Ritorno a Sambate di Platania, poche case nell’alta valle del torrente Piazza, per iniziare il cammino di stamattina dopo la nevicata notturna sulle zone sommitali del monte Reventino. Ho atteso questa nevicata come una primavera, domani la neve si sarà già sciolta. Un tempo qui le nevicate erano più frequenti, con inverni più rigidi. Negli ultimi anni, a causa dei cambiamenti climatici e il conseguente surriscaldamento della Terra, le cose sono cambiate anche qui.
Sono stato qui lo scorso otto dicembre con Francesco Bevilacqua che su questo gruppo montuoso vi cammina e lo racconta, attraverso la scrittura e la fotografia, da quasi quarant’anni e ne ha descritto la storia dell’uomo, della natura, del paesaggio in un libro della collana “Gli scarabei” (dedicati alle montagne calabresi) dell’editore Rubbettino, (Il Parco del Reventino. Guida storico-naturalistica ed escursionistica al gruppo dei monti Mancuso, Reventino, Tiriolo e Gimigliano; 2008). Oggi come dieci giorni fa camminerò tra il monte Tombarino e il monte Faggio compiendo un cerchio.
La neve, che sfavilla sotto un cielo azzurro, ha ricoperto tutto: all’inizio del cammino mi lascio alle spalle le pendici ancora coltivate ed ordinate dai proprietari delle case della piccola frazione pedemontana, sui rami dei meli resistono ancora i piccoli frutti autunnali di antiche varietà.
I castagni, dal portamento patriarcale, sembrano salutare al mio passaggio.
Utilizzo la fotocamera, mentre il vento e il Sole presto avranno la meglio sull’effimera neve che sembra abbia fatto sparire ogni cosa. Quando inizio a camminare sul crinale mi accorgo che non sono l’unico a violare con i miei passi la soffice neve, prima di me stamattina più di un animale selvatico ha affrontato il sentiero innevato imprimendo su di esso le sue orme. Abbandono per un tratto il crinale e ammiro tutto il versante nord orientale del monte Mancuso, un’isolata montagna tra la bassa valle del fiume Savuto e la piana di Sant’Eufemia altra meta abituale delle nostre erranze. Fa da sfondo il mare del golfo di Sant’Eufemia la cui veduta della porzione centrale è interrotta dal Mancuso, cosicché la montagna appare quasi affiorare dall’acqua.
Il sole è quasi a mezzogiorno quando mi fermo per far rallentare il battito del mio cuore. Intorno a me il silenzio è interrotto solo dal cinguettio delle cinciallegre che saltano da un ramo all’altro alla ricerca di insetti. Contemplo il silenzio che in un paesaggio innevato può assumere una connotazione anche visiva. E’ un silenzio in grado di guarire, una necessità per l’anima. E’ la manifestazione, la voce del Sacro. “Quando tutto è silenzio le cose cominciano a parlare; pietre, animali, e piante diventano fratelli e sorelle e comunicano ciò che è nascosto”, ha scritto Ernst Junger. E’ questo il momento in cui devo ringraziare qualcuno, il momento più importante di una giornata. Ringrazio Dio, il Creatore, il Grande Mistero.
Mi vengono in mente le riflessioni di Francesco Bevilacqua sul rapporto tra sacro e natura contenute in un piccolo ma prezioso testo che lessi per la prima volta alcuni anni addietro in cui l’autore tesse, attraverso le trame dei concetti di estetica, sacralità ed etica, un elogio dello stupore dinanzi alla bellezza del creato. Riporto quanto è scritto nel capitolo intitolato <<Sacralità della natura: stupore ed essenza>> : “se si pone mente a tutti i monasteri, le abbazie, le laure, i cenobi, le minuscole chiesette, gli asceteri disseminati nelle solitudini della Terra non potrà sfuggire la sacralità del luogo naturale prima ancora di quella degli edifici di culto.” Segue una citazione di Norman Douglas, l’autore di Old Calabria: “ecco cosa scrisse un raffinato narratore e viaggiatore inglese, Norman Douglas, a proposito della Certosa di Serra San Bruno in Calabria: “ Sul retro del monastero c’è una maestosa foresta di abeti bianchi – null’altro salvo che gli abeti; una regione insolita per quel che riguarda l’Italia meridionale e centrale. Ero lì, nell’ora dorata che segue il tramonto, e di nuovo nella luce fioca del mattino madido di rugiada; e mi sembrava che in questo tempio non eretto da mani umane risiedesse una magia più naturale e più sacra che non negli ambulacri dei chiostri poco lontani”. Francesco Bevilacqua conclude ricordando che “non c’è eresia nel pensare alla Natura come alla suprema divinità, la dea madre della vita e delle cose. Ce lo spiega bene Giacomo Leopardi: “ (…) La natura è lo stesso Dio. Quanto attribuisco alla natura, tanto più a Dio. (…) Quando più esalto e predico la natura, tanto più Dio.”
