La prima volta che ho sentito parlare di Intelligenza Artificiale, a parte i romanzi e i film di fantascienza, fu nel 1986 o 1987 (più probabilmente) da Marcello Giacomantonio, all’epoca componente della triade di “capi” e menti di TeCom, acronimo che stava ovviamente per Tecnologie della Comunicazione, assieme a Paolo Frignani e Luciano Galliani, entrambi a quei tempi professori di Pedagogia sperimentale nelle università di Ginevra e Ferrara, il primo, e Padova, il secondo.
Alla TeCom, con sedi a Mondavio (un piccolo centro delle Marche), Ferrara e Ginevra, l’Enaip, agenzia di formazione delle Acli, aveva affidato il coordinamento scientifico di tre corsi per la figura professionale di “Tecnologo della comunicazione formativa”, in Trentino Alto Adige, in Puglia e in Calabria. Io frequentavo quello calabrese, a Catanzaro. Sono passati oltre 35 anni da allora, e quella sorta di predizione, o semplice anticipazione del futuro ‒ fate voi ‒ si è puntualmente avverata.
Qualche tempo dopo, in occasione di una delle edizioni di “Job”, che sempre l’Enaip Acli organizzava annualmente presso la Fiera di Verona, ebbi modo di assistere a una conferenza del sociologo Domenico De Masi, e anche lui ne preannunciava l’avvento, seppure in modo indiretto e con un linguaggio non certo da tecnico informatico. In verità lui parlava delle macchine, dei robot per la precisione, che facendo il lavoro fino ad allora destinato al genere umano lo avrebbero liberato dagli impegni più usuranti, ripetitivi, meccanici, del tipo di quelli introdotti nel 1913 da Henry Ford, quando inventò la catena di montaggio per produrre la sua automobile modello T, e di quelli parodiati da Charlie Chaplin nel suo splendido film Tempi moderni del 1936.
Questa sostituzioni di ruoli avrebbe consentito a uomini e donne di avere molto più tempo libero da dedicare ad altro, a cose più piacevoli, a coltivare le arti e le scienze, ad acquisire conoscenza. Si sarebbe così dato vita a un uomo nuovo, frutto di un’evoluzione che lo avrebbe portato a essere più sapiente e più creativo.
Naturalmente sarebbe dovuta intervenire quell’equa redistribuzione della ricchezza di cui si favoleggia da tempo, ma che gli egoismi di chi ha già tanto e vuole sempre di più impediscono di concretizzare. Per realizzarla basterebbe che sia garantita a ogni essere umano un’esistenza dignitosa con i profitti realizzati attraverso il lavoro di macchine, robot e ‒ ora ‒ Intelligenza Artificiale. Ma in questo momento storico, degli auspici di De Masi e ‒ se non ricordo male ‒ anche di Giacomantonio, è rimasta solo la parte negativa che si è presto tramutata in disoccupazione, povertà, diseguaglianza sociale.
Per il momento è la classe operaia quella che ha sofferto maggiormente l’introduzione dei robot senza che siano state trovate le giuste contromisure alla conseguente perdita di lavoro da parte di quella manodopera sostituita da macchine che possono fare le stesse cose a costo zero o quasi. Ma d’ora innanzi, con l’avvento dell’Intelligenza Artificiale, anche i lavori intellettuali e creativi, quelli che si credevano al riparo dalla concorrenza di qualsiasi intelligenza non umana, sono sempre più insidiati.
C’è chi è pronto a giurare che ChatGPT sostituirà gradualmente ma inesorabilmente il lavoro degli artigiani della parola e dell’immagine, tanto per cominciare. Ma un punto debole c’è: bisognerà accontentarsi di rielaborazioni dell’esistente o di semplici “intuizioni” (visto che la piattaforma ha capacità di apprendimento) ma basate sempre su quanto è già presente negli sconfinati archivi di dati da cui le macchine possono attingere.
Non so se potrà essere mai eguagliata da quella artificiale, ma l’intelligenza umana è invece capace di scarti, di salti logici e temporali, con dietro il nulla se non un incrocio intellegibile di sinapsi, uno spruzzo di luce nel buio, un’impercettibile illuminazione quasi divina… No! Non so se una macchina ne sarebbe capace.
Ma se mai questo accadrà in futuro, perché la macchina è capace di imparare e quindi magari imparerà anche a essere creativa… a essere umana, l’umanità dovrà decidere se vorrà delegare le sue più alte funzioni intellettive, se sarà disposta a rinunciare alle sue prerogative di sempre, al pieno controllo sul proprio modo di vivere. Dovrà fatalmente, davanti a un bivio, imboccare una strada che la porterebbe a leggere un romanzo scritto da una macchina, a contemplare in un museo un quadro dipinto da una macchina, a recitare a memoria una poesia scritta da una macchina, e così via…, oppure una strada ‒ che in questo momento appare più che altro un viottolo ‒ che la porterà al gran rifiuto, pur di non perdere la propria identità, la propria umanità.
E finora non abbiamo parlato dei rischi connessi a questa delega in bianco, che sono stati ipotizzati ed esplicitati nel migliore dei modi possibili dallo scrittore Arthur C. Clarke e dal regista Stanley Kubrick nel film 2001: Odissea nello spazio, dove il computer di bordo Hal 9000 sviluppa una sua personalità, ma purtroppo per l’equipaggio dell’astronave Discovery si tratterà di una personalità omicida. Consola il fatto che almeno il capitano David Bowman (e forse quel “man” ‒ uomo ‒ nel suo cognome non è del tutto casuale) riesca ad avere il sopravvento sul computer e lo disattiva progressivamente in quella mirabile scena in cui Hal regredisce allo stadio infantile e poi si spegne.
Siamo apocalittici o integrati? Era il dilemma che, fin dal 1964, nel suo libro Apocalittici e integrati poneva Umberto Eco, riferendosi ai nostri modi di accostarci, allora, alla cultura di massa indotta dal diffondersi dei mezzi di comunicazione. Ma ancora non sappiamo dare una risposta certa a questo suo quesito.
Il nostro approccio all’Intelligenza Artificiale può posizionarsi su uno di questi due poli o, come forse auspicava il grande sociologo, porsi nel mezzo. Sfruttare tutte le potenzialità dell’Intelligenza Artificiale, ma senza mai farsi sopraffare, senza abdicare al proprio ruolo di esseri umani, al proprio dominio sul mondo, giusto o sbagliato (occorre dirlo: soprattutto sbagliato) che sia.
Raffaele Cardamone