È una domenica di dicembre del 2019. Manca ormai poco al Natale.
Mi trovo a casa di mia zia Carmela. Stiamo parlando di papà, di quando era giovane.
Ad un certo punto mia zia dice: «Sai Marco che hanno scritto un libro sul nonno?»
«Ma va zia, stai scherzando?!»
«No no, è vero. Parla della vita del nonno. Sai era conosciuto da tutti a Soveria Mannelli per le sue avventure da ladro».
«Ladro?! Il nonno??» Rimango interdetto.
Papà non mi aveva mai detto nulla dell’esistenza di questo libro. Non mi ha mai nemmeno parlato del nonno. In realtà non è che io e papà parlassimo tanto se non di cose prettamente pratiche.
Aspetta che te lo vado a prendere.
Dopo qualche minuto torna con il libro.
«Posso tenerlo zia? Come puoi immaginare mi piacerebbe un sacco leggerlo».
«Certo Marco, però mi raccomando fai attenzione perché è l’unica copia che abbiamo e non ne producono nemmeno più».
Questo sì che è un regalo di Natale! Sono eccitato all’idea di saperne di più sul nonno Carmine e sulla sua vita. Eppure in quel momento non potevo nemmeno immaginare quanto questo libro sarebbe stato importante per la riconciliazione con le mie radici.
“Ed ora non rubo più”. Un libro che mi ha fatto piangere e ridere di gioia allo stesso tempo.
Libro che è stato il precursore di diverse conversazioni con mia mamma, le mie zie e per ultimo anche mio zio che non vedevo da molti anni.
Ma soprattutto libro che mi ha dato la possibilità di capire molto di mio padre, del tipo di infanzia che ha avuto, da dove veniva e le difficoltà che ha avuto nel crescere e del perché di alcuni suoi comportamenti. Sento di aver conosciuto di più mio padre e chi veramente fosse negli ultimi anni che quando era vivo.
Libro che mi ha messo in contatto con gli sforzi e i sacrifici che hanno fatto i miei antenati per darmi la vita che ho e fatto capire quanto gli sono grato per tutto ciò.
Dopo aver ricevuto così tanto negli ultimi anni, ho finalmente messo da parte l’orgoglio e smesso di combattere con la vita per quello che pensassi di non essere o di non avere ed ho aperto gli occhi a quanto la vita e la mia famiglia mi hanno donato e continuano a fare.
Mi sento pieno di gratitudine, per la persona che sono, per la mia famiglia e soprattutto per la vita.
E sono consapevole che la maniera migliore per dare indietro questo amore per i miei antenati è di vivere la mia vita appieno, giorno dopo giorno, questa è la mia unica responsabilità.
È arrivato il tempo di restituire. Ed è così che Domenica 6 Novembre 2022, intorno alle 10 del mattino, sono partito da Lamezia Terme per un piccolo pellegrinaggio in onore dei miei antenati per raggiungere Soveria Mannelli.
Ho circa 25 km di cammino davanti a me prima di arrivare.
Il cammino parte in salita. Salgo per km e km di strada, risalendo il monte Reventino per più di due ore, e quando sembra che la salita non voglia mai finire, ecco che finalmente si comincia a scendere.
La strada continua. Vaste distese di castagni ricoprono il terreno ai due lati della strada. Sono ormai passate più di quattro ore da quando ho iniziato a camminare.
Sono stanco, le scarpe Vans che porto non sono sicuramente adatte ad un lungo cammino come questo, mi fanno male i piedi, il ginocchio destro operato al legamento crociato non mi lascia tregua, ma ormai manca poco. La gioia per arrivare a Soveria è più grande di qualsiasi dolore fisico.
Mancano un paio di km quando improvvisamente una macchina passa e si ferma sull’altro lato della strada, fa marcia indietro e mi si affianca. Dalla macchina sento urlare il mio nome, io rispondo: «Sì sono io, chi sei?»
«Sono Daniele, il proprietario della casa che hai affittato a Soveria, vuoi un passaggio fino a Soveria?»
La risposta è decisa, non ci sono dubbi: «No Daniele, grazie per l’offerta ma continuo a piedi, ci vediamo sul corso».
La ricompensa per tale decisione non tarda ad arrivare. Lì, davanti a me, intravedo la scritta Soveria Mannelli, un turbinio di emozioni cominciano ad alternarsi dentro di me, ed una frase continua a ripetersi nella mia testa: «Siamo arrivati a casa papà, siamo arrivati a casa». Non riesco a fermarmi dal ripetere tali parole, lacrime di gioia mi bagnano le guance, siamo a casa papà.
