Tra le carte che ho trattenuto (quelle storiche sono state consegnate a chi continuerà un lavoro di ricerca e studio sulla Calabria avviato mezzo secolo fa) ho ritrovato alcuni articoli di Mons. Ferdinando Palatucci – nominato vescovo di Nicastro nel 1968 – pubblicati su «reportage» quando l’abbonamento annuo al giornale costava cinquemila lire.
Palatucci scrive: «I poeti fanno pensare agli alberi che fioriscono prima che finisca l’inverno. Sentono l’avvicinarsi della primavera e, mentre dominano ancora il freddo e il grigio del cielo, annunziano speranza di tepore e di chiarezza».
Nelle pagine di «reportage» il vescovo racconta la Calabria nei canti di tre poeti: Mastro Bruno, Vittorio Butera e Franco Costabile. Oggi, a distanza di tanti anni dall’uscita degli articoli, provo ad aggiungere un altro nome a quelli che Palatucci aveva definito “appartenenti alla fascia tirrenica della provincia di Catanzaro”. Il nome è Domenico Adamo. I suoi scritti – al pari di Bruno, Butera e Costabile – riflettono il proprio tempo e i componimenti ci aiutano a capire la società nella quale anch’egli è cresciuto.
Adamo nasce a San Mango d’Aquino nel 1888. Frequenta le scuole elementari e diventa apprendista presso un sarto; nel 1902 va a Napoli per specializzarsi nel mestiere e nel 1908 apre una bottega nel suo paese di origine. Nel 1910 si trasferisce a Savuto di Cleto, dove sposa Francesca Ferraro, e a Savuto nasce la prima figlia. Nel 1912 emigra alla ricerca di un futuro migliore, e in America realizza in parte il suo sogno. Lavora con professionalità e la sartoria gli offre sicurezza economica. La famiglia cresce, i figli studiano e diventano affermati professionisti. Ma la nostalgia non lo abbandona.
Nel 1923 ritorna in Italia e trascorre pochi mesi di vacanza a Cosenza. «Quel breve soggiorno fu molto utile per il mio dialetto, tanto che ritornato a New York, ispirato forse dai canti di Michele Pane, cominciai a scrivere anch’io, incoraggiato da giornali come La Follia di New York, La Verità, ecc…», dirà qualche anno dopo in una lettera inviata ad Alfredo Gigliotti, uno dei primi pubblicisti in Calabria, fondatore a Corigliano Calabro della MIT (Meridionale Industria Tipografica, diventata poi casa editrice) e del quindicinale La Calabria da lui diretto a Cosenza.
Rientrato a Brooklyn, Domenico Adamo pubblica nel 1932 un primo libretto (dieci poesie in vernacolo e quattro in italiano) dal titolo «Musa Bruzia». Dipinge quadri e continua a scrivere. Nel 1954 pubblica un nuovo libretto di poesie con La Nuova Italia Letteraria di Bergamo, edizione arricchita nel 1960 con le immagini dei suoi quadri, con commenti critici da parte di personaggi come Guido Cimino, Pietro Greco, Riccardo Cordiferro, Francesco Greco e con una recensione tratta da Il Progresso Italo-Americano, il più antico e il più letto dei quotidiani in lingua italiana degli Usa.
“Cantore del popolo e della sua terra”, lo definisce Pietro Greco. Ma ciò non basta. Adamo desidera che il suo canto arrivi anche in Calabria, nella terra che lo ha visto nascere e che poi lo ha costretto ad emigrare. Vuole dimostrare che l’America non lo ha cambiato, che le speranze e gli ideali della gioventù sono rimasti integri anche oltre Oceano. Vuole, in un certo senso, contribuire ad affrancare una certa cultura dalla condizione di minorità in cui la classe dominante l’aveva relegata. «Da molti anni avrei voluto vedere i miei versi diffusi nelle mie desolate regioni, ma ne ho visto l’impossibilità e ne ho sentito un senso di scoraggiamento». Questo egli scrive nel 1956. Ed è per questo che continua a pubblicare le sue poesie. Prima con la Casa Editrice di Bergamo, e poi con la M.I.T. di Corigliano. Pasquale Spataro lo inserisce in un’antologia di “Poeti calabresi in America” assieme a nomi come Michele Pane, il poeta di Decollatura, e come Alessandro Sisca (padre calabrese e madre napoletana), poeta e scrittore, autore in dialetto napoletano dei versi di Core ‘ngrato (musica di Salvatore Cardillo), conosciuto con la pseudonimo di Riccardo Cordiferro.
