Del libro di Giosuè Arcuri “Ed ora non rubo più” (Gastaldi Editore, Milano, 1958), abbiamo già parlato in un primo articolo intitolato “Mi chiamo Carmine Ventura… ed ora non rubo più: sfogliando il libro di Giosuè Arcuri per riecheggiare una Soveria Mannelli che non c’è più” e pubblicato il 3 ottobre 2015 (https://ilreventino.it/mi-chiamo-carmine-ventura-ed-ora-non-rubo-piu-sfogliando-il-libro-di-giosue-arcuri-per-riecheggiare-una-soveria-mannelli-che-non-ce-piu/).
Ma tra le pagine di questo prezioso volumetto si possono rintracciare talmente tanti luoghi e fatti relativi a Soveria Mannelli e dintorni, di cui vale certamente la pena parlare, da non poterlo subito accantonare. E questo ci fa pensare ancora a tante altre “puntate” sull’argomento, visto che quella odierna è soltanto la seconda.
Intorno alla metà del romanzo (e precisamente tra pag. 85 e 86), Carmine Ventura che ne è il protagonista, dopo tante vicissitudini che ne segnano la vita difficile, dall’infanzia fino al periodo della seconda guerra mondiale, con un passaggio anche nelle patrie galere a causa di alcuni furti compiuti soltanto per sfamare se stesso e soprattutto la sua famiglia, composta da una moglie ammalata e quattro figli piccoli, approda a Soveria Mannelli e la scopre con un certo meravigliato compiacimento.
Vi arriva, un bel giorno, presumibilmente intorno all’anno 1942, nel tentativo di convolare a seconde nozze (la sua prima moglie era già morta da tempo), condotto da un amico che vuole fargli conoscere una ragazza del luogo.
Il gioco di assonanze e contrasti con la Soveria attuale viene spontaneo nel rileggere queste parole che ci fanno pensare a un’altra epoca, a un altro modo di vivere, ma ci fanno anche domandare intimamente quale dei due sia il migliore…
<< Accettai ed il sabato seguente ci recammo a Soveria.
Era la prima volta che vi andavo e la mia impressione fu grande.
Bella Soveria Mannelli! Con quella strada larga e pulita che l’attraversava da un punto all’altro, con quelle case che si stendono lungo i due argini alle due entrate, mentre al centro s’allargano a gruppi salendo e scendendo i pendii come pecore fermate sui prati, distribuite senza rispettare un ordine geometrico, od architettonico, ma non per questo spiacevoli, anzi simpatiche per la spontaneità, come le cose naturali che non ubbidiscono all’arte ma che l’arte governano.
Maestosa s’erge la Colonna di Garibaldi a cavallo di un quadrivio in mezzo ad un’aiuola di fiori, sormontata da una palla di bronzo con sopra una stella per ricordare agli uomini l’eroe dell’umanità.
Salendo ancora s’arriva alla Piazza Colonnello Bonini, spaziosa e linda con il monumento per i Caduti della Grande Guerra, che raffigura un soldato restio a piegare il ginocchio, la testa scoperta, in una mano l’elmetto, nell’altra il fucile, triste lo sguardo, quasi implori da Dio novella vita per ridarla alla patria ancora in dono.
A destra e a sinistra grandi negozi addobbati con cura e, sovra gli stessi, balconi e verande ricchi di gerani e di begonie in fiore.
La gente cammina tranquilla col sorriso sulle labbra, scherzosa, felice, soddisfatta del progresso raggiunto, con in cuore la gioia e la speranza di rendere la loro cittadina più attraente e più cara.
Sulle porte dei magazzini i padroni con il viso sempre chiaro e generoso accolgono gentilmente i clienti.
Intanto sui pioppi e sugli olmi secolari gli uccelli intrecciano festosi i loro canti e Reventino con la verde chioma annunzia il tempo buono e la bufera. >>
La descrizione di corso Garibaldi e delle due piazze, i tanti negozi ben curati, l’accenno a un assetto urbanistico che viene definito letteralmente “simpatico” e “spontaneo”, la tranquillità e il sorriso sul volto della gente, che gli appare orgogliosa della propria cittadina, fanno pensare a un paese che aveva delle enormi potenzialità di sviluppo, evidentemente in larga parte disattese.
E poi non poteva mancare un riferimento al monte Reventino, che sovrasta la vallata in cui sorge Soveria Mannelli e ne rappresenta una ricchezza naturalistica e paesaggistica da rivalutare al più presto: lui almeno, con la sua “verde chioma”, è rimasto pressoché immutato nella sua funzione positiva di sfondo pittoresco e quasi di nume tutelare nei confronti dei paesi che sorgono alle sue pendici.