Non ero da solo a fare quel cammino, mio papà era lì con me a guidarmi in ogni singolo passo, quel cammino di riconciliazione con le radici era il nostro non soltanto il mio.
La realtà è che non se ne è mai andato. È sempre rimasto con me, non mi ha mai lasciato. E la sua presenza diventa ogni giorno sempre più forte, la sua guida sempre più chiara.
Continuo a camminare arrivando su una passerella pedonale sospesa su un fosso che taglia una curva, mi fermo in mezzo al ponte, non riesco più a trattenere le lacrime, è ora di lasciarmi andare completamente e da lì do sfogo ad un pianto intenso, difficile descrivere le emozioni che provavo, ma una cosa è certa: il processo di guarigione verso le mie radici stava continuando.
Arrivato su Corso Garibaldi proseguo verso la piazza principale. Soveria è ancora più bella di come me la immaginassi. Ordinata, silenziosa, ospitale, umile. Così come la sua gente.
La mattina seguente sono pronto a uscire, non ho un piano né aspettative. Non ho la più pallida idea di quello che succederà.
Prima di uscire prendo il libro e la candela, donatami da mia moglie prima di partire per l’Italia, da accendere in onore delle mie radici. Li metto nella tasca della giacca. Non so ancora se mi serviranno, ma la sensazione è quella di averli entrambi con me.
Mi reco di fronte alla casa dove vivevano i miei nonni con mio papà e gli altri miei zii. Non l’ho ancora vista di giorno. Mi fermo di fronte alla casa, mi guardo intorno poi decido di sedermi sul gradino all’entrata del portone di casa, cercando di immaginarmi mio papà da bambino uscire da quella porta, mio nonno entrare col suo famoso sacco pieno di prelibatezze appena rubate a qualche bottega del posto, mia nonna che cucina, mia zia Carmela che si emoziona nel vedere un metro di neve fuori dalla porta di casa.
Penso di accendere la candela e fare una piccola cerimonia, ma no, non è il momento né il luogo adatto.
Mi alzo in piedi ed inizio a camminare. Si ma per dove?
Ricordo la chiamata con mia mamma della sera prima. Chiamata nella quale mi racconta dell’ultima volta che siamo stati a Soveria Mannelli, io ero molto piccolo, avevo circa 3 anni forse 4, non ricordo praticamente nulla di quell’episodio. Mi dice che papà aveva malinconia del suo paese ed era voluto tornare e passare al cimitero a trovare il nonno.
Non sono mai stato tipo da cimitero, non ci vado praticamente mai, nemmeno a trovare mio padre.
Non credo sia necessario andare al cimitero per onorare i propri cari.
Eppure qualcosa in quel momento mi dice che è lì che devo andare. E così, dopo aver chiesto indicazioni, mi incammino.
Ma come trovare mio nonno nel mezzo di tutte quelle tombe?
Scrivo un messaggio a mio zio: «Zio, dove si trova il nonno?»
La risposta non si fa attendere: «I resti del nonno sono in una cassetta nell’ossario».
Bene ora ho una direzione precisa.
Il cimitero è più grande di quello che pensassi. Dai due lati si trovano innumerevoli cappelle di famiglia una di seguito all’altra, Chiodo, Cardamone, Pascuzzi, Marasco, Cardamone, Chiodo, Marasco e via dicendo. Gli stessi nomi continuano a ripetersi.
Dove sarà l’ossario? Dopo un paio di tentativi senza successo finalmente trovo l’addetta alle pulizie del cimitero.
«Signora mi scusi, dove si trova l’ossario?»
«Ah guardi l’ossario è chiuso ed io non ho le chiavi, se vuole saperne di più deve andare in comune».
«Mi ci può portare ugualmente per favore?»
«Certo! Mi risponde».

E così dopo qualche minuto ci troviamo di fronte ad un cancello in ferro arrugginito chiuso con il lucchetto.
Alcuni mazzetti di fiori ormai appassiti sono incastrati tra le inferriate, ed una dozzina di lumini spenti, chissà da quanto tempo, sono ammucchiati in maniera disorganizzata di fronte al cancello.
Una lamiera di metallo attaccata al cancello non permette di vedere all’interno.
Ringrazio la signora delle pulizie che se ne va e rimango lì da solo.
È doloroso vedere quell’entrata decadente specialmente se comparata con la maestosità delle tombe di famiglia viste prima.
