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Home » L’attualità del pensiero di Aldo Moro: dall’alternanza ai governi di necessità? – II PARTE

L’attualità del pensiero di Aldo Moro: dall’alternanza ai governi di necessità? – II PARTE

Armando Orlando di Armando Orlando
27 Marzo 2018
in OPINIONI
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L’attualità del pensiero di Aldo Moro: dall’alternanza ai governi di necessità? – II PARTE
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SECONDA (e ultima) PARTE – Quale pensiero politico di Aldo Moro dobbiamo ricordare oggi? Accettare il disegno a tappe indicato dallo statista, che dopo la «non sfiducia» e il governo di responsabilità insieme auspicava la terza fase, quella delle «alternanze al governo», oppure mantenere in vita il cliché che s’ispira al compromesso storico e che fa di Moro un cattocomunista, esaltato a sinistra e detestato a destra?

Dopo l’annuncio flash dato da Cesare Palandri alle nove e venticinque di giovedì 16 marzo 1978 e la successiva diretta radiofonica da via Fani con la voce di Franco Bucarelli, i lavoratori romani si dettero appuntamento sulle piazze. C’ero anch’io, quel pomeriggio, in Piazza San Giovanni, e sono testimone di una grande partecipazione spontanea e dello sventolio di un mare di bandiere bianche con lo scudo crociato, che per la prima volta ho visto tanto numerose accanto alle bandiere rosse del Pci e del Psi e a quelle del Sindacato.

Nel corso degli anni molti studiosi, soffermandosi sulla vicenda, hanno mostrato di non credere ai collegamenti internazionali e hanno sottolineato il fatto che gli assassini di Moro abbiano sempre rivendicato con forza la matrice tutta italiana del crimine, respingendo con fermezza ogni sospetto di essere stati manovrati dall’esterno. Ma la vicenda è ancora aperta, e se i diversi organismi dello Stato forniranno collaborazione, gli studiosi e gli storici potranno accedere alla documentazione di prima mano e molto si potrà sapere sul caso Moro.

Potremo sapere, cioè, chi sono stati veramente i nemici dell’Italia, e potremo sapere se lo Stato, con la linea della fermezza, ha ottenuto veramente la vittoria finale.

Dopo il crollo del Muro

Intanto torniamo alla situazione politica italiana, e proviamo a seguire il filo della storia democratica del nostro Paese a partire dal 1989, l’anno del crollo del Muro di Berlino.

A maggio del 1989 nasce l’alleanza Craxi-Andreotti-Forlani. A luglio Andreotti vara il suo sesto governo (Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli). L’imprenditore milanese Silvio Berlusconi riesce a far approvare dal Pentapartito una legge secondo la quale è possibile possedere fino a tre reti nazionali, e per protesta cinque ministri della sinistra Dc si dimettono dal Governo.

Nel 1990 il Pci decide di cambiare nome e simbolo. A gennaio del 1991 si apre a Rimini il congresso di scioglimento e nasce il Pds con il simbolo della quercia. A marzo esordisce il movimento politico “La Rete” di Leoluca Orlando. A giugno si vota sul quesito della preferenza unica alla Camera avanzato dal movimento referendario guidato da Mario Segni. Craxi invita a non andare a votare e di andare al mare, dato che le previsioni del tempo preannunciano una domenica soleggiata e calda. La preferenza unica passa, invece, con il 95% di voti favorevoli. Il 1991 si chiude col congresso costitutivo di Rifondazione comunista.

Il 17 febbraio 1992 viene arrestato Mario Chiesa e inizia il ciclo di Tangentopoli. Nelle elezioni politiche di aprile forte calo della Dc (29,7%), flessione del Psi (13,6%), esordio del Pds con il 16,1%; la Lega è il primo partito nel Nord e La Rete in Sicilia sfiora il 10%. A luglio nasce il governo Amato (Dc, Psi, Psdi, Pli). A ottobre Martinazzoli diventa segretario della Dc. Nelle elezioni amministrative di dicembre in molti comuni del Nord il Psi è ridotto al 4%, la Dc esce dimezzata e la Lega avanza.

Nei primi mesi del 1993, ad un anno dall’avvio di Mani Pulite, un’intera classe politica è sotto inchiesta. Craxi si dimette da segretario del Psi. Mario Segni esce dalla Dc. Il sistema proporzionale viene spazzato via da un altro referendum e con l’82,3% dei voti gli italiani aprono la strada al sistema maggioritario uninominale.

Nel 1994, a gennaio, sulle ceneri della Dc nasce il Partito Popolare italiano. Silvio Berlusconi vince le elezioni politiche alla testa di un’alleanza tra Polo della Libertà al Nord (Forza Italia, Ccd e Lega) e Polo del Buon Governo al Sud (Forza Italia, Ccd e Msi). Sconfitti i Progressisti guidati da Achille Occhetto. Il Ppi ottiene l’11,1% e il Patto Segni il 4,7%. Martinazzoli, in quell’occasione, sceglie di non fare alleanze e il Partito popolare rimane al di fuori delle aggregazioni che si erano costituite sia a destra che a sinistra.

