Tempo addietro mi è capitato tra le mani, per pura casualità, un libretto scritto da Leopoldo Pagano (1) dal titolo “Della città di Terina nei Bruzj, Dissertazione di Leopoldo Pagano, estratta dal fasc. III, vol. 3° degli atti dell’Accademia Cosentina, Cosenza, presso Giuseppe Migliaccio, 1847”.
Il volumetto, che si compone di circa venticinque pagine, si presenta piuttosto malandato tanto che, conseguentemente, la sua lettura è stata piuttosto lenta e difficoltosa. Non solo questo, quanto ho potuto constatare che il testo è anche mutilo in quanto, mentre nell’ evoluzione dello scritto viene indicata la presenza di diciotto note esplicative, in calce al volumetto ne sono trascritte soltanto tre.
Nella Dissertazione, così come preannuncia il titolo, il Pagano mantiene la parola data e si occupa dell’antica e scomparsa città di Terina, sub colonia di Crotone nel Bruzio tirrenico, esaminando vari aspetti della sua vita e della sua storia.
Dopo avere premesso che il fior fiore “degli Autori, sia patrii, che stranieri (tra i quali ricorda, per relationem: Cluverio, Olstenio, Cellario, Barrio, Quattromani, Aceti, Grimaldi, Morisani, Romanelli) pongono Terina nel territorio Nocerino, a sinistra del Savuto, perocché evvi colà tra i due fiumi, Savuto e Rivale (2), un’eminenza a vista del mar Tirreno a guisa di cono troncato, elevato dugento quaranta piedi sul livello del mare e distante mille piedi dalla riva del mare medesimo. Sopra è una pianura, denominata oggigiorno la Pianura di Tirene o Tirina (3), dirimpetto al mare, da cui ora è lontana mille dugento e quaranta piedi; a libeccio mille e seicento passi da Nocera, posta dentro terra a greco. La pianura è estesa quarantasettemila ed ottocento canne quadrate, ellittica, un po’ declive, e divisa in tre diversi piani elevati di pochi piedi l’uno sull’altro a greco”.
Si precisa subito che la descrizione, soprattutto quella di natura metrica e topografica riportata dal Pagano, trova esatto e puntuale riscontro, non solo nel resoconto scritto dal Valentini, che ebbe ad ispezionare il Piano nella data dell’8 giugno 1837, ma soprattutto nella realtà topografica del Piano stesso.
Del luogo vengono annotate, altresì, le varie denominazioni toponomastiche quali Porta Vecchia (oggi, Portavecchia che, dal punto di vista topografico, rappresenta l’unica possibile entrata al Piano, a guisa di un ponte levatoio fisso o passo naturale); Baciapiedi, una fabbrica definita solidissima con doccioni di fontana; il Sepolcro della sirena Ligea, riportato a disegno in una rara moneta terinea descritta dal Mionnet, dal Millingen, dall’Avellino con l’epitaffio funerario ivi graffito nella originale lingua greca.
Annota, ancora, il Pagano che all’incirca nel 1571, vennero alla luce, nella detta località di Portavecchia, i condotti e i pilastri di un acquedotto di piombo, predisposto per l’adduzione idrica, proveniente dalle montagne dell’interno, verso il Piano di Terina, con l’iscrizione originale Lucius Appius magister viarum, mentre alla foce del Savuto fu rinvenuto il sepolcro, di cui si è detto, con la seguente iscrizione, esattamente riportata da tutti coloro che hanno avuto l’opportunità di leggerla, ossia: Ligeia Qanei Z. A. P. (4).
Dalla lettura dell’epitaffio, così come è stato riportato nello scritto del Pagano, emerge, con ogni evidenza, l’errore (che non si sa a chi debba essere attribuito, se all’Autore dello scritto [Leopoldo Pagano], oppure a Giuseppe Migliaccio, editore della Dissertazione) di trascrizione nel punto in cui la seconda lettera dell’acronimo viene riportata come una “A”, mentre è ormai pacifico che nell’originale dell’epitaffio è la lettera greca “D“ (delta–delta).
