Ci avviamo alla conclusione di questo contributo sul folklore e sulle tradizioni di San Mango d’Aquino. Siamo partiti da un libro pubblicato nel 1977 da Rubbettino (il terzo volume della casa editrice allora esordiente), e per il nostro scopo abbiamo fatto riferimento alle cinquanta pagine redatte da Antonio Sposato.
Un libro scritto a quattro mani, che ricostruisce per la prima volta le origini e le vicende storiche di San Mango e che si conclude con la pubblicazione di poesie messe a disposizione da diciotto autori locali. Un lavoro prezioso, che ha risvegliato le coscienze dei cittadini, che ha cercato di dare risposte (Chi siamo davvero? Da dove veniamo e, soprattutto, dove vorremmo andare?), che ha offerto uno strumento per alimentare un sentimento di appartenenza che è il primo stadio per lo sviluppo del senso civico.

Ecco! Folklore e Tradizioni sono serviti – e servono tuttora – anche a questo: a mantenere in vita una comunità… la comunità locale, in un’epoca in cui – grazie anche alla tecnologia – i legami e gli interessi non hanno più un vincolo territoriale ma vanno altre. Folklore e Tradizioni che hanno subito – e continuano a subire – quello “sfruttamento consumistico” al quale abbiamo più volte fatto riferimento.
Come difendersi da questo assalto e come reagire? Nel contesto di un mondo che corre veloce e non lascia spazio al ragionamento e alla riflessione, è possibile parlare ancora di Folklore e Tradizioni? La velocità consuma e la tecnologia ci isola, esaltando la libertà dell’individuo a scapito della dimensione collettiva. È “La solitudine del cittadino globale” come Zygmunt Bauman titola un suo libro.
«La civiltà contadina ha lasciato il posto a un’epoca indistinta che ha modificato più velocemente consuetudini, costumi, dialetti ed espressioni. Essi, pur nella loro varietà, hanno rappresentato uno sfondo unitario e compatto di sentimenti, credenza e religiosità che nei secoli ha alimentato e forgiato le anime delle (e nelle) comunità. Il paesaggio sonoro qui si è evoluto…» (“Le voci di Clio”, in “Fonofanie. Paesaggi sonori/passaggi a Sud”, Autori vari, a cura di Delia Dattilo, Ferrari Editore 2018).

Ed è proprio sul concetto di evoluzione che siamo chiamati a interrogarci, tenendo presente che «se l’orizzonte sonoro odierno si risolve nelle manifestazioni che inseriscono i residui tradizionali nei circuiti di sfruttamento consumistico, quello non troppo distante nel tempo fu altro, legato prevalentemente ai cicli della natura, di cui ho memoria poiché li ho vissuti» (“Le voci di Clio”, cit.).
Esemplare è il caso della “Strenna”, una tradizione antica che risale all’epoca dei Romani e che ha lasciato tracce in molte parti d’Italia, ma pure in Francia e in Romania, tanto per citare località estere. A Ferrazzano, in provincia di Campobasso, ha luogo la “maitunata”. Scrive Alfredo Cattabiani: «La sera del 31 dicembre, verso la mezzanotte, si radunano sulla piazza del paese gruppi di ragazzi, bambini e qualche anziano, che portano con sé chitarre, fisarmoniche, trombe e altri oggetti musicali […] Questi gruppi si avviano per il paese fermandosi davanti ad alcune porte dove cantano frasi scherzose, ovvero la maitunana, fino all’alba» (Cattabiani 1988).
Sul senso e sul significato di questa espressione del folklore a San Mango ci siamo soffermati in più occasioni, e abbiamo cercato di formulare considerazioni sull’origine, sul significato, sullo svolgimento e sui cambiamenti intervenuti nel tempo. Utilizziamo quanto scritto su questo argomento, e continuiamo ad attingere – a questo proposito – dal volume “Fonofanie. Paesaggi sonori/passaggi a Sud” più volte citato.

