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Il potenziale ruolo delle esportazioni in Calabria

L’interessante disamina di carattere economico sul ruolo delle esportazioni in Calabria e la possibilità di innescare dinamiche di crescita, esposta dal professore Francesco Aiello, su OpenCalabria, il laboratorio di idee creato nell’estate del 2015 che costituisce uno spazio dedicato alla predisposizione di studi e riflessioni sui disagi della Calabria e all’elaborazione di proposte di sviluppo locale, con piacere riproponiamo su queste pagine ospitando la prestigiosa opinione dell’economista e docente dell’Università della Calabria nell’intento di contribuire e sostenere un dibattito costruttivo a favore della crescita economica regionale. 

Il potenziale ruolo delle esportazioni in Calabria.

Il ruolo delle esportazioni 

E’ plausibile pensare che un’ipotesi di sviluppo della Calabria possa trarre spunto dai modelli di crescita trainata dalle esportazioni. Molti paesi di piccola dimensione fanno leva sulla domanda estera come elemento in grado di attivare circoli virtuosi di crescita sostenuta. Ciò è evidentemente legato al fatto che nei sistemi economici di ridotte dimensioni, la domanda aggregata interna è limitata e, quindi, non può essere utilizzata come motore di sviluppo duraturo nel tempo, poiché facilmente soggetta a saturazione.
Questa impostazione ha qualche riscontro empirico: i paesi di grande dimensione hanno un livello di apertura commerciale molto più ridotto di quello che si osserva per i paesi piccoli. Per esempio, nel 2013 la quota esportazioni/PIL è pari al 13% negli USA, 22% in Cina, 20% in Australia, 79% in Malesia, 55% per l’isola di Fiji, 54% per il Gabon.

I dati

Seguendo questo ragionamento, il grado di apertura commerciale della Calabria dovrebbe essere elevato. Non è così. In valori nominali, le esportazioni del 2014 ammontano a poco meno di 324 milioni di Euro, equivalenti a circa lo 0.1% delle esportazioni nazionali. Se consideriamo gli ultimi quindici anni (2000-2014), il peso delle esportazioni calabresi rispetto al PIL regionale è stato sempre inferiore al 2%. E’ un elemento strutturale, ossia non legato alla recente crisi. Con queste proporzioni, qualsiasi shock esogeno positivo della domanda estera genererebbe un marginale impatto moltiplicatore sull’economia regionale.

Abbiamo un limite non solo su quanto esportiamo, ma anche su cosa esportiamo. Nel 2014, il settore “Sostanze e prodotti chimici” assorbiva il 20,7% delle esportazioni regionali, seguito con una quota dell’11,4% dai “Prodotti dell’agricoltura, silvicoltura e pesca”. Elaborazioni più approfondite dei dati sulle esportazioni confermano che la Calabria, pur esportando pochissimo, è relativamente specializzata, rispetto alle altre regioni italiane, nel settore della chimica e dei prodotti agricoli. A questi due settori, si aggiunge la specializzazione nel comparto della produzione e della trasformazione del legno. Anche in questo caso, la specializzazione non è legata alla congiuntura del 2008, ma se ne ha traccia dall’inizio degli anni ’90. In estrema sintesi, esportiamo pochissimo e lo facciamo in settori che mediamente possiamo considerare a domanda stagnante.

Cosa fare nell’immediato?