Prosegue, ancora, il Pagano che intorno all’anno 1683, padre Giovanni Fiore, se non ha mentito (Ci chiediamo: perché avrebbe dovuto? Ma, è evidente che il dubbio del Pagano è retorico!), riguardo allo stato dei luoghi sopra descritti, cioè, in particolare, dell’ emergenza collinare posta tra i due fiumi Savuto e Grande, ha attestato che, ai suoi tempi, chi avesse voluto, avrebbe potuto ammirare “i vestigi della rocca, la Porta Vecchia, tre acquedotti, che da tre miglia fuori portavano l’acqua nella città, due di terra cotta di meravigliosa doppiezza e grandezza, ed il terzo di piombo, alcuni pilastri e archi di fabbrica alti da trentacinque palmi, dove era l’iscrizione di L. Appio, i muri del porto formati di pietre tagliate con gli anelloni di ferro ad uso di navi, ed accanto del Rivale (5) dalla parte di levante gli avanzi del Borgo con una chiesa mezzo diroccata, nella cui volta si discerneano alcune immagini di santi di greco pennello intitolata a Santa Maria dei Borghi; e spesso vi sono stati ritrovati sepolcri di marmo, gioie, monete greche e latine di oro, argento e bronzo e, particolarmente nel 1656 un idoletto di bronzo dorato, di mirabile lavorio, alto da un palmo e mezzo che rappresentava un soldato antico che si disse Marte (6), col cimiero in testa, una stella in fronte, la cornucopia nella sinistra, la lancia nella destra, e le ali ai piedi, il quale idoletto da Pellegrino De Luca Nocerino fu regalato allora al cardinal Francesco Barberini (7)…Ai dì nostri (8) sonosi anche trovati idoletti di bronzo e di oro, e segnatamente, un Mercurio di bronzo, corniole con diversa incisione, un’agatina rappresentante un Centauro della grandezza di una piccola unghietta, di figura ovale e con tra righe di diverso colore e cioè latteo, melleo e pallido,opera di esimio bulino greco, un pavimento musaico, condotti di piombo, il bacino della fontana urbana, dove l’acqua si fermava dopo il cammino di quattro miglia fuori della città, un gran numero di sepolcri (9) con vasi lacrimali, e alquanti anni addietro un anello di oro del peso di un’oncia, in cui era incastonato uno smeraldo coll’effigie di Pallade, e monete di vario metallo, romane e greche, cioè crotoniati, locresi, terinee e simili, una delle quali, che era di oro, rappresentava la testa di una donna, e nel rovescio la Vittoria alata sedente su uno scoglio con una ghirlanda in una mano, ed una palma nell’altra. Tali avanzi sono di tal finezza, che han dovuto essere fatti né più bei tempi delle arti greche” (10).
E’ appena il caso di evidenziare come dalle descrizioni che precedono, accuratamente minuziose, sia dal punto di vista figurativo, che da quello ponderale (il che presuppone che gli oggetti descritti siano stati effettivamente visionati), si debba ricavare la certezza che i reperti non siano l’esito descrittivo di una invenzione fantasiosa, ma di una esistenza storica, anche se (per deficienza di uno Stato assente e distratto) il più delle volte, clandestina.
La Dissertazione del Pagano prosegue con la solita descrizione minuziosa e attenta.
Scrive, infatti:
“In queste diverse relazioni veggiamo ricordati più di una volta gli avanzi della rocca, della fontana, delle mura urbane, del tempio, delle fabbriche, del porto (11), degli acquedotti e del sepolcreto, ma non possiamo trasandare le copiosissime e svariate monete Terinee”.
Fa seguito, quindi, la descrizione minuziosa e figurativa di ventinove tipi monetali, tutti rinvenuti occasionalmente sul Piano di Terina e tutti recanti il logos Terenewn.
Passa, quindi, il Pagano, trattando delle origini della città, ad esporre l’ipotesi che ritiene fondata circa l’anno della sua fondazione.
Il ragionamento effettuato dallo studioso appare rispondente ad un preciso teorema e, quindi, ricevibile sino a quando non ne venga presentato altro di segno contrario che dimostri una fondatezza maggiore.
Egli, infatti, premettendo che su Terina ebbero a scrivere sia Scilace che Scinno Chio (riporto le denominazioni testuali), scrittori antichissimi vissuti prima di Erodoto, il quale scrisse nel 485 a. C., propone come fortemente probabile la fondazione della città tra il 710 e il 485 a.C. e il dominio su di essa di Crotone tra il 485 e il 356 a. C.
Come già affermato, il ragionamento appare condivisibile, anche se, come necessario glossema, sentiamo il dovere di aggiungere che il colle, poi detto Sabazio, in periodi antecedenti la fondazione del nucleo urbano, fu la sede ospitale di esigui e reiterati insediamenti preistorici, come risulta pacificamente dai numerosi ritrovamenti, retrocalendabili a quell’epoca, pervenuti sul tavolo degli studiosi, mentre la maggioranza di essi sono stati inghiottiti, per sempre, dalla clandestinità.
La Calabria divenne la terra di svariati insediamenti etnici, prima ancora che arrivassero le pentecontere dei coloni greci. Vi erano città importanti molti secoli prima che quella terra divenisse quella che, poi, fu chiamata la Magna Grecia (Megale Ellas).
