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Home » Lo shopping sul corso val bene una messa

Lo shopping sul corso val bene una messa

Antonio Cavallaro di Antonio Cavallaro
28 Giugno 2022
in  Soveria Mannelli, COMUNI, FATTI
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100 anni dal volo su Vienna: Soveria Mannelli replica le gesta del Vate
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Puntuale, e altrettanto fastidiosa, come un attacco di gastrite al termine di una gustosa frittura di pesce, è tornata ad accendersi la polemica relativa alla celebrazione della Messa principale della domenica – quella delle 11, per intenderci – nella chiesa di San Giovanni.

Il primo a rimanerne invischiato fu, qualche anno fa, don Fabio Coppola che aveva addirittura spostato l’orario della celebrazione dalle 11 del mattino alle 17 del pomeriggio. La scelta era stata dettata dalla necessità di avere un po’ più di tempo da dedicare ai parrocchiani di San Tommaso e alla Messa nella chiesa di San Michele, giacché lì la celebrazione ha inizio alle 10. Don Fabio aveva interpellato direttamente i fedeli durante un’assemblea pubblica e, tenuto conto del parere dei presenti (non molti, per la verità) contrari a procrastinare l’inizio del rito persino di un quarto d’ora, aveva deciso di spostare direttamente la Messa al pomeriggio.

Mal gliene incolse! Non avere le classiche persone che raggiungevano la piazza per partecipare alla Messa venne considerato da qualcuno una terribile iattura che aveva portato alla crisi del mercato domenicale e al crollo del fatturato dei negozi che si affacciano sul corso. Vi fu persino chi si presentò in canonica, con i libri contabili sotto braccio, per dimostrare, conti alla mano, come le difficoltà che la propria attività stava attraversando fossero del tutto ascrivibili a quella scelta scellerata.

Anche don Roberto Tomaino, giunto a Soveria, ebbe modo di sperimentare sin da subito quanto per celebrare Messa a San Tommaso e per ascoltare i bisogni dei fedeli, un’ora scarsa di tempo fosse del tutto insufficiente, specie se si considera che in quell’ora vanno conteggiati anche i minuti necessari per spostarsi da San Tommaso a Soveria. Per tale ragione l’orario di inizio della Messa principale in centro è stato posticipato di mezz’ora. Poca pena. Quello che nel frattempo è cambiato è stato però il luogo in cui la Messa delle 11 – pardon, delle 11,30 – viene celebrata, che non è più la Chiesa di San Giovanni ma il Santuario della Madonna di Fatima, distante dal corso principale e molto più prossimo a Viale Rubbettino.

All’inizio la scelta è stata obbligata per via dei lavori di restauro che hanno interessato per un anno circa la chiesa di san Giovanni e per le norme sul distanziamento previste per contrastare la pandemia che avevano suggerito di optare per le celebrazioni dell’ampia aula liturgica del Santuario, che consentiva di poter rispettare le distanze e di poter godere di un ricambio d’aria maggiore.

Ora che le norme sul distanziamento non sono più in vigore e che i timori di contagio sono fortemente diminuiti, ora che il bell’edificio tardosettecentesco della Chiesa di San Giovanni è tornato a essere pienamente fruibile, è parso a qualcuno del tutto naturale che la celebrazione principale torni a essere tenuta lì. Peccato però che per certuni le ragioni non siano di natura affettiva per la chiesa in cui gran parte dei soveritani è stata battezzata e ha ricevuto i sacramenti, né tanto meno di devozione verso il Santo Patrono ma di natura meramente economica e commerciale.

Qualcuno – e per amore di verità dobbiamo dire chiaramente che si tratta comunque di una sparuta minoranza – ritiene infatti che la partecipazione alla Messa oltre che elevare gli animi verso il Signore possa avere degli effetti straordinari sulla predisposizione all’acquisto dei fedeli, i quali pur avendo a disposizione l’intera settimana non troverebbero occasione migliore del momento dell’ingresso o dell’uscita dalla Messa per fare shopping. Sarà forse un aspetto poco indagato della grazia derivante dal sacramento? Dovremmo far indagare i teologi…

Già perché la questione, anzi il nocciolo della questione, il sale che dà sapore alla polemica sta in fondo tutto qui.

E chi se ne frega se, grazie a Dio e all’infaticabile azione pastorale di don Roberto, la partecipazione alla Messa a Soveria conosce numeri inimmaginabili altrove (specie dopo la pandemia) e San Giovanni ospiterebbe a fatica (e gremita fino all’inverosimile) nemmeno la metà dei fedeli abituali! Chi se ne frega se scout, ragazzi dell’ACR, bambini della prima comunione (quattro classi!) occuperebbero da soli con la loro colorata allegria l’intera aula liturgica dell’antico edificio parrocchiale!

