Colle “Sabazio” (1) e fiumi ”Savuto” (1) e “Grande”: sono qui i confini dell’antica città di Terina.
Terina (Terenewn), antica città della Magna Grecia (Megalh Ellas), di cui ancora oggi non si è individuato con certezza il sito, al punto che il toponimo ha subito e continua a subire frequenti operazioni di riubicazione onomastica in svariate località della Calabria dichiaratesi sue legittime eredi, può vantare, contrariamente alla penuria di emergenze archeologiche, plurimi riferimenti storici dovuti a scrittori, storici e geografi, che vi hanno fatto riferimento. La penuria di testimonianze, provenienti da campagne archeologiche, ha creato negli studiosi moderni molteplici, e a volte ingiustificate, diffidenze nei confronti delle testimonianze scritte pervenute sino a noi, come se la storia dovesse essere edificata, solamente ed esclusivamente, sulle testimonianze che provengono dalla archeologia, accantonando quelle degli storici di tutte le epoche che pure sono numerose. Che l’archeologia sia una scienza importante non può essere da alcuno revocato in dubbio, ma occorre precisare come essa abbia, rispetto alla storia scritta, una funzione essenzialmente deuteragonista, rappresentando, in molti casi, un riscontro oggettivo dei fatti narrati e, comunque, questi due rami della scienza si articolano su un piano di complementarità interdisciplinare.
Sebbene ci si renda conto che posizionarsi nella convinzione della supremazia scientifica dell’archeologia, rispetto alle notizie tràdite con la scrittura, sia un atteggiamento paradossale, pur tuttavia, la maggioranza degli studiosi si trova ad essere appostata scientificamente su questo che oramai, sebbene evidentemente riduttivo ed errato, è diventato un teorema e, cioè, che in assenza di riscontri archeologici, il racconto dei fatti non può qualificarsi storico, bensì mitologico. Il risultato che genera questo modo di pensare è quello in forza del quale, con frequenza sempre più diffusa, l’indagine finisce con subire influenze campanilistiche e, a volte, utilitaristiche, lasciate al libero arbitrio di singoli, che diventano autori di corollari non condivisibili.
Ognuno di noi, è evidente, ha il dovere di riportare a beneficio degli altri, che sono liberi di dare vita a un giudizio autonomo purché espresso entro le regole, quelle che sono e sono state le nostre esperienze, non già per parlare ex cathedra, ma solo per offrire un’occasione in più di ragionamento.
Era il 1994, quando vide la luce editoriale il nostro studio su Temesa, l’altro insediamento urbano della Magna Grecia, destinatario della medesima sorte di Terina (Temya-Temhsh, Memorie storiche sull’antica città di Temesa, con particolare riguardo alla individuazione del suo sito, Edizioni Brenner, CS), nel quale abbiamo indicato, avvalendoci soltanto delle notizie escerpte dagli scritti di storici, geografi e scrittori in genere, quale fosse la zona della Calabria da indagare per portare alla luce i resti dell’insediamento.
A distanza di una decina di anni, il professore Gioacchino Francesco la Torre, effettuando degli scavi mirati in contrada Imbelli di Campora San Giovanni, frazione amministrativa di Amantea, ha individuato, a conferma della funzione di supporto collaborativo della archeologia rispetto alla storia, il sito a lungo ricercato.
Nei tempi andati, a contendersi l’eredità onomastica dell’antica Terina sono stati svariati siti topografici della Calabria e ciò, comprensibilmente perché, a causa e in dipendenza della ricchezza numerica e della qualità delle antropizzazioni relitte dalla colonizzazione dei Greci in questa Terra calabra da loro prediletta, i siti in contesa successoria sono stati davvero innumerevoli.
La concomitanza topografica degli insediamenti ha, spesso e volentieri, creato confusione e scambi di identità, generando infinite diatribe, il più delle volte in dispregio di ogni logica e di ogni dato storico. Così, la successione ereditaria di carattere onomastico dell’antica Terina, che è stata città asseritamente marittima (polis paraqalassidia) è stata contesa e rivendicata, addirittura da località montane della Calabria (per tutte, si ricordano Longobucco [Longus – Burgus] e Tiriolo [che qualcuno, per sostenere la superiore tesi, sostiene derivare da Teriniolo]).
Tuttora, in Calabria, le emergenze, in particolare litiche, della colonizzazione di Occidente da parte dei Greci, si rinvengono con una frequenza tale da potere tranquillamente considerare questa Terra, probabilmente a preferenza anche della Madre Patria dei colonizzatori (non senza un valido motivo indicata quest’ultima come Ellas, semplicemente la Grecia, da mettersi a confronto con l’insieme delle colonie [apoikiai] indicate come Megale Ellas, la Grande Grecia), un caveau privilegiato, nel quale, per secoli e secoli, sono state tesaurizzate le esperienze di vita civile, politica, bellica, artistica e religiosa dei colonizzatori ellenici.
Oggi, possiamo dire che la controversia successoria appare calamitata da due realtà antropizzate della Calabria, ossia Lamezia Terme e Nocera Terinese: Lamezia Terme, indica il sito dell’antica città nella Piana lametina, a Sant’Eufemia Vetere; Nocera Terinese lo pone, a qualche chilometro dal proprio insediamento, sul Piano di Terina (nel dialetto nocerese, ‘u chianu de Tirene che, per questo, ha patito molteplici corruzioni linguistiche, come “Piano della Tirena” [Orsi], “Piano della Tirrena” [Topa], “Piano di Tirina” [Ciaceri, il quale ultimo riporta altre curiose accezioni riferibili, anche, per pura assonanza, al mare Tirreno] quando è evidente che il dialettale “Tirene”, non rappresenti altro che una forma ipocoristica di origine demotica di “Terina”).
1) Lamezia Terme
Lamezia Terme è diventata una zona privilegiata da parte degli organi statuali, con competenze territoriali regionali, preposti alla ricerca, evidenziazione, studio e conservazione delle vestigia archeologiche del territorio della Calabria.
Le esplorazioni archeologiche mirate nella zona della Piana di Lamezia, timide e incerte all’ inizio, sono sfociate, con il trascorrere del tempo, in vere e proprie campagne archeologiche, reiterate periodicamente, che hanno impegnato i fondi statuali per milioni di euro in rapporto di evidente sproporzionalità, sia per i risultati conseguiti, sia per l’evidente preferenzialità rispetto agli altri siti archeologici.
Malgrado il notevole impegno finanziario profuso, non esiste, ribadiamo non esiste, un solo reperto archeologico che dia la prova provata, al di sopra, cioè, di ogni ragionevole dubbio, che il sito lametino sia proprio quello su cui era ubicata l’antica Terina, e non sia, invece, una indebita appropriazione onomastica della scomparsa città megno-greca.
Nel 1865, a sud di Sant’Eufemia, in località Terravecchia, fu rinvenuto il c.d.
tesoro di Agatocle, un ripostiglio monetale d’argento calendabile intorno al 400 a. C., contenente, fra le altre, ventisette monete contraddistinte dal logos Terenewn, il che ha indotto i sostenitori di Terina, posta nella Piana, a ritenere tale rinvenimento la prova di tale sostenuta ubicazione.