Ricordiamo, per memoria di tutti, le importantissime città pregreche di Kossa (Cosenza), Arinthe (Rende), Menecine (Mendicino).
In particolare, Kossa era un centro talmente importante che coniava già molto tempo prima della colonizzazione greca, una serie monetale propria (come dimostrano le monete con il logo KOS, attualmente custodite dal British Museum di Londra [perché?]) di una bellezza mai eguagliata, afferma l’Autore, dai vari coni greci.
Abbiamo effettuato questo breve diverticolo espositivo, per dire che la Calabria è sempre stata una Terra vivace, accogliente e appetibile da vari rami delle etnie più diffuse. E’ impensabile che un sito come quello di Terina, posto sulla sommità del colle Sabazio, fosse passato inosservato, considerate la sua posizione topografica; la sua ricchezza di acque, dolci e pescose, addotte da ben due fiumi tra loro vicinissimi, il Savuto e il Grande; l’ abbondanza, nell’ immediato entroterra, di prodotti agricoli e cacciagione.
Se consideriamo, alcune delle fiorenti colonie greche delle coste calabresi, sia tirreniche che ioniche, ci rendiamo subito conto come gli ecisti coloniali della Grecia possedessero un senso dell’utilità e, ancora più, estetico, cresciuti come erano in una terra cultrice eccezionale del bello.
E’ impensabile, ripetiamo, che fosse sfuggita loro la presenza del colle Sabazio.
Dopo avere trattato alcuni argomenti a carattere generale, la Dissertazione prosegue occupandosi delle varie etnie succedutesi nel governo di Terina sino a quando Annibale, dopo la battaglia di Canne, temendo che i Terinei potessero schierarsi contro di lui e dalla parte dei Romani, eam solo aequavit, ossia la rase al suolo, abbattendone le mura e le tre torri di difesa.
“Se fosse stata distrutta interamente, non la vedremmo appresso mentovata né da Strabone, né da Plinio, né da Tolomeo, né da Solino, né dal marmo di Trajano del 111, né da Stefano Bizantino. Solo il Mela, benché l’Alberti e il Barrio affidati ad una erronea edizione anche lo citino e la Tavola Teodosiana di Peutingero la omettano per una strana dimenticanza, essendo indubbio che esistea ai tempi di Stefano”.
Argomento alquanto interessante della Dissertazione è costituito dall’idrografia dei luoghi.
Scrive, sul punto, il Pagano:
“L’Ocinaro, secondoché Licofrone dice, era un fiume vorticoso e fremente, ossia grosso ed impetuoso, e adjacente a Terina, Né può essere altro fiume, che il Savuto, detto nel IV secolo Sabbato dall’Itinerario di Antonino, sebbene altri legga Sabbutum o Sabbatium, e Bato o piuttosto Sabato da Plinio” (12)
L’altro fiume che lambisce il colle Sabazio dal lato opposto a quello del Savuto, è il fiume Grande, proveniente dai monti che sovrastano l’attuale Nocera Terinese, come il monte Mancuso e il Reventino.
Prosegue il Pagano:
“L’isoletta, oggidì Pietra della Nave, fu denominata Ligea da Solino; Scoglio Terineo da Tolomeo…Attualmente l’isoletta o piuttosto scogliera parte è battuta dal mare e parte è stata arenata fin dal secolo sestodecimo dalle continue alluvioni dei fiumi e rivoli vicini. E’ a sinistra di Terina e di Nocera, e propriamente a libeccio, lontana un miglio dal Savuto, e quindi altrettanto da Nocera. E’ formata da due scogli diseguali, e il più grande è della circonferenza di circa trenta passi. Accanto ad essa dovea essere il porto di Terina, detto nel XIII secolo Porto di Mare o della Nave di Arata” (13).
L’ Autore di Diamante passa, quindi, a trattare della fine di Terina, sottolineando come le memorie istoriche intorno a Terina giungano sino al V secolo.
Terina venne distrutta dai Saraceni, ai tempi di San Nilo, il quale visse tra il 910 e il 1005.
Il tempo della distruzione della sub colonia crotoniate coincide con due avvenimenti storici di una certa importanza, i quali vanno, quindi, esaminati, anche se brevemente.
Terina venne distrutta da parte dei Saraceni, che con i loro legni corsari percorrevano in corsa l’intero mare Mediterraneo, depredando sia il naviglio in cui si imbattevano, sia le coste dell’intera Calabria mediante rapide incursioni da cui essi ricavavano ogni sorta di bottino, compresi sequestri di persone, sia uomini che donne, per la cui liberazione, poi e secondo il ceto di appartenenza dei singoli, venivano richiesti pesanti riscatti.