“Intuizioni” di questo tipo sono proprie dell’homo religiosus che è ormai in via d’estinzione nelle moderne società occidentali presso le quali ha preso posto l’uomo areligioso. Per Mircea Eliade, lo storico delle religioni di origini romene, l’uomo areligioso è l’uomo che “rifiuta la trascendenza, accetta la relatività della realtà e arriva fino a dubitare del senso dell’esistenza. (…) il sacro è l’ostacolo per eccellenza alla sua libertà”. Quindi per costruire se stesso ha bisogno di desacralizzare il mondo. Come non condividere questo pensiero se si pensa per esempio alla capacità distruttiva dell’uomo tecnologico nei confronti dell’ambiente e della natura, luogo d’elezione del sacro.
Riprendo il cammino. La luce illumina a destra e a sinistra i cerri e gli ontani con la neve ancora sui rami, sembrano elementi decorativi di un dipinto gotico. Sono immerso in una luce gotica ma non mi trovo tra le pareti di luce di una cattedrale bensì, concludo, in un paesaggio gotico. L’arte e l’architettura gotica a partire dal dodicesimo secolo sostituirono quella romanica che caratterizzò un occidente in cui l’uomo si sentiva partecipe di un mondo ostile, oppresso da un destino di fatica e di espiazione del peccato originale. L’uomo del gotico invece ha fiducia nel conoscere la realtà, pone attenzione alla natura, agisce nel mondo sempre in vista del raggiungimento di Dio. Negli anni in cui cominciò ad affermarsi il nuovo stile l’abate cistercense san Bernardo fondatore dell’abbazia di Clairvaux (Chiaravalle) e grande uomo d’azione, sceglieva gli spazi aperti della natura per meditare e pregare: agli amici diceva di aver avuto come unici maestri le querce e i faggi, racconta Jacopo da Varazze nella Legenda aurea.
Risalgo sul crinale, passo alla base della cima del monte Faggio e proseguo. Dalla sommità del monte Faggio, dove sono stato altre volte, la vista spazia fino al Pollino, fino ai confini settentrionale della Calabria. Prima di incrociare il sentiero dell’andata mi fermo sul monte Capo di Bove da dove ho la visione di un’ampia parte della Calabria centrale: la cima del Reventino e la lunga dorsale orientale con il monte Condrò, il monte Tiriolo, la Sila Piccola in secondo piano, il mar Jonio, il monte Contessa che nasconde le montagne delle Serre, l’istmo di Marcellinara, il golfo di sant’Eufemia e la costa sud – occidentale fino a Capo Vaticano. Mi trovo su uno dei tre belvederi di prim’ordine per una contemplazione panoramica vastissima, così definì il monte Reventino Giuseppe Isnardi, meridionalista e studioso della geografia e della storia calabrese, dopo che una volta scrisse “che manca all’intiera Calabria, a causa della particolare struttura del suo rilievo, un centro di visione che permetta di riassumerla tutta allo sguardo e alla stessa immaginazione, di intuirne abbastanza rapidamente e sicuramente la forma e la fisionomia paesaggistica generale.”
di Alessandro Mantuano
*) Tutte le foto a corredo del testo sono dello stesso autore (Alessandro Mantuano).