Non è più una notizia, ma una condizione quotidiana: la sanità calabrese è in emergenza permanente.
A Scalea, un uomo colpito da ischemia è stato costretto a un pellegrinaggio estenuante tra ospedali e reparti chiusi, fino a dover essere trasferito d’urgenza in Basilicata, a Potenza, per trovare un letto disponibile.
A Reggio Calabria, una giovane paziente oncologica ha potuto ricevere un farmaco salvavita solo grazie all’intervento dei Carabinieri, dopo che nessuna struttura della regione era stata in grado di reperirlo.
Sono storie vere, storie di ordinaria sofferenza, che fotografano una Calabria dove il diritto alla salute è diventato un privilegio. E come sempre accade, a pagare il prezzo più alto sono i più deboli: gli anziani, le famiglie in difficoltà, i poveri.
Chi ha mezzi economici può rivolgersi a cliniche private, può permettersi viaggi in altre regioni, può ottenere in tempi rapidi una visita o un esame. Ma chi non ha nulla resta intrappolato nel sistema pubblico, costretto ad attendere giorni o settimane, a rassegnarsi alla burocrazia, alla disorganizzazione, alla speranza che qualcuno si accorga del suo dolore.
È una sanità che discrimina in base al reddito, e questo — in una Repubblica che proclama l’uguaglianza dei diritti — è intollerabile.
Ma la colpa non è dei medici, né degli infermieri: sono loro, ogni giorno, a reggere un sistema fragile e stremato, spesso senza mezzi, senza personale e senza supporto.
Le responsabilità sono altrove: in un’organizzazione sanitaria confusa, sorda, incapace di garantire servizi minimi ai cittadini.
Basta entrare in un pronto soccorso, come quello di Lamezia Terme, per capire la dimensione del problema. Ore di attesa per un codice giallo, reparti sovraccarichi, personale insufficiente.
E quando la disperazione supera la soglia della sopportazione, non di rado scatta la rabbia: i familiari, esasperati, si scagliano contro medici e infermieri, colpevoli solo di essere gli ultimi ingranaggi di una macchina inceppata. Gesti sempre da condannare, ma umanamente comprensibili di fronte a un sistema che non risponde più.
Il vero nodo è politico.
Questi sono i problemi che dovrebbero interessare davvero i partiti, -specialmente quelli di centrosinistra- quelli che meritano dibattiti, proposte, interventi concreti. E invece troppo spesso la politica calabrese preferisce rifugiarsi in comunicati stampa di maniera, pieni di buone intenzioni e parole vuote.
Serve il coraggio di agire, non di apparire.
Bisogna smettere di usare i partiti come trampolino per ruoli istituzionali e tornare a dare senso al proprio ruolo pubblico, mettendo al centro la vita delle persone.
I calabresi non chiedono privilegi, chiedono dignità. Vogliono entrare in un ospedale e sapere che saranno curati, non rimandati altrove. Vogliono una sanità che funzioni, non promesse da campagna elettorale.
E finché la politica continuerà a guardarsi allo specchio invece che guardare i malati negli occhi, la Calabria resterà una terra dove curarsi è un atto di fortuna, non un diritto garantito e le persone continueranno a disertare le urne.
Perché non può esserci sviluppo, né giustizia, né futuro in una regione dove la vita stessa è lasciata all’improvvisazione e alla propaganda.



