Distrutta la loro città (sulla quale distruzione si racconta, tuttora, in Nocera Terinese di un tradimento messo in atto dal suo interno: ma questa è leggenda, per cui possiamo sorvolarla), i Terinei superstiti decisero di ritirarsi nell’immediato entroterra (che, certamente, essi dovevano conoscere benissimo, trattandosi della stessa kwra della loro città), ove fondarono il primo nucleo urbano della futura Nocera della Pietra della Nave di Arata, in seguito Terinese, in quello sperone roccioso, poi denominato Motta, che ricordava, nostalgicamente, il sito della loro città distrutta, nella medesima posizione elevata e lambito, com’era da presso, alla stessa maniera come lo era Terina, da due fiumi, il Grande e il Rivale (da rivus, piccolo corso d’acqua), di cui il secondo era tributario del primo alla stessa maniera come il Grande diveniva, al colle Sabazio, tributario del Savuto.
A questo punto della Dissertazione, il Pagano fa notare come nel medesimo lasso di tempo, in cui ebbero a verificarsi la distruzione di Terina e la susseguente fondazione di Nocera, e precisamente nell’anno 903, si fosse verificato un avvenimento di importanza capitale e cioè lo sbarco avvenuto ad Amantea da parte dei Saraceni, i quali avevano mutato i loro piani predatori originari, abbandonando l’idea, coltivata in un primo tempo, di compiere le loro scorrerie nel mare Ionio e optando, invece, di puntare decisamente sul Tirreno, al fine di potere giungere, man mano, sino alle coste del settentrione d’Italia. Così modificato e rispetto al primitivo teatro d’azione ionico, il loro campo di azione corsara si estendeva fortemente, promettendo maggiori bottini.
Quando le cronache del tempo riportarono la distruzione effettuata da parte dei Saraceni di Ternulach, Termulach, Terinulah, Terinulach (secondo le denominazioni correnti nella lingua saracena), tali toponimi vennero identificati con insediamenti entrambi posti sul mare Ionio, e cioè con Taranto (Caruso) e con Geraci (Pratilli), non considerando che la strategia saracena era stata mutata con l’abbandono del mare ionico e la preferenza per quello tirrenico che, secondo la visione predatoria saracena, avrebbe consentito il conseguimento di bottini più ricchi come già detto e, inoltre, la possibilità di prolungamento delle scorrerie non solo sino al settentrione della penisola, ma anche oltre, verso la Francia e la Spagna.
Nessun dubbio può ancora sussistere circa l’ubicazione di Terina sul colle Sabazio, denominato Piano di Terina, lambito da presso da due fiumi, il Savuto e il Grande, così vicini tra loro da sembrare un solo fiume, bipartito, a guisa del Tevere quando, a Roma, incontra e supera l’Isola Tiberina.
Su tale punto in particolare, vogliamo ricordare la particolare traduzione da me effettuata, per la prima volta, del termine greco, adoperato da Licofrone, quando definisce l’Ocinaro (Savuto), boukerws.
Il termine in rassegna, riferito per l’appunto all’odierno Savuto, è stato, da parte di tutti coloro che se ne sono occupati, tradotto come “dotato- munito di corna di bue”, supportando tale traduzione con alcuni richiami mitologici (fra l’altro, secondo mitologie fondate sì, ma applicate e richiamate in modo del tutto improprio) che, nella presente sede non è il caso di esaminare.
Il fatto centrale è che la traduzione sopra riportata è scorretta in quanto, nel termine esaminato, non esistono elementi linguistici che autorizzino la traduzione di “dotato-munito”, essendo il termine greco composto da due elementi, ossia Bou (Bue) e Keras (Corna), con la conseguente, corretta traduzione di “a forma di corna di bue” (traduzione che si può agevolmente ricavare da vocabolari di greco antico, come Lorenzo Rocci, Guglielmo Gemoll, Alessandro Annaratone-Umberto Nottola).
La mia spiegazione si basa sulla circostanza per cui, se si osserva dal mare, i due fiumi che lambiscono il colle Sabazio, sono talmente vicini tra loro, da sembrare un solo corso d’acqua che venga diviso da quello spartiacque naturale costituito dal colle Sabazio.
Tale interpretazione appare supportata dai seguenti due elementi:
- La definizione dell’Ocinaro come boukerws lo si deve esclusivamente a Licofrone, l’ermetico drammaturgo calcidese, che era dotato di una liricità ermetica irripetibile e di una facoltà di composizione di termini nuovi ineguagliabile. Il termine non verrà usato se non riportando la scrittura di Licofrone (Cfr. M.Manfredi-Gigliotti, Lukofrwn kai Wkinarws, Licofrone e il fiume Savuto, Ma. Per. Editrice, 2010).