Un tempo – si dirà – si faceva così: c’erano gli scout, c’erano i gruppi giovanili, c’era tanta gente, e si celebrava tutto a San Giovanni, per cui dove starebbe il problema? Dimentichiamo però che non per nulla si è avvertita l’esigenza di una chiesa più ampia e spaziosa! Quante volte ci è capitato di presenziare (uso volutamente questo termine invece di “partecipare”) alla messa, schiacciati in un angolino dietro un pilastro senza ascoltare né pregare? Quante volte non abbiamo potuto partecipare alla messa della Cresima o della Prima comunione di amici o figli di amici perché l’accesso all’edificio era consentito ai soli parenti stretti per ovvie esigenze di spazio?

Quanti oggi sarebbero felici di tornare a quella situazione? Siamo davvero disposti a sacrificare tutto, a creare questo disagio all’intera comunità per non far perdere a qualcuno un’occasione d’acquisto in più?

E poi, diciamocelo chiaramente, guardando in faccia la realtà: quante sono numericamente le persone che arrivavano a Messa la domenica mattina con i sacchetti pieni di indumenti e di ogni altro ben di Dio acquistato nei negozi del corso (ho detto nei negozi, non al mercato)? E quanti – e spiegherò in seguito il perché di questa domanda – lo farebbero ancora oggi?

Affrontando poi un aspetto non centrale della questione e tuttavia parallelo ad essa che ha creato grande scompiglio nella comunità cristiana soveritana, specie dopo la dura reprimenda di don Roberto al termine della processione e alla successiva messa domenicale: a fronte della vendita di un qualsiasi oggetto o alimento, siamo disposti a mettere persino da parte il doveroso senso di rispetto, di pietas cristiana verso i defunti? La morte tragica di un uomo vale davvero meno di un giro di giostra?

Detto questo però, sia come cristiani che come cittadini di Soveria, non possiamo ignorare il grido di dolore che giunge dai commercianti. Sono loro che ogni mattina con estremo coraggio alzano la saracinesca ed è grazie al loro lavoro che la nostra cittadina ha questo aspetto così vivace. Non c’è termometro migliore del livello di vitalità di una città della quantità e dinamismo dei negozi presenti.

Ma siamo davvero sicuri che la crisi che molti di essi stanno affrontando sia da ascrivere al luogo in cui viene celebrata la Messa domenicale? Siamo sicuri che quel momento in cui la gente entra o esce da Messa abbia un significato così rilevante in termini di fatturato? Perché, se così fosse, i negozi (che pure ci sono) che hanno scelto di abbassare le serrande alla domenica mattina starebbero facendo un errore madornale.

Io credo invece che la situazione sia molto più complessa e che necessiti di una disamina molto più ampia.

Vivo e lavoro a Soveria da vent’anni, partecipo attivamente alla vita sociale e civile della città e credo di avere guadagnato una buona conoscenza della realtà locale che, unita al non essere nato e cresciuto qui, favorisce quella distanza necessaria per esprimere un’analisi il più possibile equilibrata.

Provando a vestire i panni dell’etnografo della domenica (mai immagine fu più calzante), posso dire che, da quando vivo a Soveria, ho sempre la sensazione che uno degli abiti più diffusi sia quello di fare continuamente riferimento a un’età dell’oro che mi pare possa essere collocata tra l’intero decennio degli anni Ottanta e la prima metà degli anni Novanta e a rapportare ogni situazione attuale a quel periodo mitico.

Ora, senza scomodare Baumann e il suo Retrotopia, ci sarebbe un lungo discorso da fare sulla tendenza a rifugiarsi nel passato e a individuare il passato come un luogo felice da abitare, ma non è questa la sede giusta. Basti dire qui che tale habitus non è certo una prerogativa dei soveritani, ma è una tendenza comune della nostra epoca (non a caso un sociologo tedesco ci ha scritto un libro). Per tornare a noi tuttavia dobbiamo constatare come davvero quello sia stato un periodo fortunato per Soveria ma lo è stato anche per la Calabria tutta e per l’Italia intera.

A Soveria c’è stata però una congiuntura estremamente favorevole fatta di amministrazioni pubbliche illuminate, imprenditori che hanno avuto voglia di scommettere e investire, persone che hanno rivestito incarichi pubblici capaci e volenterose… Vi erano poi situazioni che sono state al contempo causa ed effetto di tutto ciò: una popolazione numerosa, un ospedale pienamente funzionante, una parrocchia che conosceva per la prima volta un’organizzazione moderna pienamente inserita in quel nuovo ruolo che il Concilio Vaticano II attribuiva ai laici…

Oggi l’intera Calabria si trova invece in una situazione molto diversa e Soveria non può certo sfuggire a determinate dinamiche.

