C’è stato un tempo in cui gli emigrati tornavano in massa nei loro paesi d’origine.
«Ci vediamo a Natale!». Si erano lasciati così, in estate, congedandosi da parenti e amici. «Ci vediamo a Natale!». E a Natale tornavano. Ogni anno. Sempre di meno, ma tornavano in una terra che ha più figli fuori che nelle proprie contrade.
Alcuni tornavano inseguendo il sogno della gioventù perduta, per cercare luoghi, per rincorrere ricordi vaghi e lontani. Altri portavano i figli, e questi spesso si sentivano estranei in una realtà che non conoscevano. E nella mente affioravano memorie indefinite, come indefinite sono state le esistenze di chi viveva nei paesi dell’Europa, in America, in Australia; esistenze trascorse con la mente altrove, in una terra che hanno amato e odiato. Una terra che le vicende della storia e l’azione degli uomini hanno reso amara.
Quel tempo – il tempo degli emigrati che ritornano in massa – non c’è più. Non è tanto lontano da oggi, quel tempo. Ma non c’è più. Perché non ci sono più quegli emigrati: uomini e donne che appartenevano al loro paese, e che lo difendevano, lo portavano nel cuore aspettando il giorno del ritorno – anche se breve – e nel frattempo scrivevano lettere e cartoline, una corrispondenza interrotta – ogni tanto – da qualche telefonata.
Oggi tutto è diverso. Basta un click, e parli e ti vedi a migliaia di chilometri di distanza. E vedi anche il tuo paese, la tua casa, le tue cose. Il “villaggio” è ormai diventato “globale”. E anche il paese è cambiato.
Gli orti e gli alberi che gli emigrati avevano lasciato non esistono più. I tetti rossi di tegole sostituiti dal cemento e dalle coperture in amianto. Un orizzonte di camini intervallato da piccoli serbatoi di gasolio. Niente più macchie di verde che riempivano gli spazi fra le murature delle abitazioni: al loro posto automobili parcheggiate, magazzini costruiti, e ancora case.
Il paese – quel paese che gli emigrati, per anni, hanno ricordato come il paese dell’infanzia e hanno sempre ritrovato così com’era rimasto nello loro memoria – non c’è più. Sparito. Sparito con loro. Perché anche loro – quegli emigrati – sono spariti. Hanno lasciato figli e nipoti. Ma loro sono rimasti nei luoghi dell’emigrazione. Hanno consumato lì i loro ultimi giorni.
E nel frattempo il paese d’origine è cambiato. C’è stato sviluppo. Sono state costruite strade e allargata l’autostrada. Ogni luogo ha avuto le sue opere pubbliche. Creando l’illusione, mostrando un’effimera possibilità di crescita e lasciando, alla fine, le persone più sole.
Dov’è finita – si chiede qualcuno – la solidarietà tanto vantata dai nostri padri? Dove sono finiti i valori, i sentimenti, quell’identità che ha mantenuto in vita il ricordo degli emigrati e che oggi nessuno di noi riesce più a trovare? Perché oggi la società appare così mediocre, a volte inutile perché non ti aiuta, altre volte disgraziata perché ti abbandona?
È come se un incantesimo si fosse spezzato.
I luoghi della memoria, i luoghi degli incontri ormai distrutti; gli edifici che avevano una storia demoliti per lasciare il posto alle abitazioni “moderne”; le feste sottoposte a cambiamenti radicali, cacciate dai posti tradizionali e trasformate in sagre mediocri che nulla hanno a che vedere con il patrimonio della comunità.
In sintesi, la storia e la cultura dei popoli sacrificate sull’altare di un modernismo che ha separato il progresso dallo sviluppo, perché – come ricordava Pasolini – alla classe dominante interessava solo lo sviluppo, perché solo dallo sviluppo si traevano i profitti.
Castelli diroccati e torri demolite, case medievali e palazzetti ammodernati, borghi antichi abbandonati e paesi spopolati, mestieri che finiscono e tradizioni che muoiono. Negli ultimi cento anni, la Calabria ha dato all’emigrazione più di due milioni dei suoi figli.
Chi ha costretto questa marea umana a lasciare casa ed affetti? Rispondere non è impresa facile, perché viviamo in una regione abituata da secoli a pensare che la “colpa” di tutto è sempre degli “altri”. E su questo concetto, ancora oggi, ci sono persone che stravolgono gli eventi e la storia per costruire false verità e mantenere in vita le loro fortune politiche, letterarie, musicali. Magari ne parliamo in un altro momento, di questo. Ora è tempo di Natale, ed il Natale – per i cristiani – contiene un messaggio di salvezza.
È per la salvezza del mondo che Dio si è fatto uomo ed è venuto a vivere in mezzo a noi, avendo come noi gli stessi problemi, soffrendo ed amando, ridendo e piangendo.
La tradizione ci ha tramandato l’immagine della mangiatoia simile ad una grotta, e la grotta era per i popoli precristiani il simbolo del Cosmo. Non a caso le grotte venivano considerate, nell’antichità, luoghi di culto e di iniziazione: in esse la cultura classica ha fatto nascere Mithra e Dionisio, dèi famosi per aver avuto il dominio sugli uomini, e quindi considerati “salvatori”.
E Gesù che nasce in una mangiatoia è il salvatore. Con il suo “essere uomo” ha indicato valori e modelli di vita che vanno in direzione della giustizia e della fratellanza. “Essere uomini” è la chiave della salvezza, e quindi anche della salvezza dei nostri paesi, delle nostre comunità.
Ma per essere uomini occorre riappropriarsi della dignità ed esercitare la libertà contro ogni forma di oppressione e di miseria, sia morale che materiale. È questa l’unica strada che ci porta alla salvezza. Consapevoli che nessuno può più aiutarci ad uscire da questo limbo, se non siamo noi stessi gli artefici della nostra storia. Karol Wojtyla ci ha insegnato che il primo soggetto di ogni cambiamento sociale e storico è l’uomo. Percorrere questa strada…
Per Natale, è questo il miglior regalo che noi possiamo fare al nostro paese e ai nostri figli.
di Armando Orlando