Ho avuto modo di sostenere, in varie sedi, che vi sono elementi sufficienti per affermare che l’autore della Cassandra, nella esatta descrizione del colle di Terina e del sepolcro eretto alla foce del fiume dai nativi, vide i luoghi stando dalla parte del mare, dal quale punto di osservazione si poteva essere tratti in inganno circa l’esistenza di un solo fiume, così come abbiamo sopra affermato: talmente i due corsi d’acqua sono vicini e, allo stesso tempo, talmente la circostanza descritta appare unica ed eccezionale da non esservi in Calabria una situazione idrica simile;
2) La seconda circostanza da evidenziare è costituita dalla considerazione per cui la lingua greca antica non possedeva un termine specifico per indicare, di un fiume, la sua foce a delta. Cosa che sembra incredibile, considerato che la definizione moderna di foce a delta viene mutuata, per l’appunto, proprio da una lettera dell’alfabeto greco. Così gli autori antichi erano costretti, per descrivere il delta di un fiume, a ricorrere alla personale e soggettiva facoltà di invenzione linguistica come è avvenuto per Licofrone.
Gli elementi sono, in conclusione, tanti e storicamente accertati per affermare che Terina non può non essere là dove da secoli ne viene indicato il sito, con le testimonianze, con gli stessi toponimi, con la storia, sia orale che scritta, con i reperti che spontaneamente si affacciano alla superficie, dal quale elenco è, stranamente, latitante soltanto l’archeologia.
I Beni Culturali dovrebbero darsi una svegliata e prima di favorire questa o quella ipotesi, avrebbero il dovere di porre tutti i siti, eredi probabili della scomparsa città di Terina, su un piano di comparatività in cui i candidati fossero tutti primi inter pares.
Quando vedremo una squadra di archeologi scavare a Terina?
Se può essere utile, l’indirizzo è questo: Nocera Terinese (olim, Nocera della Pietra della Nave di Arata, in cui Pietra della Nave (lo stesso che Rifugio della nave) rappresenta la traduzione letterale, al singolare, di Terhnewn), Città Metropolitana di Catanzaro, Colle Sabazio tra i fiumi Savuto e Grande, località limitrofe Portavecchia, Carcere, Buonporto, Baciapiedi, Passo di Pirro (Passu du Piru).
NOTE
(1) Leopoldo Pagano nacque a Diamante, nella Calabria Citeriore il 23 maggio 1815, da Luigi e da Giuseppa Lancellotti di Cipollina. Il padre era un noto avvocato della zona e aveva sperato che anche il figlio avesse seguito gli stessi suoi sentieri giuridici. Senonché, il giovane dimostrò subito una vocazione religiosa di indirizzo cristiano-cattolico che lo indirizzò verso la carriera ecclesiastica e, così, Leopoldo si vestì sì di nero, ma al posto della toga, indossò l’abito talare. Viene ricordato per la sua eloquenza, dotta ed efficace, e per la sua multiforme cultura, per le quali divenne canonico della Cattedrale di Bisignano e fu nominato Confessore sia di uomini, che di donne (ustriusque sexus). Fu maestro di Belle Lettere e Filosofia e venne aggregato, come socio corrispondente, all’Accademia Cosentina. Ebbe molteplici riconoscimenti accademici, vari incarichi di prestigio, per lo svolgimento dei quali fu costretto a percorrere in lungo e in largo, la Calabria, la Lucania, la Campania, il Lazio, l’Umbria e la Sicilia.
Gli studi nei quali, però, eccelse tanto da essere, ancora oggi, ricordato soprattutto per essi, furono quelli di Letteratura e di Storia della Calabria. Il trattato sulla Storia Generale della Calabria, in quindici volumi manoscritti, che da lui presero il titolo di Selva Calabra, è un’opera omnia che testimonia la sua vasta cultura umanistica. Si interessò, anche, di storia patria a carattere locale, rivolgendo la sua attenzione, in modo particolare, verso tre insediamenti antropici magno-greci: Terina (che egli colloca decisamente nella kwra di Nocera Terinese); Tempsa (che viene collocata a Cetraro); Lao (che viene posta vicino a Scalea).
Morì a Napoli il 10 aprile 1862, all’età di 47 anni.
(2) Si tratta, con ogni evidenza storica, di una errata denominazione, in quanto, a prescindere da ogni altra considerazione, sia pure di tutta pertinenza, nei luoghi descritti dal Pagano, i due fiumi, che costituiscono una caratteristica irripetibile in Calabria, sono il Savuto (olim, Wkinarws) e il Grande che, quando giunge all’altezza del Piano di Terina in località Portavecchia, ha già ricevuto, nel territorio più a monte, in un luogo confinante con le case del comune di Nocera Terinese, le acque del suo tributario Rivale.
