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Home » L’epitaffio della tomba della sirena Ligea presso Terina, oggi territorio di Nocera Terinese

L’epitaffio della tomba della sirena Ligea presso Terina, oggi territorio di Nocera Terinese

Michele Manfredi-Gigliotti di Michele Manfredi-Gigliotti
21 Maggio 2022
in LUOGHI
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L’epitaffio della tomba della sirena Ligea presso Terina, oggi territorio di Nocera Terinese

Scultura e foto di Riccardo Dalisi (Ligea - Lamezia Terme)

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Frà Girolamo Marafioti (Polistena, 1567-1626 [la data della morte è incerta], autore de Croniche et antichità di Calabria, in Padova ad istanza de gl’Uniti MDCI) scrive che fino al suo tempo vedevasi in un vecchio muro di poco alzato da terra all’uscita del fiume Lavato, altre volte indicato col nome di Ocinaro, sotto la città, nei tempi antichi Terina, in questi presenti Nocera della Pietra della Nave di Arata (oggigiorno, Nocera Terinese, nella circoscrizione amministrativa della Città Metropolitana di Catanzaro), precisando ch’egli suppone essere il sepolcro di Ligia Sirena, la seguente iscrizione:

LIGEIA  QANEI  Z. D. R.

Il Marafioti traduce le prime due parole dell’epitaffio dalla originaria lingua greca antica in quella latina nel modo seguente: “LIGIA MORITUR” (LIGEA MUORE), lasciando, egli aggiunge, a più acuto ingegno la interpretazione e il senso delle tre lettere Z. D. P. che corrispondono alle lettere dell’alfabeto latino, e anche di quello italiano, Z. D. R.-

Anche il cappuccino Giovanni Fiore (Cropani 1622-1683, autore de Della Calabria Illustrata, Opera Varia Istorica, in Napoli, MDCXCI) riporta le medesima notizia, tale e quale quella tràdita dal Marafioti, sia per quanto attiene alla effettiva esistenza del sepolcro con l’epitaffio riportato (che, dal modo come ne scrive, deve sicuramente averlo visto di persona come il suo confratello)  allocato nella zona topografica indicata dal Marafioti, sia per quanto attiene al senso assolutamente enigmatico e, quindi, incomprensibile dell’iscrizione che, sino ad oggi, non ha avuto una soluzione.

E’, dunque, un tempo astronomico quello nel quale il problema proposto è rimasto insoluto. Infatti, occorre tenere presente che, non solo nel 1600 i due autori sopra citati non sono stati in grado di proporre una soluzione plausibile dell’enigmatica iscrizione, quanto nessuno degli studiosi che li hanno preceduti, ai quali, pure, vengono effettuati numerosi riferimenti con puntuale annotazione della loro copiosa bibliografia, era riuscito a dare un senso compiuto, al di là del loro riconoscimento alfabetico, a quelle tre lettere. L’enigma è rimasto tale anche per gli studiosi ed esperti della materia che si sono succeduti dal 1600 sino ai nostri giorni.

Per quanto ci riguarda, soprattutto nel tentativo di trovare, finalmente, una soluzione plausibile, avevamo anche contattato cattedratici di chiarissima fama, veri luminari della storia, dell’archeologia e della linguistica, ma senza risultati utili, anzi abbiamo avvertito, di fronte ad evidenti incapacità e impotenza risolutorie, una specie di evidenti fastidio e disappunto.

Poiché, però, siamo convinti che per ogni problema debba ricercarsi una soluzione (meglio ancora se fosse la soluzione) e che quanto più esso appaia arduo, tanto più sia  meritevole di essere risolto, ci siamo dedicati anima e corpo, a volte tralasciando o posponendo anche impegni professionali, alla risoluzione di tale nodo gordiano. Sono mallevatore di noi stessi nel dichiarare che l’intento non è stato quello di tentare di essere annoverati tra i più acuti ingegni, cui allude Marafioti, ma, se possibile, di pervenire ad un approdo di tranquilla certezza, per consegnare alla storia un’altra verità per quanto piccola essa possa essere. Riportando un pensiero di Fernand Braudel, ricordiamo che la Grande Storia è costituita dall’insieme di tante piccole verità.

Le lettere della lingua greca, che hanno generato l’enigma plurisecolare del quale ci stiamo occupando, sono Z. D. R. (scritte in caratteri minuscoli, diventano: z. d. r.), di cui la prima é una zeta, la seconda un delta (corrispondente alla quarta lettera dell’alfabeto italiano) e la terza una rw-erre.

Il lavoro condotto è stato indirizzato, prima di tutto, al riferimento delle nozioni, per lo più di natura mitologica, relative al personaggio al quale si riferisce l’epitaffio della sua tomba, ossia la sirena Ligea, detta la Melodiosa, figlia di Melpomene e del fiume Acheloo, la quale, secondo il più diffuso racconto letterario-mitologico (ex plurimis: Pietro Carrera- Messina 1573-1647) abitava, assieme alle sue due consorelle, Partenope e Leucosia, la riviera di Catania. Spostatasi dallo Ionio nel mare Tirreno e trovandosi a transitare dinanzi la terra dei Bruzi, Ligea morì annegata, per volontà di Demetra che, così, ha inteso punirla per non avere ella preso le difese di sua figlia Proserpina, quando venne rapita da Ade.