Per la migliore intelligenza dei fatti esposti e per determinare un orientamento di chi legge, corretto e ortodosso, occorre evidenziare che le ventisette monete di Terina rinvenute erano in buona e copiosa compagnia, nel senso che esse erano frammiste a molte altre che recavano sul recto i logoi attribuibili ad altre città della Magna Grecia e, quindi, provenienti da altre zecche italiote, di cui si indica qui appresso il riferimento politico con il numero di pezzi rinvenuto: Taranto (20), Metaponto (13), Poseidonia (7), Sybaris (4), Caulonia (7), Velia (16). Tra tali monete, facenti parte del richiamato ripostiglio, si contano ben 38 di Thurii e altre 38 di Crotone e ciò contro le 27 di Terina.
Posto quanto precede, non si comprende in base a quale ragionamento logico la presenza, fra l’altro, numericamente minoritaria delle monete terinee rispetto a quelle di Thurii e Crotone, possa supportare l’ipotesi che, nel luogo del ritrovamento monetale, ossia la Piana di Lamezia Terme, fosse situata l’antica Terina.
Non ci si può esimere dal fare una considerazione, che é connotata e alimentata dalla comune, giornaliera esperienza, che dovrebbe essere patrimonio empirico di quivis de populo e, dunque, anche di chi sostiene la collocazione della città scomparsa nel sito della Piana, basandola su tale ritrovamento.
Più che l’esistenza in loco di una zecca e, quindi, l’esistenza di un insediamento antropizzato titolare di essa, il ritrovamento di un ripostiglio monetale, a seguito di una da noi già esaminata probabilità matematico-statistica riguardante altri siti, è rappresentativo del luogo di spendita delle monete, a seguito e a corrispettivo di normali rapporti di transazioni negoziali, anziché di quello di coniazione delle stesse, come appare dimostrato dai ritrovamenti monetali riferibili a molteplici zecche italiote. Si tenga presente che, nel caso all’esame, la distanza miliare tra il Piano di Terina e Santa Eufemia Vetere era pressoché copribile, percorrendo la via Popilia, circa in meno di sei-sette ore di cavallo e, quindi, i rapporti commerciali tra i due siti dovevano essere piuttosto intensi, considerate, soprattutto, la conformazione topografica pianeggiante, l’ubertà della terra, la ricchezza ed abbondanza delle acque fluviali, la navigabilità e pescosità di alcuni corsi d’acqua (ex multis, ricordiamo l’ Wkinarws [oggi Savuto]), la realizzazione della via Popilia, tuttora esistente in molti tratti, nonché, e non certo per ultimo, l’immediato affaccio sul mare Tirreno (topos paraqalassidios), sia del Piano di Terina, che di Santa Eufemia Vetere, allocati entrambi, nell’incantevole golfo di Terina (Terinaiwn megale kolpos, in seguito indicato da Plinio come ingens sinus terinaeus e, ai giorni nostri, Golfo di Sant’Eufemia Lamezia), il cui bellissimo mare, osservato al tramonto dal figlio di Ulisse, Telemaco, al quale Minerva aveva conferito le sembianze di Mente, re dei Tafi perché non fosse riconosciuto mentre si recava a Temesa, venne definito da Omero, del colore del vino (oinopota). E’ evidente che la posizione marittima consentiva lo sviluppo di rapporti commerciali anche via mare, con minore dispendio di tempo e di fatica.
Non è certamente superfluo rammentare che sembra ormai pacifico tra gli studiosi che il tratto di costa calabrese, secondo la descrizione che ne fa Omero nell’Odissea, comprendente in particolare gli insediamenti di Nocera Terinese, Falerna, Gizzeria, Lamezia Terme, Curinga, sia la Terra dei Feaci, allora denominata SCHERIA e oggi, a far tempo dal 2018, Riviera dei Tramonti, dove Ulisse approdò ed ebbe, così, modo di conoscere la giovane Nausicaa, suo padre, re Alcinoo e l’ ospitalità sacrale dei Feaci, tuttora praticata, esattamente come ai tempi di Omero, da quelle genti di Calabria.
Se i luoghi vengono descritti nel modo come sopra illustrato, è consequenziale che la Piana, oggi detta di Lamezia, fosse interessata ad una ben fondata vivacità commerciale, sia tra le popolazioni residenti e limitrofe, sia tra queste ultime e quelle alloglotte come i Tafi. Nessuna meraviglia, dunque e in conclusione, che ventisette monete con il logo di Terina siano state rinvenute nella Piana lametina. Quello che, al contrario, suscita meraviglia sono le deduzioni tratte da tale rinvenimento.
A questo punto appare naturale chiedersi come mai coloro che sostengono essere il sito lametino legittimo erede di quello terineo, non sostengano che Sant’Eufemia Vetere sia l’erede di Thurii oppure di Crotone, visto e considerato che le monete ritrovate portanti i logoi di queste due città ammontano a trentotto per ognuna di esse.
Altri rinvenimenti archeologici avvenuti nella Piana lametina, sia pure di ottima fattura orafa (come una parure di cui rimane tuttora sconosciuto l’atelier artigiano, anche se, personalmente, propendiamo per quello tarantino; un’idria istoriata di fattura campana; altro ripostiglio monetale rinvenuto occasionalmente da tale Rocca Giuseppe in contrada Acquafredda di Sambiase; la tabelletta testamentaria in rame del IV sec. a.C.), non danno la prova provata che nella zona della Piana indagata sia stata allocata la città di Terina.
Il Piano di Terina, posto nella marina di Nocera Terinese, venne ritenuto, come approdo scientificamente incontrastato sino alla prima metà dell’800, il sito dove sorse la città di Terina e questo, fin quando Francois Lenormant, essendo ospite in Nocera Terinese della famiglia Ventura, proprietaria del Piano, venne accompagnato da un membro di essa in Campodorato (Campo di Arata) e da lì, da dove la visione era lontana e uniangolare, gli venne mostrato, in lontananza, il Piano, con la ciceroniana aggiunta che era il sito della scomparsa città magno-greca. A quella notizia e con una presunzione senza precedenti, scevra, soprattutto, da venature scientifiche, l’archeologo francese affermò che quello non poteva essere il sito di Terina per almeno due motivi molto semplici ed evidenti. Terina era una città marittima, lambita dalle acque del mare Tirreno, mentre la località indicata in lontananza dal membro della famiglia Ventura, distava parecchi chilometri dal mare; non solo questo, quanto, secondo la circostanza tràdita da Strabone, il colle sul quale era posizionata Terina era lambito molto da presso da due fiumi, l’Ocinaro e il Grande. Poiché, dalla visione dei luoghi di osservazione del Lenormant il mare Tirreno si trovava ad una distanza considerevole dal colle e quest’ultimo era lambito da un solo fiume (n.d.a.: in considerazione della posizione del punto visuale – zona di Campodorato- si trattava del fiume Grande essendo l’Ocinaro posizionato al di là del colle), per questi motivi, e non per altro, era da escludersi, affermò pieno di sé il francese, che quello indicato potesse essere il sito sul quale era stata edificata ed era prosperata la città magno greca. Uno dei primi ad essere affascinato dalla presunzione di Lenormant fu Paolo Orsi, seguito, in prosieguo, da altri studiosi. Tuttavia, la maggiore e più qualificata schiera di studiosi (ex plurimis, ricordiamo: Barrio, Marafioti, Fiore, Grimaldi, Pagano, Amato, Quattromani, Cluverio, Bisogni) continuò a ritenere che l’antica fondazione crotoniate fosse da ritenersi allocata nel territorio di Nocera Terinese, sull’omonimo Piano.