(3) Sia Tirene, che Tirina rappresentano due termini demotici di natura ipocoristica del dialetto nocerese deputati, entrambi, a sostituire la denominazione in lingua italiana, di Terina. Assolutamente errata è, al contrario, la denominazione Piano della Tirrena o del Tirreno, come compare in parecchi autori, sebbene non compaia mai in alcuna delle documentazioni cartacee giunte sino a noi.
(4) Questo epitaffio rinvenuto sulla tomba ( rectius, cenotafio) della sirena Ligea è stato un rompicapo per archeologi, linguisti, storici e studiosi in genere, per circa ottocento anni, sin quando, nel giugno del 2022, il nodo gordiano della decifrazione letterale non è stato sciolto da me. L’epitaffio, nel suo contenuto letterale, esplicito e non acronimo, è:
Ligea Qanei Zwsa Dwdekamenos Rw.
Ligea- LIGEA; Qanei-MUORE (con valore di presente storico); Zwsa–VISSUTA (participio passato da zaw-VIVERE); Dwdekamenos-DODICI MESI); Rw=R’-Valore numerico della Rw= CENTO.
Traduzione definitiva: Ligea muore che visse cento anni (infatti, cento moltiplicato per dodici mesi, dà il risultato di milleduecento mesi, ossia cento anni).
(5) Cfr., supra, nota n. 2.
(6) Dalla descrizione sommaria del reperto, sembrerebbe trattarsi più di Mercurio che di Marte.
(7) Questa medesima notizia è stata da me riportata in seno a Del colle Sabazio e dei fiumi Savuto e Grande: sono qui i confini dell’antica città di Terina, in Il Reventino del 10 giugno 2022.
In sostanza, tutti i reperti venuti alla luce, sono stati appresi per spontanea offerta del suolo, giammai tramite scavi scientificamente guidati e mirati allo studio del territorio sotto il profilo storico-archeologico. Anzi, quando, attraverso tali donazioni generose della terra, a seguito per lo più di lavori agricoli o lavori pubblici, qualcosa è emersa dal sottosuolo o è stata trafugata dagli inventori, oppure è finita nei Musei di altre località. Così è avvenuto, infatti, quando, nell’anno 2009, a seguito dei lavori di ammodernamento dell’Autostrada A/3, Salerno-Reggio Calabria, nel territorio di Nocera Terinese, località Portavecchia, dirimpetto alla porta del Piano di Terina e in adiacenza al fiume Savuto, Km. 4,5 è venuta alla luce una importante ed estesa necropoli greca, i c.d. Uffici Competenti dello Stato, si sono affrettati ad interrare il tutto senza notiziare, come era loro sacrosanto dovere, sia sotto il profilo giuridico, che sotto quello morale, il Comune di Nocera Terinese circa il quantum dei reperti rinvenuti e la loro natura; circa la destinazione dei reperti prelevati, avvertendo, altresì, il responsabile dell’U.T. C., che il Comune interessato, ex potestate legis, aveva la facoltà di fotografare, a garanzia, i reperti stessi.
C’è da domandarsi, poi, dove fossero i responsabili dei Beni Culturali competenti per il territorio di Nocera Terinese quando, nei tempi trascorsi, i reperti sopra enumerati, sia fissi che mobili, così come descritti ed elencati, sono venuti alla luce, anch’essi, in modo casuale, subendo, proprio per questo, la sorte della sottrazione, illegittima e clandestina, al diritto di conoscenza di tutta la comunità civile e politica calabrese prima, statuale poi.
C’è, ancora, da chiedersi dove fossero i responsabili dei Beni Culturali competenti per il territorio di Nocera Terinese quando nel medesimo territorio, sono scomparsi i muri di cinta della città, gli anelli del porto, la vasca della fontana pubblica, le mura dell’antico tempio diruto, le mura delle torri di guardia, i resti dell’entrata della città a Portavecchia, i tubi di ceramica e quelli di piombo dell’acquedotto civico.
Evidentemente erano distratti da altri interessi, scientifici s’intende, riguardanti altri luoghi del territorio!
Credo che ognuno di noi cambierebbe opinione e giudizio se venisse a conoscenza di quante e quali siano e siano state le precauzioni disposte per la tutela e protezione dei beni che ancora si celano nel sottosuolo sabazio.