Secondo il racconto di Λυκόφρων, Licofrone (Calcide 330 a.C.– circa IV secolo a.C.) nella Cassandra, vv. 726-731), già ai tempi in cui visse, era dato acquisito in letteratura quello secondo cui Ligea venne seppellita dalle genti marinare poco discosto dal fiume Savuto (un tempo  Wcinarws), proprio nella bocca ove era il porto di Terina ove di presente vi si vede il sepolcro con l’iscrizione, come afferma Marafioti.

Il riferimento di base da noi effettuato al racconto mitologico che, ai tempi di riferimento, non poteva essere sconosciuto all’ignoto autore dell’epigrafe, in una con l’evidente conoscenza della lingua di Omero, ci ha aiutato alquanto nella decrittazione dell’acronimo, nel modo come viene di seguito argomentato sub 1, 2, 3.

1) Dopo avere preso in esame la prima lettera, che a latere viene riportata sia nella forma maiuscola (Z), che in quella minuscola (z), entrambe = zhta-zeta e, scartata ogni improvvisata soluzione, siamo giunti alla conclusione che essa rappresenta la lettera iniziale (acronima) del termine greco zwsa (zosa), participio passato con desinenza femminile del verbo zaw = vivere e, quindi, riferita a Ligea, “vissuta”;

2) Segue la seconda lettera, anch’essa riportata di seguito nella forma maiuscola (D) e minuscola (d), entrambe = delta-delta, quarta lettera dell’alfabeto greco, corrispondente alla nostra “D”—“d”; essa rappresenta la lettera iniziale del termine greco dwdecamhnos = di dodici mesi, id est “di un anno-annuale”;

3) Terminiamo con l’esame della terza e ultima lettera dell’epitaffio, che riportiamo nella forma maiuscola (R) e in quella minuscola (r), entrambe = rw-erre), diciassettesima lettera dell’alfabeto greco la quale, scritta nel modo seguente r’, assume, nella lingua greca, il coefficiente simbolico-numerale di 100, per cui r’=cento.

In conclusione, moltiplicando per cento i dodici mesi della lettera greca, si consegue il risultato finale di cento anni, di modo che l’epitaffio debba essere completato nel modo seguente:

LIGEIA  QANEI  Z(wsa)  D(wdecamhnos)  R’(w)

LIGEIA  QANEI  ZWSA  DWDEKAMHNOS  RW

MUORE  LIGEA VISSUTA  CENTO  ANNI

Adesso sembra l’uovo di Colombo, ma non dimentichiamo che questo epitaffio ha avuto una esistenza plurisecolare durante la quale le tre lettere alfabetiche che lo compongono sono risultate un enigma per tutti.

Solo per completezza finale, si evidenzia come il risultato ermeneutico ottenuto sia perfettamente coincidente con il racconto mitologico tràdito, riguardante la figura della sirena Ligea.

Intanto, ribadiamo che non v’è motivo alcuno per avanzare dubbi sulle affermazioni dei due eruditi religiosi, Marafioti e Fiore, quando essi affermano di avere avuto cognizione diretta, de visu, del sepolcro e della iscrizione funeraria, e ciò sia per la descrizione che fanno del piccolo monumento funerario e della sua ubicazione (assolutamente coincidente con quella indicata da Licofrone nella Cassandra), sia per il preciso riporto dell’epitaffio nella originale lingua greca e con l’esatta e particolare espressione grafica delle lettere, sia, infine, ma non per ultimo, perché non avrebbero avuto, entrambi, alcun motivo (come uomini, come religiosi, come scrittori di cose patrie calabresi) giustificabile per dovere inventarsi un racconto del genere, sul quale avremmo dovuto, oggi. chiederci: cui prodest?

L’annotazione che precede richiama alla nostra memoria due altre osservazioni personalmente effettuate dal Marafioti (testo cit.), dalle quali è fin troppo agevole ricavare la circostanza secondo cui Marafioti visitò i luoghi dei suoi riferimenti e questo perché tali annotazioni sono di una puntualità millimetrica. Quelle che seguono sono, appunto, le due descrizioni topografiche scritte da questo autore.

La prima:

“Passato Castiglione incontra uno scoglio in mare chiamato Pietra  della Nave…nelle scritture dé cosmografi è chiamato Scoglio Terineo, per lo dritto del quale nella parte di sovra in mezzo una larga pianura appaiono le antiche mura di una città distrutta, chiamata Terina”.

La seconda:

“Nocera Terra edificata sulle vette di deliziosa collina…; Paese assai buono della Calabria Citeriore discosto due miglia in circa dal mare ed un miglio piccolo dalla antichissima e celebrata Terina, dalle cui rovine risorse, circa il novecento”

Allo stesso tempo, riteniamo che vada parimenti scartato un altro, possibile dubbio che quivis de populo potrebbe avanzare circa l’autenticità e originalità, sia della tomba, che della iscrizione funebre.