Se il Lenormant avesse letto Gabriele Barrio (Antichità e luoghi della Calabria, ed. Brenner 1979, dall’antica edizione del 1737, quindi già esistente ai tempi del Lenormant) non sarebbe certamente inciampato in quel suo grossolano ed elementare errore:
“Presso il mare sono visibili (oggi non esistono più-N.d.A) le vestigia della città di Terina. Il luogo di Terina è alto, d’ogni parte circondato da rupi; ivi continuamente spirano benigni venticelli; la pianura è capace di una città abbastanza grande; vige un clima amenissimo e saluberrimo, dista da Amantea dodicimila passi…Fu distrutta dagli Agareni al tempo del beato Nilo (910-1004)… Il fiume una volta detto Ocynarus scorre nei pressi di questo colle Sabazio, le cui radici il mare bagnava, ma di recente si è ritirato un poco e à lasciato in secco lo scoglio di Terina, ricordato da Plinio che i naviganti chiamano Nave”.
Tra il colle Sabazio e Amantea intercorrono dodicimila passi! Dove era, dunque, ubicata Terina? Alla Piana oppure al Piano?
Proseguendo il viaggio, Francois Lenormant sentenziò che Sant’Eufemia Vetere fosse il vero luogo di Terina.
Come già detto, Lenormant fu di una presunzione senza precedenti. Come è risaputo e come è confermato dall’esperienza, le convinzioni errate e quelle distorte hanno maggiore fortuna di quelle vere e scientifiche (si pensi, per esempio, ai termini siciliani di “Castello Ursino” e “Palazzo Steri”. Trattandosi di corruzioni linguistiche di natura demotica, non significano proprio niente, eppure resistono imperterriti da secoli dopo avere abolito la denominazione originaria e averne occupato il posto).
Certamente a motivo del suo narcisismo intellettuale, Lenormant inciampò in due errori madornali, talmente grossolani da lasciare perplesso chiunque abbia anche una piccola cognizione del problema.
a) Quando il francese ebbe a visitare i luoghi in Nocera Terinese, il mare si era ritirato di alcuni chilometri dalla sua primitiva battigia (V-IV sec. a. C.), che arrivava, in origine, sullo sperone del Piano che guarda proprio verso il Tirreno, lasciando scoperte quelle che divennero, in seguito, le terre, di natura alluvionale, dette di Sciabica, di proprietà, per la maggior parte, del marchese De Luca. Dal momento della deduzione della colonia terinea da parte dei Crotoniati, il mare si è ritirato di parecchi chilometri. Al momento della sua visita il Lenormant avrebbe dovuto tenere presente tale fenomeno di retrocessione delle acque marine dalla terra, essendo fenomeno comune alla maggior parte delle coste. Ritirandosi, da quello che da noi è stato denominato lo Scopulus terinaeus (corrispondente allo sperone del Piano verso il mare), le falde del Piano, un tempo sommerse, erano riemerse. Il francese avrebbe dovuto riflettere sulla circostanza che, dopo svariati secoli, il mare si era naturalmente allontanato dal Piano, come sicuramente ha fatto anche nella zona della Piana lametina.
A sostegno di quanto sopra affermato, il nostro ricordo personale, riferito agli anni 1952-1953, al tempo della nostra fanciullezza, la battigia del mare di Nocera Terinese si trovava molto avanzato verso l’entroterra e più vicino al rilevato ferroviario di quanto non lo sia attualmente. Ricordiamo, anche, che nostro nonno, Michele, ci diceva spesso di avere visto personalmente, sui fianchi del Piano di Terina, in prossimità della sua base, parecchi ed enormi anelli di acciaio, infissi in una muraglia, che erano serviti per l’attracco delle navi. Naturalmente, oggi non esistono più.
b) Dalla posizione dalla quale Lenormant ha osservato il Piano di Terina, poteva essere intravisto, come già accennato, solo il fiume Grande (quello che Ignazio Ventura, nel suo Nocera Terinese, storia di una terra di Calabria, ritenne erratamente essere l’Ocinaro) e non anche l’Ocinaro, la cui visione era, naturalmente, impedita dalla presenza del colle Sabazio posizionato tra l’osservatore, Lenormant, e il fiume medesimo.
c) Quando, poi, Lenormant indica il sito della città di Terina, ubicandola nella Piana lametina, non si accorge come, anche in relazione al punto da lui prescelto senza alcuna indagine, possa essere avanzata la medesima eccezione da lui dedotta per il Piano di Nocera Terinese (eccessiva distanza del sito archeologico dal mare che non trova conciliazione con una città definita paraqalassidios), con l’aggravante, per giunta che, in questa seconda ipotesi e per la particolare conformazione topografico-altimetrica, oltre alla notevole distanza dal mare già esistente nel secolo ’800 (cosa che avrebbe dovuto indurre Lenormant a depennare quel sito dall’elenco delle città marittime, così come aveva fatto frettolosamente a Nocera Terinese), il sito lametino nel V-IV secolo a. C., epoca di deduzione della sub-colonia terinea, con molta probabilità, doveva trovarsi sommerso dalle acque del Tirreno.
Come si vede, nessuna certezza, né di natura archeologica, né, tanto meno, di natura storica, esiste in virtù della quale da parte di qualcuno si possa affermare, senza l’ombra di alcun dubbio, che Sant’Eufemia Vetere sia il luogo che nel secolo V-IV a. C. vide la fondazione della città di Terina ad opera dei Crotoniati.
Noi, in tanti anni, nei quali ci siamo dedicati allo studio di questo problema, non abbiamo mai sostenuto, né sosteniamo adesso, che il sito della Piana lametina non meriti alcuna attenzione scientifica; ciò esula dalle nostre corde naturali, essendo la Piana un luogo della Calabria che ha vissuto una intensa storia antica e ciò è sufficiente per attribuirci un senso di rispetto. Ciò che intendiamo ribadire, con convinzione, è che Sant’Eufemia Vetere non è, né può essere, Terina; essa ha certamente un’altra storia, nobile e memorabile, ma diversa da quella di Terina, perché è evidente che non è la sua legittima erede.
La Piana ha avuto una importanza grandissima nei tempi dei quali ci stiamo occupando: la Piana è, però, Aquae Angae; la Piana è, però, Ad Turres; la Piana è, però, parte importante della Scheria, la terra di Alcinoo e Nausicaa; la Piana è, però, Neocastro; la Piana è tutto questo, ma non è Terina.
2) Nocera Terinese
Uno degli argomenti, che vengono comunemente addotti a sostegno della tesi, per la quale Sant’Eufemia Vetere è il sito dell’antica Terina, è costituito dal rilievo di una circostanza negativa per il sito del Piano di Terina (‘u chianu de Tirene), sul quale non sono stati rinvenuti reperti archeologici che, al contrario, sono stati rinvenuti, in modo così copioso come abbiamo sopra accennato, nella Piana di Lamezia. Per ciò stesso, il Piano nocerese non può essere Terina, perché se lo fosse stato realmente, avrebbe restituito tali e tante di quelle testimonianze archeologiche da riempire l’intero Museo di Reggio Calabria.
L’osservazione, manco a dirlo, non appare affatto pertinente e, per questo, va disattesa. La realtà è, infatti, ben diversa.
Non è che il Piano di Terina non abbia restituito alcun reperto archeologico; la verità vera è che chi avrebbe dovuto farlo, non ha giammai pianificato e intrapreso una sola, ribadiamo una sola, campagna di scavi scientificamente seria.
Come poteva, ci chiediamo, il Piano di Terina donare alcun reperto in mancanza di qualsiasi politica di scavi, i cui supporti finanziari sono stati tutti profusi in favore di altre aree archeologiche che si attribuiscono definizioni anagrafiche senza avere giammai effettuato un serio esame del dna che ne stabilisse la paternità?