Che qualcuno non si permetta di eccepirmi che, a seguito di alcuni saggi superficiali, effettuati sul Piano di Terina, sono venute alla luce cianfrusaglie e paccottiglie di ceramica di cronologia medievale, perché se così fosse, costui dimostrerebbe di sconoscere i risultati delle aerofotogrammetrie del Piano effettuate dal Prof. Giorgio Gullini, che hanno dimostrato e ancora dimostrano, se vengono compulsate, che nel sottosuolo del Piano di Terina vi sono, sovrapposti l’uno all’altro e riferibili ad epoche diverse, separate tra loro da secoli e secoli, ben TRE strati urbani, di cui il primo riferibile, con ogni probabilità, ad epoca preistorica e gli altri, a seguire verso il cacumen colli, ad epoche storiche successive diverse, con al culmine le cianfrusaglie e le paccottiglie medioevali.
Se il saggio, così come è avvenuto, viene effettuato scendendo a pochi centimetri nel sottosuolo, è ovvio che il risultato sia costituito da cianfrusaglia e paccottiglia medievali. Così come ho consigliato in altro studio, lo scavo, se fosse veramente serio, dovrebbe scendere ad almeno sette metri ipogei, secondo le evidenze della aerofotogrammetria sopra richiamata.
(8) L’epoca, evidentemente, è quella di Leopoldo Pagano.
(9) Già al tempo del Pagano, si aveva contezza dell’esistenza di varie aree necropolitane riguardanti la città di Terina e tale contezza era supportata dai numerosissimi indizi costituiti dalle emergenze archeologiche affacciantisi in superficie in modo occasionale e fortuito
Una domanda sorge spontanea: “Ma, dove andavano a finire tutti questi reperti che vedevano la luce nel modo sopra descritto?”
E’ facile dare la risposta pertinente.
La sorte dei reperti venuti alla luce al di fuori di una legittima campagna di scavi, come è ovvio, é sempre dipesa e continua a dipendere dal loro inventore: se egli è persona ligia ai doveri civici e ossequioso delle norme statuali, segue le vie legali e li consegna agli uffici competenti, i quali nella maggior parte dei casi, annotano le notizie riferite dall’ offerente anche per quanto riguarda il locus inventionis, per il quale vi è piena libertà di scelta; se, al contrario, egli è aduso a commettere atti antidoverosi o, addirittura, appartiene, alla categoria dei tombaroli, in tale ultimo caso il reperto finisce di esistere e si disperde seguendo il suo destino di apolide necessitato.
La maggior parte dei reperti partoriti dal colle Sabazio o Piano di Terina, che è la medesima cosa, sono finiti nella clandestinità e di essi si sconosce la sorte.
(10) E’ triste, fortemente triste, essere costretti a dovere elencare i reperti, rinvenuti per caso sul colle Sabazio, ov’era l’antica Terina, senza potere, come sarebbe stato logico e naturale, poterli avere direttamente in visione. Dov’erano i responsabili, regolarmente stipendiati dallo Stato italiano per la vigilanza sui beni storico-archeologici, quando tali ritrovamenti venivano trafugati e sottratti, in questo modo, contro le norme dello jus publicum? Evidentemente, erano distratti da altri interessi, scientifici s’intende, riguardanti altri luoghi del territorio!
(11) Come avrà fatto quel grand’uomo di Francois Lenormant ad affermare che il colle Sabazio-Piano di Terina, che, per l’occasione, gli venne indicato da remoto, non poteva essere, in modo categorico, il sito su cui sorgeva l’antica città magno-greca di Terina?
E’ molto semplice!
Lenormant fu ospite a Nocera Terinese della famiglia Ventura, di cui un esponente lo portò a fare un giro per la campagna nocerese in direzione di Campodorato (Campo di Arata) e da tale posizione gli venne indicato il colle Sabazio, con l’aggiunta che proprio sul colle, secondo una secolare tradizione locale tramandata da generazione in generazione, era allocata la scomparsa città di Terina.
Lenormant escluse, perché infondata, l’ipotesi della ubicazione della città su quel colle per un evidente motivo, in quanto, essendo Terina storicamente classificata come città marittima (polis paraqalatta) ed essendo il colle Sabazio così lontano dalla battigia del mare, l’ipotesi che Terina potesse trovarsi su quel colle era categoricamente da escludersi.
Evidentemente, saranno sfuggiti alla sua attenzione, semplicemente oculare da remoto, i resti del porto che, al tempo di Leopoldo Pagano (e non solo del Pagano, ma anche di tantissimi altri autori: ex multis, Fiore e Marafioti), invece, erano ben visibili!
Per conseguenza e secondo l’opinione del francese, non esistevano, oltre alla distanza del mare dal colle Sabazio, altre motivazioni che potessero ritenersi ostative a considerare Terina posizionata sul colle Sabazio.
Ergo?
Le ipotesi possono essere tante: o il francese aveva interesse a dire ciò che ha detto per compiacere qualcuno, oppure quella mattina si trovava in stato di ebbrezza e ne ha buttato giù una, la prima che gli si è presentata in mente.