Recuperare competitività dal lato dei costi non è possibile (gli sgravi fiscali sono assimilati ad aiuto di stato e non sono ammessi dall’UE) ed appare essere anche non opportuno. Infatti, i differenziali di prezzo di oggi, legati ad una fiscalità di vantaggio, si perdono domani se non sono affiancati da sistemici recuperi di produttività. Peraltro, la pressione competitiva dei paesi a bassi costi è talmente esasperata da non poter essere avversata da permanenti regimi di aiuto. Evidentemente non si ha alcuna convenienza ad esportare in segmenti di mercato in cui, in media, la competitività dei prodotti è basata sui prezzi. Si tratta di comparti in cui i beni sono debolmente differenziati e la cui domanda è molto elastica rispetto al prezzo. E’ alto il rischio che da qualche parte nel mondo ci sia qualcuno che produca a prezzi più bassi e che, quindi, si appropri delle quote di mercato delle imprese regionali. Da ciò si apprende che occorre imprimere una radicale trasformazione del modello di produzione dell’economia calabrese. E’ possibile farlo senza inventarsi nulla. E’ sufficiente valorizzare l’esistente, puntando, per esempio, sulle risorse naturali disponibili in regione. Piuttosto che produrre beni indifferenziati, il sistema produttivo regionale dovrebbe realizzare beni la cui domanda non dipende dal prezzo e dovrebbe venderli a quei consumatori che mostrano più interesse verso la qualità e la non standardizzazione del prodotto. Affinché tutto ciò sia fattibile è necessario che le imprese investano di più nelle fasi di produzione che consentono di realizzare beni differenziati e di qualità. Sforzi aggiuntivi sono assorbiti sia dall’iniziale ricerca dei mercati sia dal successivo consolidamento della posizione nei mercati di sbocco. Questi mercati esistono, sono di nicchia e sono rappresentati da consumatori disponibili a pagare prezzi elevati a garanzia della qualità dei beni. E’ plausibile pensare che questo extra-prezzo sia talmente elevato da compensare in modo più che proporzionale i costi richiesti per produrre “prodotti di nicchia” e per la ricerca dei mercati. Teoria? No, si tratta di chiarire e sintetizzare, a mò di narrazione, cosa sta accadendo sui mercati globali. Le imprese italiane che oggi fanno profitti – elevati profitti – sono quelle che ieri hanno intercettato i cambiamenti in atto nei mercati e hanno investito in qualità collocandosi nei segmenti alti della domanda. Lasciando agli altri le fette di mercato in cui la guerra è sui prezzi.

Discussione

In alcuni comparti produttivi dell’economia calabrese ci sono le pre-condizioni per puntare sulla qualità. Un esempio su tutti. Consideriamolo però un mero esempio, senza ricamarci troppo sopra, perché il ragionamento vale anche per altri settori. L’agro-industria calabrese fa poco rispetto a quanto potrebbe fare. E’ strategico puntare su questo settore perché esiste un saper fare locale e possiamo godere di molti vantaggi geografici. In un numero elevato di casi, i beni finali sono già di alta qualità. Questa ricerca della qualità deve diventare, pero, la regola del settore, qualsiasi sia la dimensione aziendale. Poiché spesso vale la legge che “piccolo è bello”, le imprese che generano prodotti di qualità ad elevata differenziazione sono soprattutto imprese di ridotta dimensione che scontano, quindi, i costi legati all’assenza di strategie di mercato e di commercializzazione. L’osservazione del mondo reale mostra che i volumi realizzati sono sempre al di sotto delle potenzialità produttive, perché l’impresa non sa dove collocare i beni. Ricorrente è la lapidaria sentenza “e poi che ne faccio?”. Essendo il caso diffuso e ben noto, il buon senso suggerirebbe di aggredire e risolvere il problema. Le opzioni ammissibili sono due: partecipare ad un “bando” sull’internazionalizzazione della regione, oppure agire privatamente condividendo, per gruppi omogenei di comparti produttivi, le spese dei servizi offerti da esperti di vendite sui mercati mondiali. Nel secondo caso è richiesto che le imprese “comunichino” tra di loro. Cosa, però, non banale. Ora, poiché il “bando” (a) non si sa se e quando sarà disponibile; (b) non si conoscono le ferree regole comunitarie per poterne fruire; (c) non si ha certezza dei tempi e dei modi di erogazione degli aiuti – è plausibile pensare che l’opzione privata debba essere debitamente vagliata. Una rivoluzione di approccio in una terra in cui tutti “aspettano” un bando.

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