Questo argomento é costituito da una osservazione che non regge.
Esso avrebbe certamente avuto migliore sorte logica ove entrambi i siti archeologici, la Piana e il Piano, fossero stati oggetto, da parte degli organi statuali preposti, con competenze regionali, alla ricerca, escavazione, conservazione e studio del patrimonio archeologico tramandatoci dal passato remoto, al fine di conoscere chi siamo stati in tali epoche.
Evidentemente non è andata proprio così. Quando nelle famiglie vi sono i figli prediletti, quelli che tali non sono, diventano reietti.
Mi consta personalmente, per averlo appreso direttamente in loco,che le donazioni repertali (si tratta realmente di veri e propri regali spontanei in assenza di qualsiasi impegno mirato al loro rinvenimento), offerte dal Piano sono state sempre copiose e importanti sotto il profilo archeologico. Solo che esse sono avvenute per casi fortuiti, occasionalmente, per la maggior parte di essi, a seguito di lavori di privati finalizzati alla zappatura, sarchiatura e dissodamento del terreno per finalità agricole. Famosissimo a Nocera Terinese (noi avevamo tredici anni), perché correva sulla bocca di tutti i Noceresi, il ritrovamento di un idoletto tutto dorato di una bellezza rarissima, rinvenuto per caso da un agricoltore, che lo portò, si disse, in dono ad un prete della zona. E’ risaputo, per esperienza comune, infatti, come i ritrovamenti avvenuti per caso non vadano a finire certamente nei musei, ma, quando va bene, in collezioni private.
Nicola Leoni (Della Magna Grecia e delle tre Calabrie), sub voce NOCERA, in riferimento al Piano di Terina, così ne scrive:
“Varie Anticaglie risparmiate dal tempo, non lunghi avanzi di antichi muri, poche reliquie di templi, idoli di bronzo, pietre improntate di varie figure e di colori diversi, piccoli pezzuoli di bassi rilievi, e di pavimenti a mosaico, globetti di vetro, lance infrante, e corazze, avanzi di sepolcri, e di urne, qualche moneta con l’impronta TERINAIWN, ritrovati a quando a quando tra le svolte zolle a poche miglia da Nocera sono non incerti argomenti pel saggio archeologo di riconoscer quivi le ruine di TERINA, antica città bruzia…Licofrone nella sua Cassandra, vuole che non lungi da Terina sia stata seppellita la Sirena Ligea…Da una lapida ritrovata lungo il fiume Savuto con l’impronta di questa epigrafe greca LIGEIA QANEI Z. D. P., se ne potrebbe almeno trarre qualche congettura.”
Dunque, anche, al tempo del Leoni, il colle Sabazio continuava a dare segnali ben visibili, eloquenti e importanti di ciò che esso custodiva nel suo ipogeo, ma tutti, compresi quei rami della pubblica amministrazione che venivano retribuiti proprio per questo, hanno disinvoltamente volto lo sguardo altrove, verso la Piana.
L’ultimo caso avvenuto a Nocera Terinese, che si pone nella falsariga di quelli di cui sopra si è detto, è costituito dal rinvenimento, avvenuto nel suo territorio in località Portavecchia (così detta da secoli, perché costituiva, illo tempore, il punto di accesso più naturale e agevole alla città posta sul colle Sabazio) di una importante ed estesa necropoli greca, venuta alla luce, quasi per non contraddire la consolidata tradizione dei mancati ritrovamenti sul Piano di Terina, per pura e fortuita occasione, durante i lavori di ammodernamento dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. Nell’immediatezza del rinvenimento, dipendenti del ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio, in simbiosi con altri del ministero dei Beni e delle Attività Culturali, dichiararono essere i reperti di grande ed indiscussa importanza storico-archeologica, ma nessuna precauzione venne presa per la custodia dei luoghi ove le tombe, di cui molte erano state scoperchiate, furono lasciate senza custodia alcuna, alla merce di chiunque volesse appropriarsi dei corredi funerari. Ancora oggi, noi sconosciamo il luogo custodiale, gli esiti scientifici conseguiti e, in ipotesi di classificazione dei materiali, se siano stati o meno attribuiti, come locus inventionis, al territorio di Nocera Terinese.
Come già detto in precedenza, nessuno dei due siti (Nocera Terinese e Lamezia Terme), candidati alla successione legittima, sia onomastica che storica, possiede la prova, certa e definitiva, di essere l’erede della de cujus città scomparsa: mancano ad entrambi i riscontri archeologici. Uno dei due siti, però, e cioè quello nocerese, vanta a suo favore, sia una più copiosa letteratura, pervenuta anche da tempi lontani, la quale lo indica quale sito della scomparsa città magno greca, puntando il dito verso il colle Sabazio e il Piano di Terina, sia il riscontro, a suo favore, di molteplici dati storici concordanti, che saranno esaminati qui, secondo la successione numerica che segue:
I) Terina, secondo l’affermazione dello storico Strabone, era lambita da presso da due fiumi: l’Ocinaro (oggi Savuto) e il Grande, che ha mantenuto tale denominazione.
L’Ocinaro, secondo la descrizione che ne fanno anche altri storici, era talmente turbolento e frastornante da essere stato posto sotto l’egida protettrice di Ares (dio della guerra del Panqeion [Panteon] greco), in Occidente conosciuto come Marte. Lo stesso idronimo (Wkinarws, termine formato da oku [avverbio=velocemente]) e naros [verbo da naw=scorrere], quindi che scorre velocemente) testimonia, ove ve ne fosse necessità, quale fosse la caratteristica saliente del corso d’acqua; caratteristica, questa, che connota gli attributi del Savuto, i quali, all’epoca di riferimento, erano certamente più accentuati.
Questi due fiumi, dei quali si sono occupati gli storici in modo unanime, vengono da essi descritti come lambenti i fianchi del colle Sabazio (alla sommità del quale si trova il Piano di Terina) e talmente vicini tra loro da sembrare un unico corso d’acqua, che si divida in due rami a causa dell’ostacolo del colle stesso, a guisa del fiume Tevere, laddove, nella città di Roma, incontra l’isola Tiberina.
Nel 2010 ha visto la luce il nostro Lukofrwn kai Wkinaros, Licofrone e il fiume Savuto (Ma.Per.Editrice), nel quale abbiamo ipotizzato che, con moltissima probabilità, Licofrone ebbe a scorgere i luoghi di Terina sul colle Sabazio, dal mare, al punto che non percepì che a lambirne i confini fossero due fiumi, ma uno solo, l’Ocinaro, che, a causa del colle, si divideva in due rami, sfociando, poi, in mare. Ciò abbiamo dedotto dall’appellativo che l’Autore attribuisce al fiume, chiamandolo boukeros. Questo termine della lingua greca è stato tradotto, da parte di tutti i linguisti che se ne sono occupati, nel modo seguente: “dotato di corna di bue”, a causa del grande strepito prodotto dalle acque del fiume, paragonabile allo strepito similare prodotto da una mandria di buoi in movimento.
La traduzione appare assolutamente scorretta, sia perché non ci risulta che una mandria di buoi in movimento faccia strepito con le corna (lo strepito, semmai, è prodotto dagli zoccoli e potrebbe essere prodotto dalle corna, ove gli animali cozzassero tra loro ma, è superfluo evidenziare, come una mandria in movimento mantenga i singoli individui non in posizione frontista, corna contro corna), sia perché il termine boukeros si compone di due elementi: bou=bue e keras=corna, con il corretto significato finale di “a forma di corna di bue”.
