definirsi un modello da seguire nel mondo, quella è la gestione della sanità di cui, sia detto per inciso, la Presidente Santelli non ha al momento importanti responsabilità avendo ereditato dal passato una situazione disastrosa. Ho voluto fare allora quello che non era difficile fare: sono andato sul sito del «New York Times», ho cercato l’articolo e l’ho letto da cima a fondo. Beh, la realtà è un po’ diversa da come qualcuno l’ha forse ingenuamente raccontata sui social e sul web.
Abbiamo tradotto in italiano l’articolo a beneficio dei lettori de «ilReventino». Un piccolo ma utile esercizio di fact-checking.
Di seguito il testo integrale tradotto dall’inglese:
«The New York Times», 21 aprile 2020, di Jason Horowitz.
<< Per il Sud Italia, il coronavirus diventa una guerra su due fronti
Mentre affronta le devastazioni del virus, il Sud, la parte meno sviluppata d’Italia, deve fare i conti con quella che dal punto di vista economico è una carneficina mai vista dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, con i poveri costretti a chiedere la carità
ROMA – Il coronavirus è stato già un disastro per Meorina Mazza. A marzo ha colpito il fratello, ucciso suo cugino e spinto le autorità a metterla in quarantena nella cittadina costiera di San Lucido.
Il lockdown le ha impedito di proseguire nel suo lavoro in nero di aiuto-cuoca e l’ha costretta a fare la richiesta per un sussidio. Ora deve contare su qualcuno che le doni la farina per dare da mangiare alle figlie, ma non ha comunque di che pagare le bollette.
“Stiamo andando alla disperazione”, mi dice la Signora Mazza, madre cinquantatreenne di due figlie.
In Italia, dapprima, l’epidemia di coronavirus, tra le più letali in tutto il mondo, con oltre 24 mila morti, è scoppiata nel benestante Nord, dove ha messo a dura prova uno dei più sofisticati sistemi sanitari. Ma è stato nel più povero e meno sviluppato Sud che ha destato maggiori preoccupazioni tanto da spingere, lo scorso mese, il governo a porre tutta l’Italia in lock-down.
Ora che il governo intende riaprire gradualmente il paese, a partire dal 4 maggio, alcuni leader del Sud continuano ad avere così paura che il virus possa devastare le loro regioni da farli dichiarare che intendono proibire l’accesso ai settentrionali qualora questi volessero accelerare lo sblocco.
I meridionali stanno già combattendo una battaglia su due fronti: da un lato la furia del virus; dall’altro una crescente carneficina sul piano economico mai vista sin dal periodo immediatamente seguente alla seconda guerra mondiale.
La diffusione del virus in Calabria “sarebbe stata una catastrofe” dice la Presidente Jole Santelli che ha fatto la scelta drastica di sigillare l’intera regione a marzo, aiutando a prevenire lo scoppio disastroso dell’epidemia. Ma il danno economico, dice, “sarà enorme”.
Gli effetti di tale bilancio sono evidenti, anche se il Sud ha in genere evitato il peggio per quel che concerne la pandemia.
I poveri, abituati a fare qualche lavoretto ricorrendo all’economia informale, sono costretti a ricorrere sempre di più alla carità. Preoccupano le notizie diffuse di disordini sociali che hanno in qualche modo disturbato la narrazione italiana del sacrificio patriottico. Le autorità sono preoccupate che la criminalità organizzata sfrutti la crisi per proporsi come dispensatrice di prestiti e, in alcuni casi, di cibo.
Il coronavirus ha mostrato ovunque, nel mondo, la debolezza di governi, sistemi e società. In Italia, non ha impiegato molto a mettere a nudo il problema meno chiaro e più duraturo del paese: la diseguaglianza economica e sociale tra Nord e Sud.
L’unificazione dell’Italia, a metà del XIX secolo è stata letta da molti studiosi come la conquista di un Sud feudale da parte del regno di Savoia durante quella che è stata sostanzialmente una guerra civile.
Nei successivi 150 anni, le guardie armate dei proprietari dei terreni rimasti senza governo, hanno ottenuto usurpandola una crescente influenza, trasformandosi nei potenti boss del crimine organizzato che hanno aiutato politici compiacenti a sviluppare un sistema di scambio di voti per ottenere favori. Tutta questa corruzione e violenza ha fatto sì che il Sud rimanesse povero.
L’assistenza sanitaria, in particolare, rimane un’area in cui il Sud è rimasto molto indietro a causa di un mix costituito da potentati politici, malagestione e dall’influenza della criminalità organizzata.
Anche prima dell’esplosione del virus, alcuni degli ospedali dell’area erano talmente in debito da dover essere sottoposti a commissariamento con gli abitanti costretti a viaggiare verso il Nord per le cure mediche.
“Il sistema sanitario del Sud non regge il confronto con quello del Nord” dice Giovanni Rezza, direttore del dipartimento di malattie infettive dell’istituto Superiore di Sanità.
La signora Santelli, il cui ufficio somiglia a quello di un governatore americano, ha detto di aver chiuso la Calabria per paura che i lavoratori infetti di ritorno dal Nord avrebbero compromesso il funzionamento un sistema ospedaliero di per sé “piuttosto debole”.
Nell’ospedale calabrese di Cetraro, l’arrivo di un solo paziente affetto da Coronavirus ha costretto l’intero pronto soccorso a chiudere e a essere completamente sanificato perché i direttori della struttura non avevano previsto un percorso distinto per evitare la contaminazione.
“Se l’onda del Nord fosse arrivata qui”, dice Pino Merlo, 60 anni, medico a Cetraro, “non saremmo stati in grado di fronteggiarla”.
Almeno per ora, il Sud sta resistendo al virus. Qui ci sono stati circa 1500 morti contro i 20 mila del Nord.