Fin qui i fatti per come si sono svolti in quegli anni. Non è nostro interesse analizzare in questa sede i motivi che hanno spinto l’odierno ex cavaliere a scendere in campo nel 1994. Ricordiamo però il pensiero che aveva espresso Gianfranco Fini (vedi L’Europeo 2005 n. 2) verso la fine del 1993: «Mi auguro che non fondi un partito e che continui a far bene il proprio mestiere… Il sistema maggioritario premia solo chi vince e il suo intervento rischierebbe di spezzettare ancora di più le forze politiche moderate».

Berlusconi, invece, ha fondato Forza Italia e ha vinto le elezioni del 1994. Sostituito da Dini dopo soli otto mesi, torna al governo dal 2001 al 2006, e poi dal 2008 al 2011. E oggi, dopo aver imposto molte sue visioni di società grazie alla potenza dei mezzi di comunicazione di massa, stenta a capire che il suo tempo è finito. S’illude di poter essere ancora protagonista della vita politica italiana, ma nel 2018 non gli è riuscito il miracolo del 1994. Allora c’era la coalizione dei Progressisti guidata da Achille Occhetto, e senza il suo intervento «la sinistra avrebbe vinto e sarebbe andata al governo da sola per la prima volta nella storia del paese», annota nel suo Osservatorio Politico Roberto D’Alimonte. Oggi, alla domanda di novità e di cambiamento ha risposto il M5s, mentre la maggioranza degli italiani continua a essere culturalmente e politicamente di destra.

Stallo elettorale di un Paese in ripresa

Nel frattempo, il Partito Democratico, dopo essersi allontanato dall’Ulivo, non ha trovato una sua strada. Non è mai partito. Non ha creduto nell’idea di partito nuovo indicata da Veltroni (col Pd al 33,2%), ed è diventato un progetto incompiuto. Ha vissuto con schizofrenia le cadute e la sostituzione di Prodi al governo; una parte ha gioito, una parte ha pianto, un’altra ha accettato l’evento con fatalismo e rassegnazione. E lo stesso copione si è ripetuto dopo la sconfitta nel Referendum Costituzionale del 4 dicembre 2016, con il brindisi in casa di un deputato Pd per festeggiare la vittoria del No. Ha perso il contatto con i suoi elettori. Sul piano locale, in molte zone dell’Italia è stato aggredito e conquistato da notabili, potentati e padroni del voto e del consenso. E tutti questi fattori hanno contribuito a determinare una situazione che oggi mette in seria discussione i progressi che il sistema politico italiano aveva conseguito in tema di bipolarismo.

Eppure con D’Alema presidente del Consiglio dei ministri, Bertinotti presidente della Camera e Napolitano presidente della Repubblica avevamo pensato che in Italia l’alternanza sarebbe stata possibile. Altri tempi, mi viene da dire. Già nel 2013, per la prima volta durante la Seconda Repubblica, le elezioni non hanno dato a nessuno una maggioranza assoluta e il governo – scrive D’Alimonte – «è stato il risultato di trattative post-elettorali che hanno visto la scomposizione delle coalizioni con cui i partiti si erano presentati davanti agli elettori e la formazione di coalizioni di governo diverse».

E oggi? I risultati del 4 marzo 2018 consegnano lo stallo elettorale di un Paese in ripresa, con un partito sconfitto – il Pd – che molti vedono come l’ago della bilancia, senza il quale né Centrodestra né M5s possono fare un governo; un partito stanco e deciso (almeno fino ad ora) a non assumersi responsabilità di governo. È il trionfo della paura e delle insicurezze: quelle territoriali al Nord e quelle economiche al Sud.

Con il rovesciamento di un sistema prevalentemente maggioritario a favore del voto prevalentemente proporzionale e con l’avvento di nuovi soggetti politici, tornano a crearsi le condizioni di partenza; quelle stesse condizioni che, 28 giorni prima del suo rapimento in Via Fani, portarono Moro a parlare di democrazia “zoppa” e a dire: «Non è affatto un bene che il mio partito sia il pilastro essenziale di sostegno della democrazia italiana».

Frase profetica. Le elezioni del 4 marzo non hanno prodotto un governo. Ancora oggi, a distanza di quarant’anni, non sarebbe certo un bene che un partito debba essere considerato, esso soltanto, pilastro essenziale del sostegno alla democrazia italiana. Le domande che ci poniamo, in questi giorni, è se c’è veramente questo pericolo, se è tornato il tempo dei governi di necessità, se si debba ricorrere ancora al meccanismo della «non sfiducia». Io non ho certezze in merito. Al momento, la vicenda italiana è in divenire. Ma non vedo, in mezzo al campo, giocatori all’altezza delle sfide che attendono il Paese. Basta guardarsi intorno. Basta vedere a chi il Parlamento ha consegnato la seconda carica della Repubblica.

Quali sfide? Prima fra tutte, la posizione in Europa: sovranità nazionale come priorità assoluta, oppure sovranità condivisa a livello comunitario per risolvere i problemi? Sfide che – per dirla con Sergio Fabbrini – costringeranno a decidere «se vogliamo un’Italia che innova, oppure un’Italia che assiste»; «se vogliamo mettere ordine nel nostro sistema pubblico oppure preservare il disordine che lo caratterizza». L’Italia ha un importante appuntamento con il suo futuro.

di Armando Orlando – FINE

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