Se, tornando indietro al capoverso di questo periodo, si pone mente che si è ipotizzato che Licofrone abbia visto i luoghi osservandoli dal mare e abbia creduto trattarsi, non già di due corsi d’acqua lambenti il colle, ma di uno soltanto, l’Ocinaro, il cui corso, a causa della presenza dell’ostacolo orografico, si trovava ad essere diviso in due rami. Questo potrebbe spiegare perché mai Licofrone ritenne (il solo tra quelli che nominarono questo fiume) il corso d’acqua “a forma di corna di bue”.
Si rammenta a noi stessi che, per indicare una foce “a delta” (malgrado tale definizione odierna derivi proprio da una lettera dell’alfabeto greco), la lingua greca antica non conosceva un termine ad hoc.
E’ evidente, come si può intuire da quanto abbiamo scritto sopra, che la presenza dei due fiumi, posizionati nel modo descritto, costituisca una caratteristica precipua e rara del sito, che lo rende unico, e difficilmente riproducibile in copia, in tutta la Calabria.
I sostenitori del sito lametino, al fine di conferire credibilità storica alla loro tesi, ritengono che i due fiumi siano l’Amato e lo Zinnavo (a volte, anche qualche altro) ma, a dire il vero, non insistono tanto in tale indicazione, rendendosi conto che i due corsi d’acqua indicati non possiedono le caratteristiche topo-idrografiche necessarie per essere gabellati per i descritti due corsi d’acqua che lambivano (lambiscono ancora) il colle Sabazio. L’Amato dovrebbe, in sostanza, essere l’Ocinaro descritto da Licofrone, ma, evidentemente, esso non ne ha le caratteristiche, anzi è la negazione della struttura idrologica descritta da Licofrone: l’Amato è sonnolento, silenzioso, quasi malarico con l’acqua che di malavoglia avanza verso il mare e, quasi con verecondia, copre i suoi margini con canne ed arbusti; lo Zinnavo è poco più di un ruscelletto, per non sottolineare, poi, che le distanze tra questi due corsi fluviali sono tali da doversi escludere che esse possano essere una evidente e peculiare caratteristica topografica di Terina, come, al contrario, si verifica per Terina posta sul colle Sabazio.
Se prendessimo quale termine di paragone la distanza esistente tra l’Amato e lo Zinnavo, dovremmo necessariamente concludere che, per la particolare conformazione orografica della nostra Terra, non vi sia paese in tutta la Calabria che non sia posto tra due fiumi, il che renderebbe nulla la peculiarità descritta dagli storici. Terina, posta sul colle di Terina o colle Sabazio, era unica in tutta la regione, proprio come, torniamo a ripetere, l’Isola Tiberina. D’altra parte, i luoghi descritti di Nocera Terinese sono rimasti, dal punto di vista topografico, tali e quali essi erano nei secoli avanti Cristo. E’ diminuita, soltanto, la portata d’acqua dei fiumi e non c’è più Terina, distrutta per ben due volte, da Annibale, che la rase al suolo (solo aequavit) e dai Saraceni, che costrinsero gli abitanti a fuggire verso l’interno fermandosi e attestandosi alla Motta, primo nucleo urbano di Nocera Terinese.
II) Se spostiamo Terina nel Lametino e ci riferiamo alle distanze in miglia romane tra le ultime due mansiones dei territori interessati, Ad Sabatum flumen (Martirano Vecchio) e Ad Turres (Caronte fiume) le distanze miliarie non tornano più. I magistri viarum romani erano inflessibili nel pretendere che le distanze tra le mansiones, stationes e mutationes non dovessero superare le venticinque miglia di Roma (un miglio romano= m. 1.481) e ciò per consentire al peregrino (colui che andava per agros e, quindi, indica il viaggiatore, in genere) di partire da una mansio e giungere a quella successiva con la luce del giorno: con una giornata di cavallo ciò era possibile. I Romani evitavano di viaggiare di notte. L’unico episodio che conosciamo di un viaggio notturno fu quello intrapreso da Cicerone, costretto a fuggire da Roma per salvare la sua vita: in questo frangente imprevisto il grande avvocato romano fu costretto a munirsi di un servus prelucens che, di corsa e con una torcia accesa in mano, precedeva la lettiga. Cicerone, però, era nelle condizioni economiche di potere adibire un prelucens, ma non tutti potevano farlo.
Orbene, se sul percorso Ad Sabatum flumen–Ad Turres si fosse trovata la città di Terina, ubicata sul Piano di Terina sul colle Sabazio, ossia in un punto del tragitto che ne decurtasse il percorso, il problema sarebbe stato automaticamente risolto, anzi non si sarebbe posto affatto. Se, al contrario, noi poniamo Terina nella Piana, a Sant’Eufemia Vetere, la distanza tra le due mansiones risulta eccessiva per le ragioni sopra evidenziate.
Ma le incongruenze derivanti dal collocamento di Terina a Sant’Eufemia Vetere nella Piana lametina, non si limitano soltanto a quelle sopra esposte.
Non ci è mai capitato di rinvenire tra tutti gli storici, geografi e scrittori in genere, che abbiamo consultato e che si sono professionalmente occupati della zona che va da Clampetia (Amantea) a Hipponion (Vibo Valentia), uno solo che abbia mai nominato, alludendo alla loro contiguità, Terina e Ad Turres, Terina e Aquae Angae non fosse altro che per avere la soddisfazione di smentire lo storico Strabone.
Se fosse corretta la tesi del sito lametino, come è possibile, ci si chiede, che scrivendo della sub-colonia crotoniate non si sia fatto mai riferimento alcuno alla mansio di Ad Turres, oppure alle terme di Aquae Angae, così vicine territorialmente da essere quasi coinquiline, così come, al contrario, è avvenuto per Terina e Temesa?
Come è possibile, ci si chiede, che scrivendo di Ad Turres, oppure di Aquae Angae non si sia mai accennato alla “vicinissima” Terina, sita a Sant’Eufemia Vetere, così come, al contrario, è avvenuto per Terina e Temesa?
Come è possibile, ci si chiede ancora, che Annibale, quando decise di livellare al suolo la città di Terina, non degnò di uno sguardo neppure uno dei due siti vicinissimi di Ad Turres e Aquae Angae ?
E, quando i Saraceni decisero di distruggere, e distrussero, Terina e i Terinei superstiti furono costretti ad abbandonare la loro città, i superstiti in quale altro sito lametino andarono a ricollocarsi?
Certamente, non decisero di scegliere, come nuova casa, la collinetta alle falde del monte Mancuso dove nacque Nocera Terinese : troppo lontana da Sant’Eufemia Vetere!
Dunque, quali sono le conclusioni a cui approdare?
Ognuno dei lettori è certamente libero di rispondere alle domande precedentemente poste. Noi, al contrario, ci avvaliamo della facoltà di non rispondere, preferendo tenere per noi le idee che sono nostre.
D’altra parte, anche se rivolgiamo l’attenzione verso quello che è stato, ed è, il centro più calamitante della Piana, ossia Nicastro, ci accorgiamo che esso naviga nella più assoluta incertezza anche per gli scrittori locali.
