È pacifico come negli ultimi anni sembra essersi ridestato un interesse a dir poco “compulsivo” per la Via Annia-Popilia, la strada consolare che collegava Reggio Calabria a Capua, e da qui, congiungendosi con la Via Appia, alle porte di Roma. Associazioni, convegni, un brulichio di iniziative che rasentano il circense – beninteso nel senso romano del termine – si stanno sviluppando avendo come oggetto l’antico segmento: si organizzano sfilate con costumi romani, amalgamando quasi il carnevalesco alla processione profana, si organizzano incontri e convegni a tema con un discreto impatto mediatico; e anche la nuova modesta segnaletica turistica presente sulla A2 sembra puntare sulla promozione con rimandi alla “Via Popilia” e al “Ponte di Annibale” nel tratto che va da Lamezia Terme a Rogliano.
Se tutta questa eco mediatica fosse seriamente supportata a livello accademico come in quello politico, staccandosi dunque dalla piaga personalistica trasversalmente presente in ogni angolo del mezzogiorno, potrebbe davvero trasformarsi in una potenziale fonte di reddito collettivo attraverso un piano turistico ben strutturato; soprattutto per i territori della Valle del Savuto, area toccata dalla consolare secondo il computo presente nell’Itinerarium Antonini per circa 53,3 chilometri.
Diverse infatti sono le evidenze archeologiche e toponomastiche ascrivibili all’antico tracciato, su cui spesso però non è sufficientemente posta attenzione: i toponimi prediali di Pedivigliano, Scigliano, Carpanzano, Rogliano e Aprigliano; la frazione di Aprigliano “Vico” che sembra aver mantenuto la sua antica designazione di agglomerato compatto di case gravitanti su un podere, non di rado ubicate in prossimità delle grandi vie consolari; il lastricato documentato da E. Galli in località “Campi” di Malito (oggigiorno non più visibile poiché sedimentato dal bitume, ma possibilmente recuperabile) e quello ancora visibile in località “Fosso della Manca” nel Comune di Martirano.
Soltanto il Ponte Romano sul Savuto sembra godere di questa pseudo-fama mediatica, anche se non è certo, come molti erroneamente propugnano, il più antico della Penisola: la principale peculiarità degna di nota sta nella doppia ghiera che lo accomuna ai ponti traianei del II sec. d. C; ma a differenza di tutti gli altri manufatti più o meno coevi – per intenderci sul modello del Ponte Lagnaro nei pressi Sant’Elia Fiumerapido (Frosinone) – i conci che formano la doppia arcata sono di altezza diversa, e sono comparabili per tecnica costruttiva soltanto al ponte di Faicchio nei pressi di Benevento.

Ciò nonostante, né le caratteristiche struttive, né le notizie iperboliche presenti nelle foto e nei post sui social sono servite sinora (o semplicemente i fautori non sono realmente interessati) a sensibilizzare la condizione in cui riversa tale manufatto, ancora ad oggi valicato più dalla selvaggina locale che da visitatori esterni. Il punto di accesso per la fruizione del bene è assai difficoltoso da raggiungere se non si è muniti di un fuoristrada, e nessuna indagine stratigrafica è stata mai sollecitata per corroborare o invalidare la tesi della presenza nell’area della statio ad Fluvium Sabatum – se si esclude l’operato notturno dei cinghiali per la gioia di qualche signorotto venatorio – lasciando il tutto in uno stato di totale abbandono.
Non sempre però l’azione pratica della politica locale apporta un beneficio migliore della negligenza, specialmente se non è supportata da una base di competenza e lungimiranza, binomio molto raro da trovare nel mezzogiorno: è il caso della silica medievale attigua al centro urbano di Martirano, erroneamente confusa con la strada consolare romana. E nonostante l’inesattezza dovuta allo spostamento del toponimo, qualche anno fa fu parzialmente restaurata dal Comune spendendo diverse migliaia di euro senza però impostare un piano turistico funzionale incentrato su di essa; cosicché a distanza di pochi anni, di questa paradossale opera non restano che le panchine e i lampioni disposti lungo il tratto incompleto, giustapposti alle erbacce coltivate da tempo.

Questi non sono che esempi microscopici di (non) azione legati al virtuosismo dell’area, e alla confusione operativa nell’utilizzazione delle risorse territoriali: alla paradossale restaurazione (o la mancata restaurazione nel caso del Ponte) poco giustificabile, viene a sommarsi implicitamente l’idea di inutilità connessa all’opera stessa. Questo perché a gran parte dei superstiti calabresi, e dunque soprattutto all’élite dirigenziale, sia essa politica o amministrativa, figlia delle plurisecolari pratiche familistiche e consortili mutuate oggi nei ruoli istituzionali ricoperti, non importa null’altro che l’immediata affermazione sociale; e quando non riesce ad ottenerla nella legalità, non di rado scivola inesorabilmente nel suo contrario. E succede così: le parole volano, la colpa è del vento, i disagi invecchiano e i paesi cadono; e si fomenta così, inconsapevolmente, un senso pratico di damnatio memoriae collettiva ingiustificata.
di Michele Ruperto