In America, Adamo è ascoltato ed ottiene un posto di rilievo nel Convivio dei poeti italo-americani che spesso si riuniscono al Leone Restaurant nella 48ª strada di New York City. La sua sartoria a Brooklyn diventa luogo di ritrovo per artisti, e spesso la bottega si presentava all’esterno con le tendine abbassate; questo significava – ricorda la figlia Adelina – che Domenico era lì dentro ma non voleva essere disturbato: scriveva versi, oppure dipingeva.
Il suo nome è inserito nel “Repertorio Bibliografico della Letteratura Americana in Italia” – volume III – pubblicato a Roma. Eppure l’eco dei suoi componimenti, la sua voce non giungono in Calabria come egli avrebbe voluto. I suoi versi sono conosciuti da poche persone, alle quali lui stesso aveva inviato i libri, forse anche come segno di riscatto. Emilio Frangella comincia a pubblicare qualche poesia su Calabria Letteraria, la rivista da lui fondata a Longobardi. Ma la sua opera non è conosciuta dalla gente di San Mango, la sua gente. Prova rammarico, per questo; e si sente deluso.
Nel paese di origine, di Domenico Adamo, del figlio di Francesca Tomaino e di Giuseppe, muratore, nessuno parla. Come se ci si vergognasse di quell’uomo che fino all’età di 24 anni era vissuto a San Mango protestando contro le ingiustizie dei signori e denunciando lo sfruttamento di contadini e operai. Cosa poteva aspettarsi, quell’uomo ormai maturo ed emigrato in America, quando molti compaesani ancora lo ricordavano come un giovane che parlava di liberazione e di rivolta, mentre invece la gente accettava il destino, subiva le prepotenze e si rassegnava, perché il dolore consueto era preferibile ad ogni tentativo di cambiamento? Come potevano essere conosciute le sue opere, se le persone non riuscivano a prendere coscienza della condizione di sfruttamento perché la miseria non era solo un dato materiale, ma anche morale, e quindi era un modo di vivere che coinvolgeva tutti, poveri e ricchi, ignoranti e istruiti?
Quando per la prima volta ho avuto fra le mani il primo libretto di poesie – «Musa Bruzia» pubblicato a Brooklyn nel 1932 – ho capito subito perché Domenico Adamo era diventato un poeta solitario, un personaggio poco conosciuto dagli studiosi della letteratura calabrese.
Era il 1966. A Nicastro ero studente alla Ragioneria ma a San Mango con gli amici frequentavo la bottega di vino di Ciccio Marsico e Alessandro Berardelli. Ed è proprio lì – in quella bettola preferita da contadini, mastri artigiani, discepoli e contrapposta ai bar dei benestanti – che ho cominciato a leggere le poesie. La prima era Cara Zampugna («dopu vint’anni de malincunie/cara zampugna te tuernu a sunare…»); e poi U Partenzaru («Io partu, amure mio, ch’aju de fare?/Si n’hanu misu li spalli a li muri/Li ricchi nu’nè lassanu campare/mancu a lu gradu de li servituri…»), U Cantu d’a Miseria («Vena lu juernu chi a musica ‘ncigna/quandu a miseria senta la vrigogna…»); Al Colle Natio («Nel gramo esilio mio di te favello/e spero un giorno rivederti ancora…»), e altre.
Non sapevo, non potevo sapere – allora – che Adamo era morto in America due anni prima, nel 1964. L’ho appreso qualche mese dopo, rovistando nell’archivio comunale. Poi arrivano gli articoli di Mons. Palatucci e una frase in particolare richiama la mia attenzione: «I poeti sono voce della loro gente e del loro tempo. Captano quello che freme nel cuore degli uomini. Colgono attese, delusioni, amarezze, proteste; le interpretano e le esprimono anche per chi non sa esprimerle». Ed è allora che ho deciso di avviare una ricerca sistematica sulla vita e sulle opere di Domenico Adamo, dedicando il mio tempo anche a questa missione.