Ma benché il Sud sia riuscito a tenere il virus alla larga, la minaccia è ora di tipo economico.
A San Lucido, il fratello della signora Mazza ha trascorso più di un mese in ospedale mentre lei doveva usare la farina per preparare dei dolci per la colazione che le sue figlie potessero mangiare durante la settimana.
Sergio Malito, che lavora al comune, ci dice che il terrore del contagio si sta trasformando nel timore che i negozi non riaprano, che la pesca non riparta, i turisti non arrivino. “Siamo rovinati”, dice.
È un sentimento diffuso. Un video che raffigura alcune persone disperate che urlano fuori da una banca nella città di Bari, sull’altra costa, è diventato virale.
Le paure per la pandemia sono aggravate dai problemi economici che qui erano fortemente presenti ben prima che il virus arrivasse. La disoccupazione nel Sud arriva intorno al 18%, più del triplo di quella del Nord, mentre la percentuale di disoccupazione giovanile è del 50%, secondo Eurostat.
Secondo l’Istituto Nazionale di Statistica in Italia ci sono più di tre milioni e mezzo di persone che lavorano in nero, circa il 12% del PIL. Gran parte è al Sud, un’area di circa 20 milioni di persone che comprende le sei regioni e le due isole meridionali a sud di Roma.
Ma anche per coloro che hanno un lavoro stabile, le difficoltà possono aumentare in modo esponenziale, proprio come il contagio, una volta che le vite alle quali erano abituati sono state spazzate via dal virus.
A Napoli, Arianna Esposito, ha trascorso diversi giorni cercando di far ricoverare sua madre, ma gli operatori sanitari le hanno ripetuto che la madre non era abbastanza malata da essere sottoposta ai test.
Quando le condizioni della madre sono peggiorate, i centralinisti del 118 le hanno detto che non sembrava avere sufficienti problemi respiratori. Alla fine quando le labbra sono diventate viola è arrivata un’ambulanza ma la signora è morta durante il viaggio verso il pronto soccorso. Suo padre è morto nel reparto di terapia intensiva qualche giorno dopo.
Hanno lasciato un negozio chiuso che vendeva detergenti e prodotti per la pulizia.
“Ora possiamo usare per mangiare quello che è rimasto in casa, ma non abbiamo tanto”, dice Arianna, 27 anni, i cui genitori le avevano lasciato una casa e provvedevano all’unica entrata di cui godevano lei e il figlio di un anno. “Ora abbiamo ancor più paura perché sappiamo che non ci aiuterà nessuno”.
Il padre del bambino lavorava in nero in un altro negozio, anch’esso chiuso.
L’uso diffuso di lavoratori in nero costituiva per la regione una vivace “economia di strada”, dice Luca Bianchi, direttore di un’associazione per lo sviluppo industriale del sud Italia. Ma ciò ha significato che non appena è arrivato il lockdown, quei lavoratori sono stati i più duramente colpiti perché non hanno avuto accesso alle misure di sostegno varate dal governo.
Il presidente della Regione Campania, Vincenzo Del Luca, ha affermato di aver predisposto un pacchetto di misure di sollievo per i lavoratori di circa un miliardo di euro, 1,09 miliardi di dollari.
“Nessuno morirà di fame”, ha detto. “Questo lo posso assolutamente garantire”.
Ma ha anche sostenuto di aver spinto il governo a individuare uno strumento per affrontare il “grande problema” del motivare i lavoratori in nero a uscire dalla penombra e a chiedere aiuto. Altrimenti, ha detto, “non potranno mai dichiarare di essere fuori legge, o dichiarare che la ditta per la quale lavoravano non rispettava la legge”.
De Luca è preoccupato del fatto che la criminalità locale, la Camorra, potrebbe cercare di sfruttare la crisi, pertanto una delle ragioni per le quali la regione ha predisposto un così ambizioso pacchetto di misure di sostegno del reddito è proprio quello di “chiudere le porte alla criminalità organizzata”.
A Napoli, i media italiani hanno già fatto vedere che la camorra sta usando il pretesto del food-delivery per poter rimanere in strada a vendere droga o quello dei poveri per chiedere ai negozianti denaro.
Michele Emiliano, il presidente della Regione Puglia, ex procuratore, ha raccontato ai giornalisti che i boss molto probabilmente si stanno incontrando in teleconferenza, proprio come avviene tra uomini d’affari.
Emiliano ha respinto le voci di una ribellione del Sud bollandole come “assurdità”. Ma ha detto che pensa che l’Italia stia facendo un “errore strategico” non puntando alla riapertura del Sud prima che del Nord. Se i piccoli focolai nel Sud sono spenti, ha suggerito, si potrebbe creare spazio negli ospedali per gli ammalati del Nord e in più consentire la riallocazione di comparti produttivi settentrionali.
Altri leader meridionali considerano fantasiosa l’ipotesi di attrarre le imprese del Nord, e sostengono che le regioni devono piuttosto concentrarsi sul tenere fuori il virus e dare da mangiare alla gente.
“Questi sono i nuovi poveri del coronavirus”, dice Cateno De Luca, sindaco della città siciliana di Messina.
De Luca è diventato noto in Italia per aver cercato di impedire personalmente l’arrivo sull’isola dei continentali. Ha insultato i ministri che criticavano le sue azioni e ha sostenuto che data la situazione del sistema sanitario siciliano – i medici, ha detto, sono costretti a fare la guerra con in mano gli stuzzicadenti – anche un piccolo incremento nei contagi sarebbe fatale.
Così, ha sostenuto, iniziare a pianificare una ripresa economica sarebbe un fallimento.
“Non partiamo da zero” ha detto. “Partiamo da sotto zero”. >>
di Antonio Cavallaro