Lavorare alla stesura del libro “Ombre a Mezzogiorno” pubblicato nello scorso mese di marzo da Grafichéditore di Lamezia ha offerto l’opportunità di approfondire la ricerca sulle cause che hanno determinato la diversità della Calabria rispetto alle altre terre d’Italia, avendo come filo conduttore la domanda: «La diversità della Calabria, nell’ambito della più ampia diversità del Mezzogiorno, è nata con l’incontro di Teano e con l’unione del Sud alle altre regioni d’Italia, oppure ha origini e ragioni più indietro nel tempo?».
Elementi di diversità si scorgono in ogni periodo storico che ha interessato la nostra regione. Il professor Guido Pescosolido dice che nel 1861 la differenza di Pil pro-capite tra Nord e Sud «si aggirava intorno al 10%; oggi siamo oltre il 40%, con il pil per abitante del Mezzogiorno pari a circa il 55% di quello del Centro-Nord». E poi precisa che «un divario così contenuto nel 1861 era dovuto al fatto che né il Nord, né il Sud avevano un apparato industriale paragonabile quantitativamente e qualitativamente a quello dei maggiori paesi europei industrializzati […] Le due economie, dunque, erano entrambe eminentemente agricole e per questo non registravano tra di loro grandi differenze nel prodotto pro-capite». Aggiungendo: «Differenze rilevanti si registravano invece nella struttura sociale delle campagne, con il Sud caratterizzato da una presenza di latifondo molto più accentuata di quella del Nord […] Ma il divario maggiore si registrava nella consistenza quantitativa e qualitativa del sistema creditizio, nella inferiore dotazione di infrastrutture, stradali e soprattutto ferroviarie, nei livelli di alfabetizzazione».
Ecco. Limitatamente al Pil, possiamo dire che le due aree del Paese – Nord e Sud – al momento dell’unità d’Italia erano ai nastri di partenza solo leggermente distanti, e che «se il reddito pro-capite reale del Sud tra il 1861 e il 2010 si è moltiplicato per più di nove volte […] il reddito pro-capite del Centro-Nord si è moltiplicato di circa 15 volte». Con il risultato che «all’inizio degli anni Cinquanta del Novecento il divario Nord-Sud nel pil per abitante toccò i suoi massimi storici (il reddito per abitante del Sud si attestava intorno al 55% di quello del Centro-Nord)». (La questione Meridionale secondo Guido Pescosolido, Lentelocale. Quotidiano on-line d’informazione della Locride, 20 novembre 2017).
Sull’argomento diversità esiste un’ampia storiografia e noi attingiamo da essa per ricavare e fornire alcune citazioni che aiutano a meglio comprendere gli avvenimenti.
Mario Attilio Levi, nell’analizzare la storia dell’Italia antica, scrive che «con la fine dell’unità imperiale si giungeva alle soglie del Medio Evo». Ed è allora che si rende visibile «l’estrema decadenza dell’Italia centro-meridionale». Da quel momento l’aristocrazia latifondista del Sud, non più sotto il controllo di un forte governo centrale, mira ad estendere i suoi possedimenti senza badare alle condizioni del popolo.
Nel Centro-Nord Carlo Magno rompe le grandi circoscrizioni dei Ducati, istituisce Contee e Marchesati, favorisce il frazionamento dei terreni e avvia la diffusione del feudalesimo, affidando la gestione a funzionari di nomina imperiale controllati dai “missi dominici”, veri e propri ispettori della Corona. Nel Sud la persistenza e il consolidamento del latifondo hanno come conseguenza lo scarso impiego di investimenti e di tecniche per il miglioramento delle proprietà rurali, determinando il massiccio sfruttamento dei lavoratori agricoli che saranno legati alla terra da vincoli di subordinazione, se non di schiavitù.
In Calabria gli abitanti delle coste, inseguiti dai saraceni, cercano nuovi spazi e nuovi luoghi, aggrediscono la foresta, abbattono gli alberi e creano le condizioni per il dissesto idrogeologico. Le tendenze urbanistiche finiscono per assecondare la conformazione fisica del territorio, e nel frattempo pure le campagne si spopolano. Scrive Augusto Placanica: «Grazie all’arretramento, i calabresi riacquistarono la pace e la salute, ma si condannarono alla povertà e all’emarginazione».
Carlo Maria Cipolla: «Quando si parla di sviluppo economico italiano dopo il Mille va precisato che si parla soprattutto di sviluppo economico dell’Italia centrale e settentrionale… Il Meridione non si mosse allora. Allo stesso modo come non si mosse ottocent’anni più tardi, quando il Nord e il Centro iniziarono la rivoluzione industriale».
Saldi rapporti di dipendenza del Meridione nei riguardi dell’Italia centrale e settentrionale si rilevano in epoca angioina, quando Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia, conquista il regno di Napoli portandosi dietro numerosi mercanti e finanzieri toscani e permettendo loro di acquisire una posizione dominante nel commercio e nel mondo degli affari del Regno.