Mi dirigo verso l’altra parte dell’edificio.

Una volta dall’altra parte mi ritrovo all’entrata di una cappella. La cappella è scarna, non molto curata, con una semplice croce al centro della parete posteriore ed una panca su un lato. Eppure è estremamente accogliente, viva, come se avesse un’anima propria.
Entro e rimango qualche minuto a fissare la croce.
Momenti di silenzio vengono interrotti da rumori di trapano di alcuni lavoratori che stanno riparando l’edificio di fronte.
Il nonno è qui sotto penso. Il momento è arrivato.
Accendo il palo santo, poi accendo la candela. Prendo la foto di mio papà con me e mia mamma di quando ero piccolo che ho con me e l’appoggio sulla candela. Non ne ho una solo di papà, ma quella va bene.
Poi prendo la panca e la sposto di fronte alla croce e mi siedo.

Apro la tasca del giubbotto, prendo il libro e comincio a leggere. E d’un tratto senza nemmeno accorgermene sto leggendo a voce alta, sto leggendo a mio nonno Carmine.
L’arrivo a Soveria, l’incontro con la nonna Giuseppina, il primo furto a Soveria, l’uscita dal carcere e la conoscenza del maresciallo Basta che crede in mio nonno e gli offre una seconda possibilità dandogli lavoro come spazzino comunale.
Le pagine scorrono veloci, intervallate dal magone dell’emozione del leggere per mio nonno, di leggergli il libro che è stato scritto sulla sua vita.
È passata più di un’ora ormai.
Il libro è giunto al termine. Lo richiudo e lo rimetto nella tasca della giacca.
Rimango in silenzio per qualche minuto, poi mi alzo, rimetto la panca al suo posto, prendo la foto di famiglia, saluto il nonno ed esco dalla cappella.

L’attenzione si porge sul nome della cappella, Cappella della Maddalena. Maria Maddalena, discepola tra i discepoli, il cui simbolo rappresenta un canale che unisce la terra con il cielo, il corporeo con il divino e che apre la dimensione della guarigione.
Ancora una volta rimango allibito dalla perfezione del processo chiamato vita.
Tornando indietro in direzione Corso Garibaldi sento che quello che “dovevo fare” a Soveria è giunto al termine. Domani mattina si parte.
Sono le 7 di mattina quando vado a fare colazione al bar di fronte casa. Manca ancora mezz’ora prima che Daniele passi a prendermi per portarmi a Lamezia. Il sole ha già raggiunto Piazza Bonini e così decido di andarmi a sedere sulla panchina in fondo alla Piazza per scaldarmi al calore del sole mattutino nell’attesa che Daniele arrivi.
E lì, seduto mentre guardo la casa cadente e le colline perse nella nebbia mattutina di inizio Novembre, d’un tratto compare una sagoma con una scopa. È la nuova spazzina del paese, immersa nel suo lavoro di pulizia della piazza, o forse è mio nonno che è venuto a salutarmi alla sua maniera e mi dice grazie, grazie di essere passato a trovarlo, grazie per avergli letto alcune pagine di quel libro che descrive la sua storia, ma soprattutto grazie per avergli aperto il mio cuore.
Daniele è arrivato. È ora di andare. Salgo in macchina e partiamo in direzione Lamezia.
Lo spazzino del paese è l’ultima persona che vedo prima di lasciare Soveria. E come avrebbe potuto essere altrimenti?!
Arrivederci Soveria.
Sono davvero felice, il mio cuore è colmo di gioia e di gratitudine per queste due giornate indimenticabili.
Dopo tanti pianti e risate, la vergogna che provavo per le mie radici è ormai solo un ricordo.
Non devo più combattere chi sono, non vi è nulla di sbagliato o di poco onorevole nella mia famiglia, nemmeno la povertà né l’ignoranza dalla quale provengo è sinonimo di vergogna.
Nel mio cuore c’è solamente spazio per l’amore per le mie radici, per mio padre, per mio nonno e per il mio bisnonno. Amore per la Calabria e per Soveria Mannelli, paese dal quale provengo.
Grazie papà per guidarmi in questo cammino.
Finalmente mi sento uomo, e no, non per quello che faccio, ma per quello che sono. Non ho nulla da dimostrare. Ho solo trovato il coraggio di essere l’uomo che sono sempre stato.
Oggi so finalmente di appartenere.
Oggi sono orgoglioso di dire che il mio nome è Marco Nilo, figlio di Antonio Nilo, nipote di Carmine Nilo.
Marco Nilo