Se sui luoghi erano effettivamente esistenti i resti del porto come attestano gli studiosi sopra indicati e il mare fosse stato, sin dall’origine, davvero lontano dal colle, come lo era al momento della visita del Lenormant o come lo è, maggiormente, al momento attuale, essendosi ancora di più allontanato durante lo scorrere dei secoli, allora bisognerebbe concludere che i Terinei erano degli emeriti imbecilli, avendo costruito un porto, sulla terra ferma lontano dal mare.
Ma questa è solo un’iperbole consequenziale all’affermazione di Lenormant, perché i Terinei hanno dato prova (prova storica che si basa, se non altro, sulla circostanza del grado di civiltà e floridezza che avevano fatto raggiungere alla loro città) di non essere degli imbecilli!
L’imbecillità va cercata altrove!
D’altra parte e oltre a quanto si è sopra eccepito, non possiamo non considerare che sempre lui, Francois Lenormant, immediatamente dopo la visita a Nocera Terinese, ospite della Famiglia Ventura, giunge a Lamezia e qui, senza alcun puntello di natura storica o archeologica, di cui, secondo lui, non v’era alcuna necessità, sentenzia ex cathedra, che l’antica città magno-greca di Terina si trovava proprio lì, nella Piana di Lamezia, a Sant’Eufemia Vetere, non considerando (il grand’uomo!) che gli si poteva eccepire la stessa considerazione da lui avanzata riguardo al colle Sabazio: a Lamezia, addirittura, la distanza dal mare del relativo, indicato sito, era ancora più grande di quella del sito posto a Nocera: sito che, attualmente, si trova collocato a circa chilometri tre dalla battigia del mare con l’aggiunta di una circostanza nettamente negativa per chi continua a sostenere il sito lametino, secondo cui nessuno degli studiosi, storici e geografi antichi ha giammai affermato, come, al contrario, copiosamente avviene per il sito posto sul colle Sabazio, di avere osservato e, quindi, tramandato, tramite la scrittura, testimonianza di tracce residuali di alcuna struttura portuale venuta alla luce nella zona di Sant’Eufemia Vetere.
Come mai, quindi, si continua a studiale e indagare nel luogo di Sant’Eufemia Vetere, sostenendo che lì era posta l’antica città magno-greca di Terina?
Evidentemente, sotto sotto esisterà qualche buon motivo, a noi completamente sconosciuto, ma facilmente immaginabile secondo la fantasia di ognuno, perché debba essere preferito, con palese discriminazione elettiva, un luogo anziché un altro in totale assenza di giustificazioni anche minime di natura scientifica.
Ancora oggi, ne siamo profondamente convinti, molti Lametini non sanno perché mai Terina sia stata ubicata, senza alcuna fondata ragione, sul loro territorio.
Agendo in questo modo non solo si defrauda l’identità storica del popolo di Nocera Terinese negandogli le sue origini e provenienza, quanto, a ben guardare, si defrauda anche quella dei Lametini che vantano una storia certamente gloriosa e importante che trae le sue origini dai tempi in cui Omero ha descritto le peregrinazioni mediterranee di Ulisse, finalmente approdato sulle rive della Scheria e per questo, meritevole di essere ricordata, ma non è, con ogni evidenza, la STORIA di TERINA.
(12) Per la storia ed etimologia dell’idronimo, cfr. supra, nota n. 7, Del colle Sabazio e dei fiumi Savuto e Grande: sono qui i confini dell’antica città di Terina, in Il Reventino del 10 giugno 2022, nel cui testo è stato da noi palesato un dissenso, anche se alquanto lieve, riguardo alla teoria sostenuta, sul punto, da Leopoldo Pagano.
(13) La descrizione, così minutamente analitica e particolareggiata non può che essere il frutto di un esame attento e, soprattutto, condotto in loco. I luoghi descritti non possono essere stati creati tramite una facoltà fantastica degna di Giulio Verne, oppure ricostruiti de relato, ma debbono essere sati fotografati con i propri occhi e, quindi, trascritti, a futura memoria, sulla carta.
Non sfuggirà all’attento osservatore come tale descrizione abbia evidenti convergenza e coincidenza di particolari che provengono anche aliunde, da altre fonti, costituite da altri storici, geografi e studiosi in genere, recatisi sui luoghi, di diversa nazionalità e appartenenti a periodi storici tra loro non contemporanei. Francamente, non riusciamo ad immaginare in che modo tali descrizioni possano essere seriamente contrastate e, soprattutto, possano essere contestate con argomentazioni valide.
Michele Manfredi-Gigliotti