Napoli e Milano, il Reame e il Ducato Lombardo, sono due esempi di come le dottrine dell’Illuminismo abbiano influito in maniera diversa sul territorio e sulla popolazione, e di come le riforme che tanta parte hanno avuto nel pensiero politico meridionale non siano riuscite a scardinare, nel Sud, la struttura di uno Stato che, nonostante tutto, continuava a restare feudale.
Lando Bortolotti: «Nel Nord e nel Sud dell’Italia, i riformatori sostengono all’incirca le stesse posizioni, negli stessi anni. Anche i provvedimenti legislativi da loro sollecitati ed ottenuti sono simili. Ma le situazioni sono profondamente diverse, e tali rimangono. Nel Nord le riforme trovano un terreno favorevole, e la crescita delle infrastrutture di comunicazione accompagna un intenso sviluppo, prima agricolo e commerciale e più tardi industriale. Nel Sud invece la struttura sociale, e il modo nel quale essa aveva in lunghi secoli di immobilismo modellato il territorio, oppone una pesante inerzia alle innovazioni». E mentre intorno al 1840 negli Stati sabaudi, nella Lombardia e nel Granducato di Toscana viene completato il sistema delle strade provinciali e comunali ed inizia lo sviluppo delle strade ferrate, nel Mezzogiorno – continua Bortolotti – «non solo mancano le strade (e quelle non molte e non molto buone che si costruiscono servono a una capitale che accentra tutto); ma sono sconosciuti i canali, le irrigazioni, le bonifiche, il rinnovamento degli insediamenti».
Sulla borghesia terriera proponiamo le parole di Francesco Volpe, il quale scrive che essa in Calabria «anche dopo il sussulto costituzionale del ’20-’21 […] continuava a detenere le leve delle amministrazioni locali, trasmettendosi il potere di generazione in generazione ed utilizzandolo spregiudicatamente per la tutela e la difesa dei propri particolari interessi: gli Spiriti a Cosenza, i Mollo e i De Rosis a Rossano, i Morelli a Rogliano, i Compagna a Corigliano […] e così via».
Al Nord contadini e lavoratori della terra della Valle Padana reagiscono e, come comunità, creano un’alternativa fra emigrazione e lotta di classe. Le idee socialiste si diffondono tra i braccianti della Bassa e si forma una componente sociale nuova e più vicina alla mentalità degli operai delle fabbriche, una massa di braccianti in movimento, non più legati alla terra ma intenzionati a discutere le condizioni di vita e di lavoro.
Nel 1898 Gaetano Salvemini scrive a Filippo Turati: «Quando si muove Milano, è per un concetto, sia pur grossolano: Roma, Napoli e il Meridione non rispondono. Quando si muovono questi ultimi è per un istinto – la fame – e non risponde Milano. Così il cerchio non è chiuso mai…». E poi Ettore Ciccotti: «Il Mezzogiorno è la terra dei solitari; e le sue grandi manifestazioni intellettuali sono state e sono personali, prive di continuità, in contrasto col presente e con l’ambiente, e divinatrici dell’avvenire».
La diversità del Mezzogiorno (e della Calabria in particolare) emerge all’interno del quadro storico appena descritto. Ma quali sono le origini? La domanda che ha guidato la stesura di Ombre a Mezzogiorno è stata: «Generalmente – rispetto agli altri elementi che hanno determinato la diversità, e cioè fatti storici ed eventi estremi e disastrosi – il cittadino calabrese ha avuto un atteggiamento passivo?».
E se Francesco Saverio Nitti sostiene: «Politicamente l’Italia meridionale è assente. È stata troppo conservatrice, né liberale, né radicale: è apolitica», Norberto Bobbio – nel dire che «la questione meridionale è prima di tutto una questione dei meridionali» – specifica: «Non già che i meridionali, per il solo fatto di esser nati al Sud di un certo parallelo, siano responsabili dell’arretratezza economica e civile di certe parti del Mezzogiorno. Ma nel senso che spetta prima di tutto a loro, se pure non soltanto a loro, mostrare, con il minimo numero di parole e il maggior numero di fatti, la loro volontà di correggere vecchi costumi di cui sono piene le cronache patrie…».
Beniamino Andreatta – in Calabria per dare vita all’Università di Arcavacata – ammonisce: «Si cercano giustificazioni che spesso non mettono in discussione la capacità di coesione, la capacità di immaginazione, la capacità di mettere insieme uomini ed eventualmente capitali per nuove iniziative. Si cercano al contrario profondi fatti strutturali, che fanno cadere su altri, sugli esterni, sugli stranieri le ragioni del mancato sviluppo di questa regione, dove, credo, il problema fondamentale è la mancanza di una borghesia imprenditoriale o di quei sostituti come sono state le leghe bianche e rosse dell’Emilia e del Veneto, che hanno immesso fatti imprenditoriali, che hanno creato squilibri e quindi hanno creato sviluppo».
Armando Orlando