di Matteo Cosco –
Dopo le due inchieste giudiziarie sui falsi report e sul disastro, si aggiunge la terza sui depistaggi dopo la strage, quello che la magistratura sta accertando è un quadro inquietante che si sta diffondendo a macchia d’olio: Enrico Valeri dirigente di ASPI, contattò Chiara Murano, funzionaria di Ismes-Cesi – la società di consulenza che nel 2016 svolse alcune verifiche sul ponte Morandi – la quale consegnò un report in cui si evidenziavano anomalie e si consigliava l’installazione di sensori, in realtà mai posizionati. Dopo quel maledetto 14 agosto 2018, che strappò la vita a 43 persone, Autostrade chiese a Ismes-Cesi di re-inoltrare il dossier di due anni prima, ma stranamente scomparve il riferimento ai sensori e si discolpava di fatto ASPI dalle responsabilità sul disastro.
Il silenzio della dirigenza genovese di Autostrade, di fronte ai pm che indagavano sul crollo del ponte Morandi lo scorso 24 settembre, ha subito mostrato la tipica strategia all’italiana della società di fronte alla tragedia nazionale: mantenere un profilo basso e puntare sulla sempreverde diffusione delle responsabilità, sperando che con il tempo l’attenzione dei media si sposti su altre tematiche. Eppure, l’azione della magistratura ha reso ciò impraticabile, aprendo un “Vaso di Pandora” che parla di pressioni della dirigenza su dipendenti e consulenti esterni per “ammorbidire” o modificare documenti che avrebbero invece mostrato difformità, come nel caso del viadotto Paolillo in Puglia e dello stesso ponte Morandi a Genova.
Ecco allora che una parte della risposta alla più scontata, ma giustificata domanda che forse tutti ci siamo fatti la scorsa estate: “Com’è possibile che nel 2018 in uno Stato progredito crolli un’importantissima infrastruttura pubblica?”, si trova tanto nelle responsabilità della dirigenza di ASPI che ha esercitato pressioni indebite, ma cosa ancora più impressionante, anche nell’omertà e nella “cariatidica” subordinazione di alcuni suoi dipendenti e delle società che avrebbero dovuto controllare la staticità e la manutenzione. L’altra parte della risposta a questo interrogativo, risiede nelle responsabilità di uno Stato che ha rinunciato, in maniera più o meno condivisibile, all’erogazione diretta dei servizi pubblici riguardanti i trasporti, ma che non può rinunciare ad esercitare la fondamentale funzione di controllo che doveva rimanere pubblica e che, come insegna il caso di Genova, non può essere delegata ai privati che perseguono l’efficienza economica a discapito della sicurezza delle infrastrutture e dei cittadini.
Il perseguimento del profitto economico attraverso la deregolamentazione e i vulnus normativi dello Stato nella funzione di controllo, hanno permesso ad ASPI di perseguire il proprio interesse a discapito di quello pubblico, ciò induce ad una profonda riflessione circa l’opportunità di nazionalizzarla o commissariarla, ma nonostante i numerosi proclami propagandistici del ministro dei Trasporti Toninelli, che a caldo dopo la tragedia aveva affermato: “Tutto ciò che riguarda i trasporti deve essere nazionalizzato e reso pubblico” sull’intera vicenda non si sono avuti ulteriori sviluppi.
L’azione della magistratura che accerterà le responsabilità di quanto è accaduto, non può sostituire il necessario intervento delle istituzioni che devono offrire una risposta politica, evitando così che dirigenti e personale di aziende private abbiano responsabilità pubbliche non tanto nell’erogazione di beni o servizi, quanto nel loro controllo; che esplica in senso strutturale-funzionale l’ importantissimo compito di latenza meglio esercitabile in grandi sistemi complessi a livello macro attraverso l’amministrazione pubblica.