Nel cinema italiano ci sono due scene in cui i protagonisti scrivono delle lettere che sono diventate più famose di ogni altra: quella di Totò e Peppino alla ballerina e fidanzata del giovane nipote, in “Totò, Peppino e la… malafemmina”, e quella di Benigni e Troisi al Savonarola, in “Non ci resta che piangere”, che d’altronde è una riuscitissima citazione della precedente.
Nella prima, Totò e Peppino cercano di dissuadere, a suon di centomila lire, una ballerina di avanspettacolo, mestiere disdicevole per i tempi, dal convolare a nozze con il nipote ancora studente. Nella seconda, Benigni e Troisi, rispettivamente un maestro e un bidello, proiettati improvvisamente nel medioevo, tentano di convincere il Savonarola a salvare la vita del loro amico Vitellozzo e a moderare un po’ la sua proverbiale intransigenza.
Ma una lettera dal sicuro effetto comico, capace di suscitare nel contempo riflessioni e considerazioni profonde, in questo caso sui temi della dittatura e della guerra, è contenuta anche nel libro “Ed ora non rubo più” di Giosuè Arcuri (Gastaldi Editore, Milano, 1958).
In questo caso, la lettera ha anche il pregio di tenere in vita personaggi e luoghi di una Soveria Mannelli che non c’è più, essendo ormai passati circa settanta anni dai fatti narrati, collocabili intorno alla fine della II guerra mondiale.
Ma ora è il caso di soffermarci su questo straordinario esempio di scrittura che sa toccare con equilibrio sorprendente i registri del serio e del faceto e che, in definitiva, non ha molto da invidiare ai due ben più celebri esempi citati in apertura:
<< “A proposito – domandò Santo – Giovanni scrive?”
“Si, – rispose zio Antonio – ecco la lettera, ve la leggo.”
Tirò con cura una lettera dalla tasca e lesse:
“Mio adorato padre, rispondo con ritardo alla Vostra desiderata lettera, perché è venuto a trovarmi Pandolfo e assolutamente voleva portarmi da Posillo. A dire la verità ho fatto di tutto per non andare da lui e fintanto che posso evitarlo voglio stare lontano. Avevo tentato di andare nel reparto di don Luigino Costanzo, ma non ci sono riuscito, d’altra parte è stato meglio, perché forse mi avrebbe fatto pagare cara la visita. Pasquale Anastasio è sempre un tipaccio, una volta dimostra di volermi bene e dieci volte non mi guarda in faccia. State tranquillo e cercate di assisterVi, non avete preoccupazioni per me.
Abbracci a Voi e a mia madre. Giovanni.”
“Meno male.” Concluse Santo con apparente sollievo.
“Meno male un corno – osservò zio Antonio – non hai capito nulla: Pandolfo è quello di Nicastro che prepara i fuochi pirotecnici in occasione delle feste, quindi i bombardamenti sono frequenti; Posillo è il custode del cimitero, quindi Giovanni ha rischiato di rimetterci la pelle; Don Luigi Costanzo è il dottore di Soveria Mannelli, significa quindi che il mio caro Giovanni aveva tentato di farsi riconoscere malato, ma non c’è riuscito; Pasquale Anastasio ha il negozio di generi alimentari, pertanto il riferimento a lui deve intendersi che il mangiare una volta arriva e dieci volte no. Comprenderete che Giovanni adopera queste allegorie per sfuggire alla censura.” >>
Si, proprio per sfuggire alla censura e fare in modo che il padre potesse capire il vero significato delle sue lettere, Giovanni “il bersagliere”, utilizzava una particolare figura retorica, l’antonomasia, che associa un concetto al nome di una persona conosciuta per la sua storia o per le sue imprese.
Per la tranquillità di tutti voi, aggiungiamo che Giovanni riuscì a tornare da quella disastrosa guerra in Africa, e visse a lungo, facendo – benissimo – il mestiere di barista, nel suo locale denominato non a caso “il Bersagliere”, posto al centro di corso Garibaldi a Soveria Mannelli.