Intanto il calo demografico. Nel 1991 Soveria contava più di 3.600 abitanti. All’ultimo censimento dello scorso anno erano poco più di 2.900. In questi trent’anni, sono mancate all’appello 700 persone. Numeri del tutto sovrapponibili con quelli di Decollatura che, per via della vicinanza, ha da sempre con Soveria rapporti di tipo anche economico. Ciò vuol dire che tra Soveria e Decollatura, sono venuti a mancare in trent’anni 1.400 abitanti. Praticamente l’intero comune di Carlopoli. I numeri reali sono in realtà molto più impietosi perché i dati che abbiamo considerato non tengono conto di quelle numerose persone che pur residenti in zona non vi abitano abitualmente per ragioni di studio o di lavoro (Sulla questione dello spopolamento scrissi tempo fa un articolo per Il Reventino che potete trovare qui).

In quegli anni poi Soveria vantava uno degli ospedali più efficienti dell’intera regione con reparti di assoluta eccellenza come l’ortopedia e l’ostetricia, capaci di attrarre pazienti non solo dal circondario ma anche da province e persino regioni diverse. Credo non sfugga a nessuno quanto un luogo in cui ci sono continuamente eventi lieti come le nascite e in cui ci sono occasioni che impongono visite da parte di parenti e amici come un’intervento chirurgico e dove vi sia la necessità (come accade con un ricovero) di dovervi soggiornare per qualche giorno – talvolta in maniera inattesa – significhi in termini di acquisto di fiori, dolci, biancheria, oggetti da toeletta…

Vi sono infine questioni poco indagate, squisitamente urbanistiche. Negli ultimi trent’anni il baricentro sociale, economico e commerciale di Soveria si è progressivamente spostato oltre il passaggio a livello che un tempo delimitava fisicamente ma anche simbolicamente la città. La maggiore disponibilità di locali più ampi e comodi ha portato molte attività commerciali a trasferirsi o ad aprire su Viale Rubbettino che oggi ospita tra l’altro due supermercati, tre bar, due grandi negozi di articoli per l’igiene e la casa, uno di articoli e abbigliamento sportivi, uno di tecnologia, una macelleria, un’erboristeria, un grande negozio di arredamento e accessori, un’oreficeria e un punto vendita Upim, più altre attività che non elenco per amore di brevità. Tra non molto, a quanto dicono alcune persone bene informate, si sposteranno nella stessa area anche la farmacia e una delle due gioiellerie del centro.

Non solo, ma anche buona parte degli stessi abitanti di Soveria ha lasciato il centro storico e si è progressivamente trasferita verso Viale Rubbettino e nelle zone residenziali di via Col Vento, Sant’Andrea, via Maigret, il Meleto, via Muccioli, via Longanesi… interi quartieri come “Maraschi” o “il Timpone” sono praticamente disabitati e quanti sono rimasti a vivere in piazza o sul corso si contano sulle dita di poche mani.

Allargando ancora di più lo sguardo dobbiamo tenere poi conto di quanto le abitudini di acquisto e di consumo siano cambiate negli ultimi 30 anni. Se fino ad allora gli acquisti si facevano esclusivamente nel negozio di fiducia con qualche eccezione concessa allo shopping in città come Cosenza, Lamezia e Catanzaro (a proposito, qualcuno si è fatto di recente due passi su Corso Mazzini a Catanzaro?); se fino ad allora “le vendite per corrispondenza” (come si usava chiamarle) erano una prassi poco consolidata che si esplicava al massimo su qualche acquisto fatto sul Postalmarket, oggi il negozio più visitato si trova sul nostro cellulare o sul tavolino dello studio o della camera da letto e si chiama Amazon (più altri negozi simili e “vicini”).

Vogliamo poi parlare delle diverse forme della socialità e dell’intrattenimento? Se negli anni ’80 e ’90, l’unica alternativa al film di terza o quarta visione in TV (specie in estate) era una bella passeggiata sul corso – il classico “struscio” – oggi le occasioni non solo di home entertainment ma anche di scambio e condivisione sono enormemente aumentate e sono raggiungibili facilmente dal divano di casa: da Facebook, WhatsApp, Instagram a Netflix e ai giochi per la Playstation che consentono, tra l’altro, grazie alla rete, di poter giocare in compagnia pur rimanendo ognuno a casa propria. Il lockdown ha accelerato questi processi che erano già in essere, favorendo le forme di socialità e intrattenimento on line.

Ecco, tutti questi elementi vanno tenuti insieme se si vuole ragionare seriamente sul perché la Soveria di oggi non è quella del 1990. Non è cambiato solo il parroco o il sindaco o il maresciallo dei carabinieri (per citare le tre figure più importanti di un paese), è cambiato il mondo intero e ne dobbiamo prendere atto.

Non è riportando la messa delle 11 a San Giovanni che si riportano indietro le lancette dell’orologio.

di Antonio Cavallaro

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