Da Giovanni Maruca (Raccolta di notizie storiche sulla città di Nicastro, Ed. Brenner) escerpiamo quanto segue:
“Il primitivo nome della città fu il greco latino Neocastro che vale Nuova Città (sarebbe più corretto dire Nuovo Accampamento-N.d.A), e quando essa sia sorta e a quali delle antiche città sia subentrata, se a Numistro, a Lissania oppure a Lamezia, non si potette precisare da scienziati concittadini che lo tentarono cò lodevoli loro lavori poiché l’oblivione del tempo nasconde ogni avvenimento”.
E ancora:
“…Quando la città di Nicastro passò dalla signoria dei Caracciolo di Avellino a quella dei d’Aquino, i nuovi signori abrogarono tutte le concessioni fatte dai Caracciolo e, inoltre, stabilirono che la città venisse governata dalla Camera Baronale… La Camera Baronale risiedeva a Nicastro che venne dichiarata nelle Pandette cittadine capitale dei Feudi dei Caracciolo e cioè il Contado di Nicastro, i ducati di Tirene, di Maida, d’Acconia e di Feroleto…”
In altri e più chiari termini, anche allora “Tirene” apparteneva ad una topografia geograficamente a se stante.
III) L’ultimo elemento, che riteniamo in possesso intrinseco di una capacità risolutoria definitiva, riguarda un passo di Strabone (Geographia), il quale, riferendosi alla città di Terina, la definisce sunekhs di Temesa. Il termine adoperato da Strabone non è altro, per i tempi della scrittura, che un vero e proprio neologismo, ottenuto tramite l’unione di sun (preposizione semplice=con) e di oikew (verbo=abitare) che dà origine, quindi, al termine composito di abitare assieme, coabitare.
Il termine è stato comunemente tradotto in latino (Plinio, per tutti) con l’aggettivo proxima (superlativo di prope=vicino e, dunque, vicinissima).
La frase per questo si completa nel modo seguente: “Terina è vicinissima a Temesa”.
Anche usando il superlativo di prope il senso, secondo noi, non viene reso appieno.
Per quale motivo, ci chiediamo, Strabone è ricorso alla coniazione di un termine, quando avrebbe potuto, anche lui, usare un superlativo della lingua greca?
Evidentemente, a suo giudizio, il superlativo non avrebbe reso la reale vicinanza tra Terina e Temesa, da qui la coniazione del neologismo, il quale, come già detto, vuol dire coabitare, vivere sotto lo stesso tetto, ossia, oltre che un concetto di vicinanza gomito a gomito, esprime,a nostro parere, un concetto di intimità, per così dire, familiare.
Secondo l’interpretazione da noi data in “Terhnewn, memorie storiche sull’antica città di Terina, Editrice Pungitopo (1984)” e in “Temya-Temhsh“ (citato supra), oltre alla traduzione che precede, abbiamo ritenuto che Strabone abbia voluto indicare con sunekhs anche una probabile provenienza originaria dei Temesini, proprio dalla città di Terina. Siamo stati spinti a tale interpretazione dalla considerazione che le bellissime monete di Terina siano state coniate dalle fonderie temesine. Ma questa è un’idea e solo un’idea che non va oltre il suo autore.
La cosa che, invece, si deve evidenziare è che se si sposta il sito di Terina dal colle Sabazio a Sant’Eufemia Vetere, Terina non potrà più essere considerata come sunekhs di Temesa e questo è un dato di fatto che non si può contraddire, soprattutto oggi.
Sul sito di Temesa, dopo gli scavi archeologici effettuati da Gioacchino Francesco La Torre in contrada Imbelli di Campora San Giovanni, comune di Amantea, non può residuare alcuna incertezza sulla sua ubicazione (incertezza, per la verità, che, come abbiamo già detto, noi non abbiamo mai avuto). Se, quindi, Temesa si trova lì dove è stato accertato che si trovi, come può tale insediamento essere ritenuto come sunekhs di Terina se noi andiamo a porre Terina nella Piana di Lamezia ?
Riteniamo che qualcuno dovrebbe spiegarci, in questo caso, l’abbaglio, troppo evidente, patito dallo storico Strabone, quando ha ritenuto di indicare il particolare rapporto metrico tra Terina e Temesa. Se Terina era a Sant’Eufemia Vetere, rapportandola al luogo ove è stata individuata la kwra di Temesa, avrebbe dovuto fare una affermazione esattamente contraria e, cioè, avrebbe dovuto scrivere che Terina (o Temesa) era lontanissima da Temesa (o da Terina).
O l’abbaglio non è di Strabone, bensì di qualche altro?
Uno dei rarissimi episodi, che noi ricordiamo per averlo appreso da fonti di informazione specifiche, che ha comportato l’effettuazione di un sondaggio sul Piano di Terina, si riferisce ad una aerofotogrammetria del Piano medesimo avvenuta alcuni decenni or sono, ad opera di Giorgio Gullini, docente all’Università di Torino.
Con la lettura del risultato aerofotogrammetrico si é accertato, senza ombra di dubbi o distorsioni meccaniche, che il Piano indagato presentava ben TRE stratificazioni insediative verticali, ad altezze variabili una dall’altra. Il responso del docente fu che le tre stratificazioni, verosimilmente, si riferissero a piani di antropizzazioni avvenute in epoche diverse, con sovrapposizioni a quelle precedenti e con edificazione di altre successive sui resti di quelle preesistenti.
Come ipotesi nostra personale (e ci teniamo a rimarcare che si tratta di una ipotesi) si potrebbe pensare ad una prima presenza antropico-insediativa di epoca preistorica; ad una seconda del periodo degli Ausoni o dei Bretti e, infine, ad una terza di epoca ellenica, fermo restando che il Piano non è stato, nell’antichità, mai abbandonato, tanto che, a seguito di un tentativo di escavazione archeologica, timidamente superficiale, sono venuti alla luce frammenti di ceramica di epoca medievale. Tale ultima circostanza convinse gli operatori dello scavo che era di tutta evidenza che in quel posto non poteva trovarsi Terina, essendo venute alla luce frantumi di emergenze repertali di epoca medioevale (1200-1300), per cui si procedette, con carattere d’urgenza (ma sarebbe più corretto dire in fretta e furia) all’interramento e non se ne parlò più.
Se si vogliono rinvenire le tracce dell’antropizzazione urbana riferentesi alla Terina del V-IV sec. a. C., lo scavo (che non può avere natura sporadica e prevenuta) dovrebbe comportare un serio impegno tecnico-professionale, in quanto, secondo una opinione scientifica da più parti affermata, riscontrata dall’esame aerofotogrammetrico del Gullini, dovrebbe raggiungere la profondità di sette-otto metri almeno.
Basterebbe, in altri termini, abbandonare questa forma di estrema prevenzione nei confronti del colle Sabazio e tutti quanti saremmo messi in grado di apprendere ciò che allo stato sconosciamo, arricchendo, così, il nostro bagaglio culturale.
L’ultimo e decisivo argomento a supporto della tesi che Terina era ubicata sul colle Sabazio, sul Piano che da essa, in prosieguo di tempo, venne denominato dalla tradizione popolare come “di Terina”, è costituito da due fonti scritte, autentiche e di natura pubblica, pervenute integre sino a noi.
La prima di tali fonti è costituita dal testo dell’Editto di Roberto d’Altavilla, detto il Guiscardo, che costituisce l’atto di fondazione dell’Abbazia benedettina di Sant’Eufemia (della quale fu primo abate Robert de Grandmesnil, parente alla lontana degli Altavilla) che conteneva anche la disposizione di infeudamento all’Abbazia di molte terre, a partire da quelle del vicino Neocastro e sino a “… territoria Veteris Civitatis infra duo flumina…“.