Come già preannunciato, tale ipotizzata evenienza merita di essere fugata  proprio a motivo della particolarità della iscrizione che è stata un rompicapo per secoli e secoli per noi tutti. L’uso di quei termini, dei quali viene scritto soltanto il loro incipit letterale, acronimizzati, fa pensare, più ed oltre che ad una padronanza assoluta della lingua greca, ad una consuetudine di tipo demotico, talmente diffusa, da consentire l’uso erga omnes di quel modo di esprimersi, divenuto certamente convenzionale, con la certezza che, proprio per questo, fosse intellegibile a tutti.

Se, poi, qualcheduno avesse voglia di andare a cercare il classico pelo nell’uovo e venisse a rammentarci che, essendo Ligea un mito, non abbia senso sostenere l’esistenza di una tomba nella quale si dica che in essa sia tumulato il suo corpo, noi risponderemmo che ab immemorabili, oltre alle tombe, sono esistiti, ed esistono ancora, anche i cenotafi.

Michele Manfredi-Gigliotti

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Michele Manfredi-Gigliotti

Michele Manfredi-Gigliotti

Nato a Nocera Terinese 1941) poeta e scrittore, di professione avvocato, vive a Sant’Agata Militello (Messina). Trasferitosi dopo le scuole dell’obbligo dalla Calabria in Sicilia, dove ha conseguito la maturità classica e, quindi la laurea in Giurisprudenza, frequentando, anche, il corso di scienze politiche sostenendone tutti gli esami, tranne l’inglese per una sua libera scelta, non potendo sopportare che la nostra lingua, l’italiano, stia, ogni giorno di più, contraendo con la lingua inglese, pesanti mutui linguistici sui quali un giorno pagheremo forti interessi. Ha svolto il praticantato presso lo studio legale del Grande Maestro di diritto Pietro Pisani, a Messina. Svolge, tuttora, la professione di avvocato (penalista-cassazionista). Ha precisato (nel romanzo Un caso insoluto) che «faccio lo scrittore per vivere e l’avvocato per sopravvivere, con il risultato che gli avvocati dicono che sono uno scrittore e gli scrittori che sono un avvocato». Per quanto riguarda la produzione letteraria ha pubblicato: Croce del Sud (saggio sulla poesia sociale, 1971); Pane Nero (romanzo, 1975); Ma il sole sorge ancora (poesia, 1976); Tini (romanzo storico, 1984); Terenewn (memorie storiche sull’antica città di Terina, 1984); Passi perduti (alla ricerca dell’antica viabilità dei Nebrodi, 1990); Temhsh (memorie storiche sull’antica città di Temesa, 1994); Gli animali non ridono (romanzo, 2001); Variae Historiae fragmenta (saggistica, 2003); Un caso insoluto (romanzo, 2005); Demenna nella letteratura arabo-sicula (saggio storico, 2006); Ipotesi su San Pietro di Deca (saggio archeologico, 2008); La mia Calabria (romanzo-saggio, 2010); Licofrone e il fiume Savuto (saggio-storico, 2010); Il principe e il contadino (romanzo, 2012); Altri passi perduti (saggio, 2015); Variae historiae fragmenta II (saggistica, 2020). Si è occupato frequentemente di letteratura nell’ambito della quale ha prodotto i romanzi Pane nero, sulle condizioni della Calabria ai primi del ’900 (testo adottato in varie scuole medie calabresi e siciliane); Tini (diminutivo demotico di Valentino) sulla guerra partigiana in Friuli-Venezia Giulia, terra di sua madre (adottato dalla scuola media Marconi di Sant’Agata Militello, i cui studenti (da Pane Nero, hanno ricavato una sceneggiatura teatrale); Un caso insoluto, di natura giudiziaria, segnalato al premio letterario Maria Messina; Gli animali non ridono, ambientato in Calabria di cui offre uno spaccato socio-economico e che contiene una visione nuova della Magna Grecia; La mia Calabria (il cui titolo parla da sé e che segue la traccia di ricordi individuata da Scipio Slataper con Il mio Carso, segnalato al premio letterario Rhegium Julii; Il principe e il contadino, ricostruzione sui generis del percorso dei Normanni nell’Italia meridionale e, in particolare, in Sicilia (segnalato al premio letterario Francesco Florio). Si è occupato anche di archeologia (Passi perduti e Altri passi perduti, ricostruendo la viabilità antica nella Sicilia settentrionale, attraverso la ricerca dei ponti di cui sono ancora visibili i ruderi. Ha fatto parte della squadra di archeologi che ha portato alla luce la necropoli etrusca di Tuscania (Viterbo), in località Le Scalette. Si è occupato di poesia sociale pubblicando uno studio ermeneutico-antologico (Croce del sud). Ha inoltre prodotto due volumi di storia, mitologia, religione, riguardanti, per lo più, il Meridione (Variae Historiae Fragmenta e, a seguire, Variae Historiae Fragmenta II). Nell’ambito letterario è generalmente riconosciuto come uno dei maggiori conoscitori della storia dei Templari.

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