La strada è stata lunga. Però su questo percorso non sono stato solo. Persone come Giacinto Terenzio dalla Calabria e Antonio Chieffallo dall’America (amici non più in vita), e come Alfredo Chieffallo (con il quale continuo a lavorare per importanti progetti culturali) mi hanno accompagnato e sostenuto. Emilio Frangella con la sua Calabria Letteraria mi ha dato spazio, mi ha guidato e consigliato. Antonio Sposato – con il quale ho scritto il primo libro su San Mango (Premio della Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri), pubblicato nel 1977 da Rubbettino – ha arricchito coi versi di Adamo la cartolina ricordo per il 150° anniversario della “Cona Bonacci”. E infine gli incontri con Adelina, la figlia più piccola di Domenichino (il diminutivo che affettuosamente amici e parenti gli avevano dato); lei, oltre all’amicizia che dura tuttora, mi ha messo a disposizione materiale utile alla ricerca.
E al termine del percorso ho avuto chiara nella mente tutta la vicenda umana e poetica di Domenico Adamo; una vicenda racchiusa tra i luoghi dell’infanzia, le idee giovanili, l’incomprensione dei contemporanei, gli ideali della maturità, le illusioni create dalla rivoluzione d’Ottobre in Russia, il mito del comunismo apportatore di giustizia e felicità, l’attenzione verso i deboli e gli sfruttati, il desiderio di cambiamento, la partenza per l’America, il lavoro, una buona posizione economica, la famiglia, e poi ancora il ritorno in Italia, la rabbia per l’avvento del Fascismo, la ripartenza per l’America, la depressione di Wall Street del 1929, la tenacia, il ricominciare di nuovo, la nascita dei figli, i ricordi, la nostalgia, la bottega con le tendine abbassate e lui dentro che scriveva o dipingeva, gli incontri con altri artisti emigrati…
Attimi di vita, episodi, sentimenti, circostanze comuni ad una schiera innumerevole di donne e uomini costretti a scegliere la via dell’emigrazione per dare un senso ed uno scopo all’esistenza. Ricostruire e diffondere la vita e le opere di Adamo è stato come ricostruire la vita e le opere di questi uomini e di queste donne. E quando nel 2010 l’obiettivo è raggiunto, è stato come saldare un debito di riconoscenza non solo nei confronti di un singolo personaggio, ma nei confronti di tutti gli emigrati – e sono tanti, come mio nonno, mio padre, mia figlia – che hanno abbandonato la terra e le case per andare a vivere, sognare, aspettare altrove. «L’emigrato per potersi stabilire qui deve superare tanti ostacoli, e poi non potrà mai essere felice. Per chi non è nato qui, questa terra sarà sempre un esilio», aveva scritto Domenichino.
La strada è stata lunga e piena di ostacoli. «Domenico Adamo è poeta perché sa scrivere versi semplici, sentiti, limpidi, agili, penetranti e scorrevoli che non ti stancano, né ti annoiano […] È poeta perché difende i suoi fratelli, combatte il vizio, dardeggia la società brutale». Se Angelo Maria Virga (definito caposcuola di pensiero e di arte in terra d’America) introduce con queste parole la prima edizione di «Musa Bruzia» pubblicata a Bergamo, per me diventava un obbligo portare a compimento la missione.
Domenico Adamo è finalmente entrato nelle case di tutti i suoi concittadini. E non solo. Grazie anche alla collaborazione e all’impegno dell’Associazione “Valle del Savuto” (presieduta attualmente da Maria Teresa Falvo), la sua vita e le sue opere sono state diffuse a livello regionale. E oltre ai libri cartacei in circolazione, c’è anche la possibilità di scaricare gratis un Pdf dal sito https://www.academia.edu/41792764/DOMENICO_ADAMO_-_Un_poeta_e_la_sua_terra.
Nel 2010, con il conferimento della Cittadinanza Onoraria alla figlia Adelina (giunta appositamente dalla sua residenza negli Usa), si è chiuso il cerchio e oggi possiamo dire che Domenico Adamo è riconosciuto come uno dei poeti più significativi di San Mango d’Aquino e – perché no? – dell’intero Comprensorio, di un territorio, cioè, che va dal mare ai monti e che unisce il Tirreno con le alture del Mancuso e del Reventino.
di Armando Orlando