Orbene, se i beni infeudati dall’editto fossero quelli su cui sorgeva l’Abbazia, situati, cioè, nella Piana medesima,non vi era alcuna necessità di indicare i territori della vecchia città posta tra due fiumi, e ciò per la semplicissima ragione che, anche a quei tempi, i beni cosiddetti pertinenziali (appartenenti ad una costruzione abitativa, sia civile, che religiosa) non necessitavano di alcuna particolare esplicazione dello jus proprietatis, il quale era riconosciuto automaticamente, ipso jure.
E’ evidente, quindi, che l’ Editto emanato da Roberto d’Altavilla, alluda alle terre di Terina posta sul colle Sabazio, per il cui infeudamento all’Abbazia è stato necessario e imprescindibile adottare un provvedimento normativo ad hoc.
La seconda fonte scritta è costituita dal testo del Privilegium, tramite il quale Federico II ebbe a precisare quali fossero i beni infeudati alla stessa Abbazia, ampliandone i benefici e concedendo molti altri beni come si evince dalla lettera del documento ufficiale, di cui si riporta il luogo letterario pertinente ”…Terram nostram Noceriae, medietatem casalis Apriliani cum omnibus militibus, burgensibus et aliis omnibus franchis, villanis in eis morantibus, cum omnibus pertinentiis appendicis, juribus suis, praedicta permutatio cum consensu et voluntate praedicti conventus…Abbas humiliter supplicavit, quod cum dictus Mattheus tempore permutationis ipsius, Portum Maris, qui dicitur Navis de Arata de tenimento dictae terrae Noceriae cum predicta Terra, medietate ipsius casalis, praedicta quidem permutatio promissa, tamen quia sua interesse non dicebat dictum Portum, eundem Abbatem cum nostra speciali licentia, mandato, ut dictam Terram Noceriae, cum predicto Portu Maris, medietate praedicti Casalis Apriliani, prout provisum est, permissum per eundem Mattheum tempore permutationis ipsius eidem Abbati, Monasterio praedicto, succesoribus suis in perpetuum concedere firmare dignaremur. Nos autem quod praedictum Monasterium semper prosequi intendimus gratia, favore, volentes conditionem ipsius semper augere, facere meliorem de Imperialis benignitatis Gratiis predictam Terram Nocerae cum predicto Portu Maris, qui dicitur Navis de Arata, medietatem predicti Casalis Apriliani, cum hominibus, Militibus, Burgensibus, franchis, villanis cum omni jure, oneribus suis, aquis dulcibus, salatis, nemoribus, pascuis. Ad huius autem concessionis, permutationis nostram memoriam, robur in perpetuum valiturum praesens Privilegium per manus Jacobi de Bonita fidelis Notarii nostri scribi sigillo cere pendente Majestatis nostrae jussimus communire. Actum Fogiae Anno Domini, Incarnationis millesimo ducentesimo quadragesimo mense februari quartae indictionis Imperiis Domini Federici”.
Orbene, i contenuti dei due documenti pubblici, emanati ex imperio da due distinte autorità sovrane e a distanza di quasi due secoli uno dall’altro, non solo non si contraddicono, quanto si compendiano vicendevolmente.
Quando l’editto di Roberto d’Altavilla allude alla “vecchia città tra due fiumi” (addirittura senza neppure nominarla, evidentemente ritenendo che non ve ne fosse necessità, in quanto facilmente identificabile), questa città era l’antica e scomparsa città di Terina, posta tra il fiume Savuto, un tempo Ocinaro, e il fiume Grande sul Piano di Terina del colle Sabazio di Nocera Terinese.
Il Portum Maris, qui dicitur Navis de Arata; il tenimento dictae terrae Noceriae cum predicta Terra; la dictam Terram Noceriae, contenute nel privilegium emanato da Federico II, sono tutte toponomie appartenenti alla storia di Nocera Terinese, le quali, oramai sono secoli, continuano a trovare reviviscenza onomastica nell’epoca contemporanea, tale e quale alla forma antica risalente in un tempo anteriore all’anno mille.
Il Privilegium di Federico II, integrando il numero di terre già infeudate a favore dell’Abbazia in virtù dell’editto di Roberto d’Altavilla, ne precisa la denominazione onomastica circoscrivendo, anche, i poteri dominicali dell’Abbazia, per cui nessun dubbio può residuare oltre: Terina era ubicata sul colle Sabazio, su quello al quale ab immemorabili è stato conferito il nome di Piano di Terina, con il Porto detto Nave di Arata e con tutte le pertinenze e gli accessori che vengono elencati uno per uno, per categoria.
E’ dato storicamente incontrovertibile, perché storicamente accertato, che Nocera Terinese, prima di passare sotto altre giurisdizioni territoriali ecclesiastiche (che, in verità, si succedettero a ritmi notevoli: da Nicastro, ad Amantea, a Martirano, a Temesa, a Tropea) dipese, a far tempo dalla dinastia degli Altavilla dall’Abbazia di Santa Eufemia Lamezia.
Tutte tali risultanze storiche, giammai smentite da ritrovamenti archeologici (che, come abbiamo già affermato, non sono stati mai effettuati) sono state destinatarie di una gravissima omessa valutazione, anzi addirittura ignorate da parte di coloro che sostengono il sito lametino quale erede della scomparsa città magno greca di Terina.
Per rinvenire i resti archeologici riferentisi a Terina, il relativo scavo dovrebbe essere portato, almeno alla profondità di metri sette attraversando quelli di epoca successiva, così come è stato sopra affermato.
Non basta dedicare un monumento alla figura della ninfa Ligea, quando in suo onore e ricordo, in Nocera Terinese, gli antichi avevano, in tempi immemorabili, eretto un cenotafio, andato smarrito solo per incuria degli uomini.
Non riusciamo a comprendere perché mai lo Stato italiano, tramite i suoi organi competenti, stia perdendo tanto tempo nel dare il via ad una seria campagna di scavi sul colle Sabazio, nel territorio di Nocera Terinese, tenendo presenti i risultati delle aerofotogrammetrie del professore Giorgio Gullini e mettendo da parte ogni incomprensibile favoritismo verso questo o verso quello.
Noi siamo portatori convinti del principio in base al quale la STORIA non deve avere timori reverenziali o riguardi per nessuno e, quindi, né per Nocera Terinese, né per Lamezia Terme, ma solo per la VERITA’.
Per questo, ci impegneremo al massimo per non deluderla.
di Michele Manfredi-Gigliotti
Nota
(1) Il toponimo Sabazio (in greco Sabazios), attribuito al colle sul quale era posta la città di Terina, deriva dal nome di una divinità dell’area turco-frigia, particolarmente venerata in Tracia. Il popolo dal quale la divinità aveva assunto il nome è quello dei Sabi (Sabi). Tale culto era molto diffuso nella zona di origine, dalla quale, in età imperiale soprattutto, emigrò ed ebbe a radicarsi in Grecia e a Roma e, per conseguenza nelle terre colonizzate dalla Grecia e nelle province conquistate dall’Urbs. Esso si basava su una ritualità religiosa di natura misterica (musteria), sulla falsa riga, per intenderci, del culto dionisiaco, al punto che, pur mancando elementi storici più certi per poterlo affermare, sono in molti a ritenere che Sabazios e Dionusos (qeos-dio e Nuses-Nisa, città della Georgia, quindi il “Dio di Nisa”) siano la medesima divinità con appellativi diversi.