A San Mango d’Aquino «la strina è il modo più antico e spontaneo di porgere gli auguri per l’anno nuovo. Nella sera dell’ultimo giorno di dicembre (la notte di San Silvestro), dopo la cena, il gruppo di strinari si riunisce e, accompagnato da chitarre, mandolini, fisarmoniche, organetti, tamburelli – un tempo anche zampogne – dà inizio a un percorso che tocca le abitazioni di amici e parenti: “E nue de ‘cca volimu / volimu cuminciare / ca chista è ‘na partita / chi nun ne po’ mancare”. Il canto in vernacolo, eseguito sull’uscio delle porte, è di augurio al padrone di casa e a tutti i componenti della famiglia, i cui nomi sono opportunamente inseriti tra un rigo e l’altro […] Sull’intonazione dell’ultima strofa l’uscio è aperto e la comitiva fa accesso all’interno dell’abitazione per lo scambio di auguri e brindisi al nuovo anno. Al termine della visita, il gruppo si ricompone, gli strumenti riprendono la melodia e gli strinari intonano le strofe di commiato. Lentamente si esce di casa, e una volta sulla strada si riprende il cammino verso l’abitazione di qualche altro amico a cui rendere omaggio. E così fino all’alba del primo giorno del nuovo anno. È vera e propria performance inserita a sua volta in una geografia della comunità. Questo rituale nasce e si consolida nei secoli. Poi anche la tradizione della “Strenna” è coinvolta in quel vasto processo che prima porta all’ampliamento dell’ambito di fruizione di alcuni “prodotti folklorici” e poi – spesso – si risolve in una sottrazione del folklore ai suoi protagonisti storici…».
E arriviamo alla deduzione: «L’usanza è viva, ma di certo si è trasformata […] Ma se vogliamo dire da storici in cosa consisteva l’orizzonte sonoro in questi territori, nel momento topico del passaggio dall’anno vecchio all’anno nuovo – l’attesa che esso procurava, le aspettative nel contesto della sussistenza – allora diciamo che questo era il contesto, l’ambiente, l’atmosfera e che, per secoli, la strina è iniziata la notte di Capodanno […] e si è conclusa la sera dell’Epifania. Cambiano le prospettive, permane l’orizzonte: esso è esteso, stirato nel tempo e si adegua forse alle dinamiche di attesa (sempre più limitata) e di protrazione del clima di festa, tant’è che oggi i gruppi di strinari iniziano il loro cammino l’8 dicembre, finendo ben oltre l’Epifania. Si trasforma, perciò, il senso di cui io stesso porto la memoria, legato sì all’idea del dono ma pure a sentimenti di affetto, stima e rispetto reciproco, di conoscenza nella mappa emotiva che si tracciava visitando ciascun membro della comunità».
Tutto ciò che nel passato ha riguardato la strina si manifesta e continua a durare anche ai giorni nostri. Come altri prodotti del folklore – d’altronde – anche se mutati e mescolati a forme espressive diverse e mantenuti in altri contesti (altri tempi, altri spazi). È un fenomeno ormai analizzato. Ed «è successo quasi ovunque. È successo a San Mango d’Aquino, dove la consuetudine di accompagnare l’esercizio della mietitura con il canto è cessata quando la pratica agricola è cambiata e il lavoro dell’uomo è stato sostituito dalla tecnologia e dalle macchine. Dove la strina, pur essendo ancora oggi eseguita, si svolge su altri piani non connessi direttamente ai momenti del Natale».
Fin qui le considerazioni pubblicate in “Fonofanie. Paesaggi sonori/passaggi a Sud”.
Ci avviamo ora alla parte conclusiva di questo terzo e ultimo intervento. Ricordate quanto scritto all’inizio della seconda parte? «Il folklore è uscito dal ghetto…». Satriani scrive nel 1973, parla di «un processo ambiguo» e mette in guardia sulla possibilità di una nuova maniera per mantenere il mondo popolare «nella sua subalternità e per negarne, in forme diverse, la cultura».
Ciò che è successo per Folklore e Tradizioni, tra il 1973 e oggi, è sotto gli occhi di tutti. L’orizzonte sonoro fino ad un tempo non troppo distante è rimasto legato ai cicli dell’esistenza umana e della natura; l’orizzonte odierno si risolve in manifestazioni che inseriscono suoni naturali, canti, musica, costume e altri residui della tradizione in circuiti di sfruttamento consumistico.
Il gioco è cambiato. Lo spirito originario è andato perduto. Sono subentrati altri interessi e altri valori, con il senso di comunità che lascia il posto al piacere individuale considerato il bene più alto e il fondamento della stessa vita morale.
Il piacere individuale. Questo è il pericolo maggiore che mina la tradizione e il folklore. Oggi – forse più di ieri – si coglie una reale esigenza di nuove forme; ma per far fronte a questa esigenza servono culture diverse. È difficile, ma è possibile. Sono gli uomini – o meglio le persone – coloro i quali possono rispondere alle domande e dare risposte. Riscoprendo quel sentimento dell’appartenenza che – se praticato – dà un senso alla vita di comunità.
Armando Orlando



























