L’assetto urbanistico primitivo del borgo, verosimilmente di epoca normanna, seppure fortemente colpito e danneggiato dal terremoto del 1638, che distrusse Motta e quelli successivi fino all’ultimo del 1905, e che provocò danni insanabili, prevalentemente è riuscito a conservarsi, e paradossalmente ha resistito anche a quello che poteva essere uno sviluppo urbanistico speculativo, impedito, in questo caso, soprattutto dalla tipologia di un territorio che si presentava fortemente degradante fino a raggiungere la sottostante valle del Savuto. Ciò favorì, nel corso dei secoli, interventi di restauro e consolidamento edilizio limitati solo alle originarie dimore e ai quartieri già esistenti, rendendo del tutto irrealizzabile la costruzione di nuovi. In particolare, dopo la distruzione del 1638, furono ricostruite le zone dette di San Nicola e Santa Lucia, le più immediate al pianoro dove sorgevano le rovine del castello, e fu proprio in tale occasione che Motta di Porchia cambiò la propria denominazione in Motta Santa Lucia.
Tali criticità nel tempo suggerirono, agli abitanti di Motta, lo spostamento verso siti migliori tra cui altri luoghi della diocesi di Martirano, in particolare la vallata del fiume Amato, allettati, come in altra occasione ho avuto modo di ricordare, dagli estesi terreni dell’abbazia di Corazzo e dai fondi rustici vescovili.
Successivamente, a seguito della reazione sanfedista e il ritorno del governo Borbone in Calabria, la popolazione riuscì in qualche modo a portare a compimento alcuni interventi conservativi sui fabbricati esistenti cercando di dare risalto maggiormente a quelli che erano gli elementi di pregio presenti nel centro storico.
Il forte fenomeno dell’occupazione di nuovi insediamenti conferma in parte la diminuzione demografica di Motta che è passata dagli oltre duemila abitanti registrati nel corso del XIX secolo agli 840 di oggi. In generale, come per tutti i paesi del meridione, anche per Motta la manifestazione emigratoria verificatasi nell’ultimo secolo è responsabile del calo demografico registrato.
Basti pensare che la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo si caratterizzarono per il forte esodo di molteplici e interi nuclei familiari di Motta alla ricerca di migliori condizioni sociali. Le mete preferite furono le Americhe. Un fenomeno che continuò anche successivamente nel corso delle due guerre mondiali e ancora poi verso i paesi europei e del nord del paese.

Nei fatti, molto complessa appare la storia di Motta. Pur privi di prove atte a dimostrarne l’esistenza, però, non manca chi sostiene, che uno degli antichi insediamenti umani di Motta Santa Lucia fu quello di Porchia, verosimilmente impiantato dai Romani vicino a Mamerto intorno alla metà del VI secolo a.C. Questo è sostenuto dal fatto che i Romani erano presenti in quel territorio lungo la via Popilia dove nelle immediate vicinanze di Martirano, era collocata, come richiamato nel Itinerarium Antonini, la “Statio ad flumen Sabatum” creata proprio dai Romani per palesi compiti bellici. Non mancano gli studiosi che avanzano l’ipotesi che questo insediamento, geograficamente, fosse situato sulla parte sinistra del fiume Savuto, alle pendici della parte occidentale del monte Reventino, come non mancano affermazioni che Porchia abbia ripetutamente subito rovine a causa dei terremoti e delle alluvioni. Intorno alla metà del X secolo a causa delle scorribande e incursioni saracene, fu interamente distrutta con gli abitanti obbligati ad allontanarsi nelle montagne vicine in luoghi meno accessibili e più sicuri. Questo, quasi certamente, fu il primo vero motivo che favori nel circondario intorno ai boschi del Reventino e del Savuto la formazione di nuovi insediamenti abitativi sotto forma di villaggi, uno dei quali si chiamò Motta di Porchia. Proprio per quanto appena citato secondo altri ancora, non si esclude che anche nell’epoca di Bisanzio il sito di Motta fosse una guarnigione militare, per proteggere le popolazioni dai ripetuti attacchi.
A cominciare da X e XI secolo Motta Santa Lucia seguì le vicende storiche e religiose delle diverse dominazioni ad iniziare da quella dei Normanni, epoca nella quale si cercò di rafforzare il rito latino cercando di ridimensionare quello greco, stabilizzazione che continuò anche nel XII secolo con l’arrivo degli Svevi attraverso la diffusione di monasteri retti da monaci di culto latino.
Perché Motta? Anche sul termine non sono mancate nel tempo alcune discordanze tra studiosi. Evito di entrare nel merito e mi limito ad evidenziare quanto riportato dal Dizionario Devoto-Oli9 che a riguardo sostiene che il termine Motta indica un blocco di terra staccato dal monte o un piccolo rialzo del terreno: termine assai diffuso nella toponomastica. Il suo etimo deriva dal latino volgare *mut(t)a, da un tema prelatino.
Per me che non conosco il territorio ho trovato interessante e curioso, allo stesso tempo, quanto rilevato dalle notizie riportate da wikipedia, ovvero che «[…] i villaggi che costituirono Motta di Porchia furono denominati dai Santi sotto la cui invocazione erano stati fondati ed ai quali erano state edificate diverse chiese: San Pietro, San Paolo, San Marco, Sant’Angelo, San Donato, San Vito, San Nicola, San Barnaba, San Salvatore, Santa Lucia.
Il più importante fra questi villaggi, quello di San Salvatore, dette il nome al paese che, in alcuni documenti, divenne Motta San Salvatore»10.
Una breve nota che richiama il borgo, con il suo originale nome, di Motta di Porchia come appartenente al soppresso vescovato di Martorano, il cui vescovo si godeva i beni degli eredi di Enrico Calà siti proprio a Motta, che ne comprovava il dominio con imperiale diploma del 1256, ci viene fornita dall’abate D’Avino11, nota con la quale si evidenzia l’esistenza di Motta già al 1256. Politicamente, difatti, dopo i Sanseverino, il controllo del territorio passò nelle mani dei fratelli Giovanni ed Enrico Calà.
di Franco Emilio Carlino, Socio Corrispondente dell’Accademia Cosentina
BIBLIOGRAFIA
9 Cfr. il Devoto-Oli, 2016.
10 https://it.wikipedia.org/wiki/Motta_Santa_Lucia.
11 Cfr. V. D’Avino, Cenni storici sulle chiese arcivescovili, vescovili e prelatizie (nullius) del Regno delle Due Sicilie, raccolti, annotati, scritti per l’ab. Vincenzo D’Avino, Dalle Stampe di Ranucci, 1848.