Sul punto ricordiamo come gli attributi con cui si identificava Dioniso in occidente (e, particolarmente in Sicilia ove nei boschi dei Nebrodi nacque il suo culto) erano numerosi come Zagreo (cacciatore), Ctonio (appartenente al popolo e alla terra), Bacco (colui che lancia l’urlo), Lieo (colui che scioglie la malia), Nebrodense (simile al cerbiatto), Bromio (fremente), Plutodote (dispensatore di ricchezza), Sotero (Salvatore).
A tutti tali appellativi occorre aggiungerne un altro costituito proprio dal nome in rassegna: Sabazio.
Attesa la scarsità di notizie storiche non siamo in grado di affermare con certezza se Dioniso e Sabazio siano due divinità autonome, oppure se sia una divinità sola, ambivalentemente denominata, anche tenendo nel debito conto la sua emigrazione dalla terra del culto originario (Tracia-Georgia) verso l’Occidente.
L’altro problema, che è quello che ci riguarda più da vicino, è rappresentato dalla motivazione per la quale il colle di Terina e uno dei due fiumi, che le scorre vicino, abbiano assunto le denominazioni, rispettivamente, di Sabazio e di Savuto, le quali provengono, con ogni evidenza, dalla divinità dei Sabi.
Il tentativo che faremo qui di seguito (che, in ogni caso, non è frutto di improvvisazione) non è la rappresentazione di una certezza, bensì di una ipotesi verosimilmente probabile.
Mentre Terina fu fondata da Crotone per motivi logistico-economici, Crotone, a sua volta, era stata fondata, tra gli anni 718-708 a. C., da coloni provenienti dall’Acaia (Achei).
E’ dato storicamente accertato che gli Achei, popolazione da sempre animata da spinte cosmopolite ed espansionistiche, avevano iniziato a penetrare in quasi la totalità delle isole dell’Egeo. In particolare, essi appresero dai Cretesi l’arte della navigazione, esercitando la quale praticarono, dapprima, la pirateria, per poi, finalmente, dedicarsi all’esercizio di leciti traffici commerciali. I quali ultimi, oltre che altri Stati rivieraschi del Mediterraneo, interessarono, in modo particolare, l’Italia Meridionale. E’ molto probabile che questo nuovo culto ebbe diffusione in Occidente, soprattutto nelle Terre della Magna Grecia, ad opera proprio degli Achei e a causa della loro capillare opera di penetrazione demografica, la quale comportò, non solo lo scambio prettamente commerciale, ma, anche o soprattutto, quello culturale e religioso. Se questa ipotesi è fondata il culto venne certamente assorbito, in primo luogo da Crotone, città che è stata fondata, come sopra si è detto, dagli Achei e che, a sua volta, è divenuta fondatrice di Terina.
La storia non fornisce sul punto alimentazioni scientifiche di alcun genere, ma l’ipotesi possiede validi elementi perché possa essere ritenuta fondata.
Le incertezze, tuttavia, non si esauriscono qui.
Mentre, infatti, la denominazione del colle su cui sorse Terina, SABAZIO, rappresenta una caratteristica individuativa di natura squisitamente locale, indigena e circoscritta a quel particolare e ben individuato territorio (tenendo sempre presente la sua provenienza dalla città-madre, Crotone), quella del fiume, SAVUTO, che ha la medesima origine semantica della prima, rappresenta un vero e proprio enigma.
In origine, il fiume più importante di Terina venne da Licofrone (Lukofrwn, poeta e drammaturgo nato in Calcide nel 330 a.C.) chiamato Wkinaros (Cfr. l’etimo che è stato trattato supra). Non sappiamo con certezza se tutti lo chiamassero in tal modo, oppure se fosse, questa, una denominazione fornita da Licofrone (ritenuto autore dalla conformazione creativa squisitamente ermetica) per le caratteristiche del corso d’acqua. Sconosciamo anche il dies ad quem continuò a chiamarsi Ocinaro e, conseguentemente, il dies a quo assunse la nuova denominazione di Savuto.
Sul punto possiamo ricavare una sola certezza ed è quella per cui nell’anno 132 a. C., in cui venne ultimata la Via Popilia o Annia, che congiungeva Reggio Calabria a Capua, il corso fluviale aveva già mutato denominazione, da quella di lingua greca, di Wkinaros, all’altra di lingua latina, Sabatus (da cui, Savuto). E’ noto, infatti, come, prima di giungere al colle Sabazio (ove era posto il diverticulum stradale verso Temesa e Clampetia [Amantea], che venivano collegate alla via Popilia dalla via Traiana), sul cui pianoro era posta la città di Terina, era stata posizionata la stazione mamertina di AD SABATUM FLUMEN.
Anche per questo luogo letterario, l’incertezza è sovrana.
Ritenuto che il Savuto ha la sorgente in Sila e che, nel suo percorso dalla Sila sino al mare Tirreno, dove ha la sua foce nei pressi del colle Sabazio, esso, durante il suo percorso, evolventesi in circa cinquanta chilometri, attraversa numerose comunità, a quale di tutte queste si deve la neodenominazione assunta?
E’ stata Terina, ove, probabilmente, era fiorente il culto di Sabazio e/o Dioniso, oppure occorre riportarsi alla fondatrice di Terina, ossia Crotone?
Oppure, ancora, la denominazione è opera di qualche comunità intermedia collocata tra la sorgente e la sua foce del fiume?
Nella nostra penisola il culto di Sabazio ebbe una certa diffusione, al punto che il Cristianesimo, in quella oramai riconosciuta operazione di scheuomorfismo rispetto ai vari culti pagani ai quali succedette, ereditò dalla ritualità iconografica sabazia la posizione mimica della cosiddetta benedictio latina, tuttora praticata dalla Chiesa di Roma, ossia la benedizione con le tre dita della mano destra (di cui ci sono pervenute molte riproduzioni litiche che ne indicano la posizione benedicente [cosiddetta mano pantea]).
A dimostrazione che il culto misterico del dio Sabazio ebbe nella penisola italiana una certa qual diffusione, soprattutto nella parte centrale della penisola, ci riferiamo, anche se brevemente, ai molteplici antroponimi e toponimi che si riferiscono al nome del dio pagano. Tanto per richiamarne qualcuno, ricordiamo: Sabelli, Sanniti, Sabini, Anguillara Sabazia, Magliano Sabina, Lago Sabate, Monti Sabatini, Montopoli Sabina, Torri in Sabina, Cantalupo in Sabina, Fara in Sabina, Palombara Sabina ma, come si vede, sono tutti termini che indicano comunità, popoli, monti posti al di fuori dell’area geografica da noi considerata. La zona che ci interessa, a quanto pare, annovera soltanto il Colle Sabazio e il Fiume Savuto.
Con ciò si vuole sottolineare come l’unica possibile origine del culto sabazio possa essere individuata, per la zona geografica considerata, all’interno dell’eredità crotoniate, la sola che, per gli elementi storici giunti sino a noi (origine achea del popolo di Crotone) possa aver generato il toponimo e l’idronimo.
Bibliografia:
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Leoni N., Della Magna Grecia e delle tre Calabrie, Forni Editore 1976, dall’antica edizione del 1844-1846;
Manfredi-Gigliotti M.,Terhnewn, memorie storiche sull’antica città di Terina, Editrice Pungitopo 1984;
Manfredi-Gigliotti M., Temya-Temhsh, Memorie storiche sull’antica città di Temesa, con particolare riguardo alla individuazione del suo sito, Edizioni Brenner, 1994;
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