Venti eroici spettatori in una brumosa domenica di febbraio. Venti piccoli indiani superstiti, che speriamo non debbano soccombere a uno a uno come i dieci personaggi, e le statuine che li rappresentano, nel celebre romanzo giallo di Agatha Christie. Venti persone che si sono ritrovate a essere più ricche e migliori all’uscita dal Teatro Il Piccolo, dopo aver assistito al bellissimo spettacolo di Nino Racco: “Ciao Amore Ciao / vita morte e vita di Luigi Tenco” (prodotto dalla Diteca Centro), che meritava – numericamente – ben altra platea.
Ma per Nino Racco, cantastorie in chiave moderna, non ha fatto alcuna differenza. Lui ha offerto comunque uno spettacolo di altissimo livello, per la qualità dell’interprete e dell’interpretazione, per l’interesse della storia narrata e per l’originalità nel modo di raccontarla, per la statura intellettuale e artistica del protagonista, Luigi Tenco, recuperato da un archivio di memoria fermo agli anni ‘60 e riportato su un palcoscenico del nuovo millennio, a 50 anni dalla sua tragica scomparsa.
Lo spettacolo è basato sulla storia di una canzone, “Ciao amore, ciao”, che i più avanti con l’età ricordiamo bene e che i più giovani hanno ascoltato almeno una volta nelle loro brevi vite. Una storia culminata nel suicidio del cantautore, indotto forse da un’ingiusta eliminazione al festival di Sanremo ma soprattutto dal suo sentirsi improvvisamente incompreso: questa è almeno la versione più accreditata.
Una canzone che Tenco è stato costretto a trasformare più volte nel trascorrere dei pochi mesi che separarono l’atto creativo dall’apparizione al festival, a causa delle ingerenze della sua casa discografica. E sono proprio queste trasformazioni che Nino Racco ci fa rivivere con la musica e le parole, assieme al travaglio che accompagnava ogni modifica e al desiderio di auto-convincimento, da parte dell’autore, di aver fatto ogni volta la cosa giusta.
Dalla prima versione: “Li vidi passare / vicino al mio campo / ero un ragazzino / stavo lì a giocare / erano trecento / erano giovani e forti / andavano al fronte / col sole negli occhi / e cantavano tutti in coro…” All’ultima: “La solita strada / bianca come il sale / il grano da crescere / i campi da arare / guardare ogni giorno / se piove o c’è il sole / per saper se domani / si vive o si muore / e un bel giorno dire basa e andare via…”
Oggi vince a Sanremo una canzone che parla di terrorismo in modo esplicito, ma allora non si poteva parlare di guerra neppure attraverso le immagini più poetiche. Ciò nonostante, Tenco seppe trovare una chiave ugualmente originale nell’ultima versione, parlando del mondo di domani, del futuro prossimo venturo, di una società che da agricola si stava trasformando – forse troppo rapidamente – in una industriale.
Questo ci ha raccontato il cantastorie Nino Racco, fino ad arrivare all’epilogo, agli ultimi momenti dello spettacolo in cui ha preferito far riecheggiare i versi di Fabrizio De Andrè, uno degli amici più cari di Tenco. Ma non quelli della canzone che pure gli ha dedicato (Preghiera in gennaio), bensì quelli universali de “La guerra di Piero”, magari quella stessa guerra che andavano a combattere i suoi trecento soldati e che non gli è stato concesso di cantare a Sanremo: “Dormi sepolto in un campo di grano / non è la rosa non è il tulipano / che ti fan veglia dall’ombra dei fossi / ma sono mille papaveri rossi.”
Al termine della giusta celebrazione per uno spettacolo che ha saputo lasciare il segno, dobbiamo però pur chiederci perché Soveria Mannelli, dall’alto della sua tradizione culturale, non ha riempito i poco più di 50 posti de Il Piccolo. Mi sovviene la concomitanza con la festa di carnevale, con altri spettacoli e occasioni forse più divertenti e da vivere in modo più spensierato, più adatte al clima festoso di questi giorni, ma neppure questo può giustificare tutti quei posti desolatamente vuoti.
di Raffaele Cardamone
*) Le foto di scena sono state realizzate e fornite dallo staff de Il Piccolo.